Tra gli effetti
non ricercati né voluti del supermalus
è di evidenziare presupposti, conseguenze, illusioni e derivazioni (nel senso di Pareto) del Welfare all’italiana, tanto invocato nelle esternazioni pubbliche,
soprattutto della “sinistra” italiana, quanto disatteso nelle pratiche di
governo (della stessa).
Partiamo dal
dato quantitativo dei beneficiari
della misura: riporta la stampa che sono stati il 4% degli immobili italiani (e
dei proprietari). Onde questo 4% dei proprietari è stato finanziato a carico
del 100% dai contribuenti. Solo un cittadino su 25 ha le ragioni per rallegrarsene,
e gli altri di dolersene. A meno che quest’ultimi non siano entusiasti di aver
arricchito qualcuno che non è loro amico, parente o che abbia bisogno di un
aiuto; ma ne dubitiamo.
Anche perché se
il criterio della felicità collettiva è come sosteneva Bentham, di garantire la
più grande felicità per il maggior numero possibile di persone; proprio per il
ridottissimo numero dei beneficiari, la misura non ha centrato l’obiettivo.
Neppure pare
possibile sostenere che a beneficiare del superbonus
sia stato l’ambiente, il pianeta o magari l’umanità. Anche fosse certo (ma non
lo è) che a determinare l’aumento della temperatura della terra fossero state
le emissioni di CO2 dovute (prevalentemente) dall’industrializzazione crescente
(iniziata da circa 2 secoli abbondanti), quanto possano contribuire alla riduzione il 4% dei condomini italiani? Un
milionesimo del carbone bruciato da Cina ed India? O forse molto meno?
Comunque una quantità
trascurabile, di guisa da rendere una giustificazione del genere il prodotto di
un’involontaria comicità.
All’uopo il
rapporto così squilibrato tra beneficiati e pagatori del supermalus era trascurato, anche perché è profondamente significativo.
Se, declinando il
criterio di Bentham i beneficati sono così pochi e i pagatori la quasi totalità:
è evidente che il tutto configura un modello distributivo invertito rispetto a quello cui siamo abituati dal
pensiero moderno. Prendendo per esempio quello marxista, la società comunista (e
prima la dittatura del proletariato) avrebbe ottenuto il risultato di
espropriare la ricchezza accumulata da pochi capitalisti sottratta e restituita
alle masse proletarie e degli sfruttati, costituenti la stragrande maggioranza
della popolazione. Invece il modello
distributivo del supermalus è
quello più spesso praticato:
consistente nel trasferire la ricchezza da una massa (di sfruttati) a un’aristocrazia
di beneficiati per decisione (politica) di chi governa.
Il tutto
accompagnato dal coro ipocrita e costante di “giustizia sociale” e magari di “lotta
all’evasione”: che, nel caso c’entra poco, trattandosi di squilibrio e
disuguaglianza nelle spese e non nelle entrate. La quale avrebbe bisogno di un’espressione
dedicata a designarne i beneficiari: forse mantenuti? Pescecani? Profittatori? O
forse come da un vecchio monologo di Pippo Franco Parassati (ossia parassiti di
Stato)?
Non sembra
neanche sanabile la narrazione sul supermalus, facendo ricorso a ovvietà,
come quella, nota da quasi un secolo, che la spesa pubblica stimola la ripresa
economica, anche se è inutile. Guerre (in particolare) ed altro, come la
costruzione delle piramidi in Egitto, hanno un effetto positivo, scriveva Keynes.
Ma il tutto non
esclude – né lo affermava il grande economista – che le spese produttive lo abbiano di più, e
soprattutto non hanno gli inconvenienti
delle altre.
Al riguardo i sostenitori
del supemalus hanno dimenticato che a
beneficiare o meno della spesa pubblica,
sono individui e non solo l’insieme. Contare come grande successo l’aumento di
un punto del PIL ha la stessa logica della statistica del pollo di Trilussa:
che se io mangio un pollo, e altri tre fanno la fame, significa – statisticamente
– che abbiamo mangiato tutti un quarto di pollo a testa. Il che non è.