DEMOCRAZIE ILLIBERALI?
1.0 Dall’ascesa
del populismo va di gran moda – dall’altra parte della “barricata” – parlare di
democrazie illiberali.
Si è scoperto che
“democrazia”, questo termine dalle molte definizioni, non è solo quella
conosciuta nell’Occidente moderno: ma ve ne sono altre. Talk-show e commentatori, insomma, hanno ri-scoperto Benjamin
Costant che, paragonando la libertà degli antichi a quella dei moderni ne
evidenziava le differenti caratteristiche[1].
2. Per lo più tale
illiberalismo dei vari Orban, Trump (?), Erdogan, Putin (scusate qualche
omissione) e soprattutto Salvini-Di Maio è giudicato tale perché tende a
promuovere una forma democratica di governo senza quelle garanzie che fanno
parte della cultura liberale (libertà di manifestazione del pensiero, di
associazione, di eguaglianza giuridica, in taluni casi di libertà personale).
Secondo Orban il modello è quello di una “democrazia cristiana illiberale”
questa si propone “di difendere i principi originati dalla cultura cristiana,
quali la dignità umana, la famiglia, la nazione. E, pertanto, mentre la
democrazia liberale è a favore del multiculturalismo, è pro-immigrazione e
accetta diverse forme di unione familiare, al contrario, la democrazia
illiberale dà priorità alla cultura cristiana, è anti-immigrazione e poggia sui
fondamenti del modello familiare cristiano”. A giudizio di Sabino Cassese “Il
primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una
“democrazia illiberale”. Questo è un disegno impossibile perché la democrazia
non può non essere liberale, La democrazia non può fare a meno della libertà
perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è
libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non
ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio
pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di
associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può
organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non
organizzare consenso e dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati
nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche
possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine
giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà
personale può essere limitata per ordine del ministro dell’interno (come è
accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in
pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De
Riggiero, nella sua Storia del
liberalismo europeo. I principi democratici sono «la logica esplicazione
delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a
tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi”.
Il tutto prefigura
uno scontro di civiltà; come si legge
sul Foglio (P. Peduzzi) del 28/08/2018 “la democrazia è diventata un patrimonio
delle élite liberali, un privilegio acquisito di qualcuno a danno di altri. Se
parli e difendi la democrazia sei figlio delle élite, della globalizzazione,
dell’apertura, di quella cultura di mobilità e occasioni che fa parte
dell’occidente: le nostre libertà non sembrano più un patrimonio comune, ma un
ammennicolo di chi non comprende, o addirittura ignora e rifiuta, la volontà
del popolo, la sua pancia… la democrazia liberale è un’equazione formata da due
elementi principali. Uno riguarda la protezione delle persone da varie forme di
tirannia – è il sistema istituzionale di divisione dei poteri. Il secondo
riguarda il potere del popolo, la maggioranza che segnala qual è il proprio
miglior destino” ma attualmente “lo scontro culturale si è trasformato del
tutto. Da una parte ci sono dei democrati illiberali, una democrazia con pochi
diritti, dall’altra c’è il liberalismo non-democratico, molti diritti senza
democrazia, entità sovrazionali come l’Unione europea. In mezzo gli elettori
che tra rabbia, malcontento, solitudine, intolleranze di vario tipo si muovono
contro il sistema dei partiti tradizionali”. Al punto in cui siamo “la vittoria
di Viktor Orban in Ungheria è la rappresentazione di questo scivolamento e
della dicotomia tra democrazia e liberalismo… Il premier ungherese ha farcito
la sua retorica elettorale e di governo con un piano preciso, che ha delineato
lui stesso nel discorso che ha tenuto il 16 marzo scorso, in occasione del
170esimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1848: “L’Europa, e al suo
interno anche noi ungheresi, è arrivata a un punto di svolta della storia
mondiale. Le forze nazionali e globaliste non avevano mai regolato i conti in
modo così palese e pubblico prima d’ora. Noi, milioni di persone con forti
sentimenti nazionali, siamo da una parte; le élite dei ‘cittadini del mondo’
sono dall’altra. Noi che crediamo negli stati-nazione, nella difesa dei
confini, della famiglia e del valore del lavoro siamo da una parte. Contro di
noi ci sono quelli che vogliono le società aperte, un mondo senza confini e
senza nazioni, nuove forme di famiglia, lavori poco considerati e lavoratori a
buon mercato – e sono tutti sovrastati da un esercito di burocrati nell’ombra
che non devono rendere conto a nessuno. Da una parte ci sono le forze nazionali
e democratiche; dall’altra le forze sovranazionali e antidemocratiche”. Tale scontro
di civiltà anni fa ho pensato che fosse meglio riconducibile ad un nuovo
contenuto della prevalente
opposizione amico/nemico, che ha ridisegnato sia il “campo” della contesa che
gli avversari[2].
