Alain de Benoist, La fine della Sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli. Arianna editrice, www.gruppomarcro.com, Cesena 2014, pp. 127, € 9,80.
Con questo saggio de Benoist segna un’altra tappa delle sue riflessioni, volta a demistificare le idee, ma meglio sarebbe dire i pregiudizi, con cui si cerca di costruire sulle ceneri di un mondo dove bene o male “la maggior parte dei bambini sapeva leggere e scrivere, si ammiravano gli eroi invece delle vittime, gli apparati politici non si erano ancora trasformati in macchine per stritolare le anime e si avevano a disposizione più modelli che diritti. Era un mondo, nel quale si poteva capire cosa intendeva dire Pascal, quando sosteneva che il divertimento ci distrae dall’essere veramente uomini. Era un mondo, nel quale le frontiere garantivano, a coloro che vivevano al suo interno, un modo di essere e di vivere che era di loro specifica pertinenza. Era un mondo, che aveva anche i suoi difetti e che talvolta è stato addirittura orribile, ma in cui la vita quotidiana della maggior parte delle persone era quanto meno garantita da dispositivi di senso, in grado di dare dei punti di riferimento”. Il nuovo che dovrebbe succedergli consiste in una “sorta di cesarismo finanziario che consiste nel governare i popoli tenendoli in disparte”. Lo Stato “terapeutico e gestionale” in tale quadro “basa il proprio potere sulla costituzione assolutamente volontaria di una situazione subcaotica, sullo sfondo di una fuga in avanti e di un’illimitatezza generalizzate, creando in tal modo una condizione di guerra civile fredda”. La “mondializzazione” (che corrisponde a ciò che in Italia è denominato “globalizzazione”) “non è nient’altro che il processo geo-storico di espansione progressiva del capitalismo in scala planetaria, l’espansione planetaria del principio del libero mercato”. Condizione perché questo avvenga è che l’area delle decisioni pubbliche (politiche) venga ridotta, ma soprattutto finalizzata al “sistema” capitalistico, nella forma dominante che ha assunto, ovvero quella finanziaria. De Benoist si chiede “Chi sono i grandi perdenti della mondializzazione? sono chiaramente i governi e gli Stati. Rimane tuttavia da capire se è stata la mondializzazione a portare all’indebolimento degli Stati, oppure se è stato l’indebolimento degli Stati (insieme alla disintegrazione dei valori collettivi, che prima strutturavano il corpo sociale) a permettere la mondializzazione”.
Con questo saggio de Benoist segna un’altra tappa delle sue riflessioni, volta a demistificare le idee, ma meglio sarebbe dire i pregiudizi, con cui si cerca di costruire sulle ceneri di un mondo dove bene o male “la maggior parte dei bambini sapeva leggere e scrivere, si ammiravano gli eroi invece delle vittime, gli apparati politici non si erano ancora trasformati in macchine per stritolare le anime e si avevano a disposizione più modelli che diritti. Era un mondo, nel quale si poteva capire cosa intendeva dire Pascal, quando sosteneva che il divertimento ci distrae dall’essere veramente uomini. Era un mondo, nel quale le frontiere garantivano, a coloro che vivevano al suo interno, un modo di essere e di vivere che era di loro specifica pertinenza. Era un mondo, che aveva anche i suoi difetti e che talvolta è stato addirittura orribile, ma in cui la vita quotidiana della maggior parte delle persone era quanto meno garantita da dispositivi di senso, in grado di dare dei punti di riferimento”. Il nuovo che dovrebbe succedergli consiste in una “sorta di cesarismo finanziario che consiste nel governare i popoli tenendoli in disparte”. Lo Stato “terapeutico e gestionale” in tale quadro “basa il proprio potere sulla costituzione assolutamente volontaria di una situazione subcaotica, sullo sfondo di una fuga in avanti e di un’illimitatezza generalizzate, creando in tal modo una condizione di guerra civile fredda”. La “mondializzazione” (che corrisponde a ciò che in Italia è denominato “globalizzazione”) “non è nient’altro che il processo geo-storico di espansione progressiva del capitalismo in scala planetaria, l’espansione planetaria del principio del libero mercato”. Condizione perché questo avvenga è che l’area delle decisioni pubbliche (politiche) venga ridotta, ma soprattutto finalizzata al “sistema” capitalistico, nella forma dominante che ha assunto, ovvero quella finanziaria. De Benoist si chiede “Chi sono i grandi perdenti della mondializzazione? sono chiaramente i governi e gli Stati. Rimane tuttavia da capire se è stata la mondializzazione a portare all’indebolimento degli Stati, oppure se è stato l’indebolimento degli Stati (insieme alla disintegrazione dei valori collettivi, che prima strutturavano il corpo sociale) a permettere la mondializzazione”.
Questa è la novità del presente: fino alla metà del secolo scorso il “politico” e l’ “economico” andavano avanti sostanzialmente di pari passo: il capitalismo aveva avuto bisogno dello Stato moderno, del potere razionale-legale, del monopolio statale della decisione politica e della forza legittima per espandersi e rimuovere gli ostacoli alla propria crescita. Ora è lo Stato moderno la principale (possibile) remora ad un ulteriore consolidamento dell’assetto economico (nella forma che ha assunto) e di conseguenza la sovranità (dei popoli) che dello Stato (democratico) moderno è l’intralcio essenziale.
