Se ci si chiede
qual è la linea che divide il centrodestra e il centrosinistra sulle riforme
volte a migliorare la governabilità
dell’Italia, servendosi delle affermazioni (pubbliche) degli ultimi trent’anni,
ne risulterebbe che la sinistra non ha le idee chiare. Si è divisa sia
sull’oggetto da riformare (costituzione e/o legge elettorale?) sul carattere
(premierato, fiducia costruttiva) nonché sulle tante varianti in cui possono
declinarsi. Ma i connotati comuni a queste varie soluzioni sono due: opporsi a
quanto propone il centrodestra e impedire un potere governativo forte e legittimato dal consenso popolare.
Al contrario quelle del centrodestra sono connotate dall’inverso: realizzare un
potere governativo forte e legittimato dal popolo.
Vediamo come le
modifiche alla Costituzione proposte nel testo, approvato dal Senato il mese
scorso, vadano in tal senso.
Le modifiche più
rilevanti sono quelle all’art. 92, e in particolare che “Il Governo della
Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che
costituiscono insieme il Consiglio dei ministri. Il Presidente del Consiglio è
eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni, per non più di due
legislature consecutive… Le elezioni delle Camere e del Presidente del
Consiglio hanno luogo contestualmente. La legge disciplina il sistema per
l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su
base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle
Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio” e di
conseguenza che “Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del
Consiglio eletto l’incarico di formare il Governo; nomina e revoca, su proposta
di questo, i ministri”. Ma ad evitare che il Presidente del Consiglio
legittimato dal corpo elettorale non ottenga dalle Camere la fiducia
riconosciutagli dal popolo, è modificato l’art. 94 così “…il terzo comma è
sostituito dal seguente:« Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si
presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non sia
approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il
Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare
il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la
fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento
delle Camere”. A ulteriore garanzia da manovre di palazzo è disposto “b) sono
aggiunti, in fine, i seguenti commi:
“In caso di
revoca della fiducia mediante mozione motivata, il Presidente del Consiglio
eletto rassegna le dimissioni e il Presidente della Repubblica scioglie le
Camere”. Quindi niente governi tecnici, balneari, d’emergenza e così via. E
prosegue “Negli altri casi di dimissioni, il Presidente del Consiglio eletto,
entro sette giorni e previa informativa parlamentare, ha facoltà di chiedere lo
scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, che lo dispone.
Qualora il Presidente del Consiglio eletto non eserciti tale facoltà, il
Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di formare il Governo, per
una sola volta nel corso della legislatura, al Presidente del Consiglio
dimissionario o a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del
Consiglio.
Nei casi di decadenza,
impedimento per-manente o morte del Presidente del Consiglio eletto, il
Presidente della Repubblica conferisce l’incarico di formare il Governo, per
una sola volta nel corso della legislatura, a un parlamentare eletto in
collegamento con il Presidente del Consiglio”.
È evidente in
tali disposizioni l’intento di blindare la nomina del Presidente del Consiglio;
di predisporre che lo stesso abbia la maggioranza alle Camere, contemporaneamente
elette; che se la sostituzione del Presidente del Consiglio sia necessitata, il sostituto deve far parte della maggioranza “collegata” al sostituendo; l’iniziativa del Presidente
della Repubblica è minima, perché vincolata
al mancato ottenimento della fiducia o al sopravvenire di una revoca della
fiducia parlamentare prima concessa.
Lo scioglimento
delle Camere, che già un tempo (prima del consolidamento dei regimi parlamentari)
era un istituto per lo più usato dai monarchi per “addomesticare” il Parlamento,
è divenuto da secoli un mezzo per risolvere le crisi della democrazia
parlamentare.
Mentre fino alla
Restaurazione l’uso era quello, successivamente divenne lo strumento per decidere
conflitti istituzionali facendo appello al corpo elettorale, in sintonia con l’allargamento
della base democratica dello Stato.
E divenne così,
prevalentemente, d’iniziativa del Primo Ministro. Attualmente gli scioglimenti
possono ricondursi a due specie: a iniziativa del Presidente della Repubblica o
a quella del Primo Ministro. Nella novella costituzionale vi sono entrambe
anche se quella del Presidente della Repubblica è vincolata sia nei presupposti
che nelle persone da nominare (collegate politicamente al sostituendo). È (anche)
una normativa anti-ribaltone con un
ossequio alla volontà popolare manifestata nella fiducia ad una
maggioranza di governo a cui comunque deve appartenere il sostituto. È evidente che tale novella è rivolta contro la prassi, invalsa
negli ultimi decenni, dei governi (e delle relative “coalizioni”) non
rispondenti alla volontà popolare. Il cui esempio più evidente è quello del
governo Monti, il cui partito, un anno dopo le dimissioni del suddetto,
riportava alle elezioni europee lo 0,7% dei suffragi. A conferma del fatto che a
Monti, mai eletto in qualche consultazione popolare, mancava (prima e dopo) il
consenso. Quanto al potere del Presidente della Repubblica, anche qui c’è una riduzione, anche se conserva tutti (gli
altri) poteri conferitigli dalla Costituzione: gli resta solo difficile
organizzare o assentire “ribaltoni”, come capitato nella storia recente. E a
farne le spese sono anche (alcuni) di quei poteri indiretti che prosperano se
un governo è debole e sostituibile. Ma questo è un altro capitolo.