La concezione
della successione dei diversi discriminanti del politico e dei relativi “campi”
è stata esposta da Carl Schmitt[3].
3. Sul piano
concettuale democrazia e liberalismo sono stati distinti. La prima è un regime
politico, che individua nel popolo il titolare della sovranità e quindi del potere politico; il secondo una “tecnica”
per la limitazione del potere. In
questo senso il liberalismo può accedere a qualsiasi regime politico “puro”:
monarchia, aristocrazia, democrazia e loro “combinazioni” (status mixtus); nella storia ha generato sempre degli status mixtus, ma è prevalentemente
associato alla democrazia.
Secondo la critica
di Schmitt all’ideologia liberale manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a
intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di
limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un
principio politico costitutivo è
vano. Come ricorda Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce
nulla”.
Ne consegue, come
scrive Schmitt nella Verfassungslehre,
che “i principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno
Stato, ma da soli non fondano una forma politica […] Da ciò consegue che in
ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali”
(il corsivo è mio).
Il liberalismo può
modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una
democrazia liberale, ma non può
eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si
basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in sé
autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi
politico-formali”.
L’errore di
credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né
soprattutto senza elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16
della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino del 1789: “Toute
Sociétè dan laquelle la garantie des Droits n’est pas assurée, ni la séparation
des Pouvoirs déterminée, n’a point de
Constitution” (il corsivo è mio). Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo
criticava nelle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Stael. Scriveva
de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente da secoli come la Francia, non
avesse una costituzione, è come comandare a un arzillo ottuagenario se è
costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo
dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è ,
una costituzione. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto
assoluto di costituzione come “concreto modo
di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente” e la cui forma “indica
qualcosa di conforme all’essere, uno status,
e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente
dovuto”. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come “vera” o “pura”
costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di
costituzione”. Ma ritiene il giurista di Pewttenberg “una costituzione che non
contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe
impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da
controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[4].
Pertanto è
evidente che nell’espressione “democrazia liberale” il sostantivo designa la
forma politica (del potere), l’aggettivo le limitazioni introdotte al medesimo
potere (i principi dello Stato borghese). Onde ben può esistere una democrazia
– e in effetti ne sono esistite tante – che non sia limitata dall’aggettivo. Per la precisione alcuni dei diritti,
garantiti della Costituzione, non sono solo necessari alla tutela del diritto
del singolo, ma anche allo stesso esercizio libero e reale delle procedure
democratiche – elezioni in primo luogo – come sottolinea Cassese.
L’ “illiberalismo”
non consisterebbe nella mancanza di
protezione dei diritti fondamentali, ma specificamente di alcuni di essi, particolarmente incidenti sulla formazione
dell’opinione pubblica e sulla (concreta) libertà di decisione dei componenti
il corpo elettorale.
Nella tipologia
dei regimi democratici descritti da Norberto Bobbio nella voce “democrazia” del
Dizionario di politica, le democrazie
illiberali andrebbero ricondotte alla terza specie delineata dallo studioso
torinese[5].
Quindi democrazie
non liberali esistono, ma sono democrazie un po’… farlocche.
Nel notissimo
discorso di Gettysburg, Lincoln chiese, nel luogo dove le cannonate nordiste
avevano (da poco) autorevolmente interpretato
a chi appartenesse la sovranità, una “definizione” di democrazia che è il caso
di considerare.