Sono molte le riflessioni che il saggio suscita – così come l’attenta prefazione di Edoardo Zarelli. Cerchiamo di evidenziare le più interessanti, due per tutti i lettori, e una, specifica, per gli italiani.
La prima: se è vero che politico ed economico, come scriveva Freund, sono due essenze, c’è altrettanta possibilità di (eliminare o) sottomettere il politico da parte dell’economico che viceversa. Piuttosto, a seguire M. Hauriou e O. Spengler, l’importanza e la percezione decisiva del prevalere dell’uno sull’altro, dipende dalle vicende ed epoche storiche. E il tutto consegue più dal sentire comune del periodo che da altri fattori “reali” (come tecniche di produzione, norme giuridiche, risorse finanziarie ed economiche). Il che da un lato suggerisce un metodo di lotta e resistenza alla globalizzazione, di cui questo libro è un esempio: costruire un common sense diverso (e spesso opposto) a quello favorito dalla propaganda, assordante e/ o insinuante, del “sistema”. Dall’altro che se il prevalere del “denaro”, come scriveva Hauriou, è uno dei fattori e segnali della fase di decadenza delle comunità umane a questa succede un ciclo ascendente, fondato su nuovi fondamenti spirituali, religiosi soprattutto, ciò può darci una speranza. Che è poi la consapevolezza che la fine della storia non c’è e, quel che più rileva, non è questa, la quale casomai è la fine di un ciclo, o di un’epoca.
L’altra è che nella “pars costruens” nell’edificazione di istituzioni che garantissero e proteggessero l’economia capitalista, la preferenza è andata ai Tribunali, cioè a un potere giudiziario svincolato dello Stato: questo non fa più “parte” dello Stato, ma è da questi svincolato e loro superiore. La diffusione di questi organismi nel secondo dopoguerra è stata impressionante. Se Hegel affermava con ragione che “non c’è Pretore tra gli Stati”, ora si può – con altrettanta ragione – sostenere che ve ne sono, e fin troppi. Ma questa predilezione verso il potere giudiziario (in specie non statale) deriva dai caratteri di tali organismi, che non sono d’investitura popolare, in cui la subordinazione di questi agli stessi Stati praticamente non esiste – almeno nella maggioranza dei casi - e spesso statuiscono in base a norme dal contenuto vago, e talvolta senza un reale supporto normativo “esterno”. In sostanza una giurisdizione nei fatti tendenzialmente autoreferenziale, ma soprattutto – quel che più conta – svincolato – o poco vincolato – dal controllo statale. Il che ne fa graditi strumenti “regolativi” per il capitalismo post-moderno.
La terza riflessione (per gli italiani). L’Italia è un paese che ha la caratteristica, contraddittoria, di essere tra i primi dieci-quindici del mondo quanto alle attività private, ma uno dei peggiori piazzati quanto a funzioni e servizi pubblici. È inutile stare a citare i macro-dati relativi: sta di fatto che questo connotato di una società vivace, almeno fino a qualche decennio orsono, e di apparati pubblici poco efficienti e (quindi) largamente parassitari, ne fa un caso pressoché unico in Europa (a limitare geograficamente il paragone). A prescindere da tutto quello che potrebbe scriversi in merito, la causa principale (ma non esclusiva) di ciò era ed è l’assetto policratico della costituzione materiale, caratterizzata dal frazionamento pluralistico delle potestà pubbliche, dalla scarsa capacità decisionale e dalla difficoltà di trovare momenti di sintesi.
Connotati che, presenti nella prima repubblica hanno continuato ad esserlo – con qualche correzione insufficiente - anche nella “seconda”, assumendo solo un nuovo nome: poteri forti (proprio perché quello democratico è debole).
Questa debolezza strutturale, peraltro officiata da non pochi conservatori dell’esistente, ha mostrato la sua specifica fragilità con la crisi economica. Alla corrosione interna, si è aggiunta – ed era logico, quella della finanza internazionale, più o meno collegata con (gran) parte dei “poteri forti” interni.
Occorre all’uopo ricordare che la rappresentazione di questa situazione, che nasconde sotto la protezione dei diritti individuali e “sociali” (quest’ultimi sempre meno), la volontà di dominio (e sfruttamento) e il rifiuto di responsabilità chiare e dirette, l’ha data Carl Schmitt, sostenendo che i diritti individuali (a contenuto liberale o socialista) sono “i coltelli coi quali potenze anti-individualistiche macellavano il Leviatano, spartendosene le corna” .
E in effetti l’effetto sinergico nella demolizione e spartizione del Leviatano dei “poteri forti” interni e di quelli esterni è la chiave di lettura della crisi italiana contemporanea, di uno Stato (e una classe dirigente) debole, aperta o esposta a qualsiasi sopraffazione, e come profetizzava alla Costituente V.E. Orlando ad ogni “servilità”.
Teodoro Klitsche de la Grange
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