Il Presidente dopo
aver esordito “i nostri avi diedero vita, su questo continente, ad una nuova
nazione, concepita nella Libertà e consacrata al principio secondo cui tutti
gli uomini sono creati uguali” e ritenuto che il suolo della battaglia era
consacrato dagli uomini che vi erano morti, cui nulla potevano aggiungere i
vivi, concludeva così “Siamo piuttosto noi a dover essere consacrati al gran
compito che ci rimane di fronte: che da questi nobili caduti ci venga
un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero l’ultima
piena misura della devozione; che noi qui solennemente ci si impegni a che
questi morti non siano morti invano; che questa nazione, a Dio piacendo, abbia
una rinascita di libertà; e che l’idea di
un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra”.
Lincoln ribadiva
così il legame tra Nazione e democrazia, già istituito da Sieyes. Una nazione di liberi ed uguali, che proprio
perché tali hanno pari opportunità di accedere a (tutte) le funzioni pubbliche
ed uguali diritti politici, il cui governo doveva essere sorretto dalla volontà
e dal consenso popolare, e l’attività del quale doveva essere indirizzata e
perseguire l’ “interesse generale” del popolo. A cui ovviamente, apparteneva la
sovranità che così costituiva un potere eminente (anche “costituente”) al di sopra
la legislazione e l’apparato pubblico e il cui esercizio era inalienabile ed
inappropriabile (v. anche l’art. 3 della dichiarazione dei diritti francese del
1789 “Nul corps, nul individu ne peut exercer d’autorité qui n’en émane
expressément”.
L’espressione di
Lincoln, nella sua icasticità, non si presta a includere i principi dello Stato borghese (anche se non li
esclude): al concetto di democrazia che se ne ricava, il liberalismo accede,
come scritto, quale aggettivo.
4. Comunque è un
fatto che la lotta della borghesia per il potere, si basava su due richieste
fondamentali congiunte: la partecipazione alla direzione politica (elemento democratico)
e garanzie dal potere politico
(distinzione dei poteri e tutela dei diritti): tra i due c’è un evidente
contraddizione poiché, almeno in determinate condizioni, la direzione politica,
o meglio la sovranità, richiede la deroga della distinzione dei poteri che
dalla tutela dei diritti fondamentali, come nello stato d’eccezione.
E,
indipendentemente dallo stato d’eccezione vi sono zone del diritto pubblico in
cui conciliare democrazia e tutela nei confronti del potere richiede il
discostarsi da un’attuazione coerente del “compromesso” democratico-liberale:
così per la giustizia politica, come anche per la giustizia amministrativa,
perché a tacer d’altro, determinati atti, detti “politici” sono da sempre
sottratti al sindacato giurisdizionale, ammesso in via generale[6].
Democrazia e
liberalismo possono essere in contrasto, ma storicamente è solo l’unione
dell’uno e dell’altro che ha consentito la nascita del moderno “Stato
rappresentativo” (così denominato dai costituzionalisti d’un tempo come Orlando
e Mosca) perché ha coniugato due elementi diversi – e talvolta opposti – ma
politicamente sinergici. La prova
storica a contrario è che, laddove si
sono costruiti (nel XX secolo) regimi totalitari, alla abolizione delle forme e
procedure democratiche (elezioni, pluritarismo, libertà di candidatura e di
voto e così via) si è accompagnata quella dei principi dello Stato borghese: né
distinzione tra i poteri, se questi competevano tutti al Fürher, né tutela dei
diritti verso il potere politico (la giustizia amministrativa fu abolita dal
nazismo e mai istituita degli Stati del socialismo reale). Così che del
principio democratico e di quello liberale si può adottare il detto di Catullo
“ncl tecum nec sine te vivere possum”.
5.0 Tuttavia, dato
che risulta che in Ungheria da qualche anno (2011) è andata in vigore una nuova
Costituzione, voluta da Orban – che era al governo (cui sono state apportate
alcune modifiche successivamente innovazioni assai deprecate dai politici
dell’U.E.).
Ad esaminare il
testo di tale Costituzione, a parte la “professione nazionale”, questa non ha
nulla di particolarmente diverso dall’impianto costituzionale di una democrazia
liberale. Sono riconosciuti i diritti dell’uomo e del cittadino (art. XXX). L’organizzazione
dello Stato si uniforma al principio di distinzione tra esecutivo, legislativo
e giudiziario (art. 1-30). È prevista la Corte costituzionale (art. 24); c’è
anche un “Commissario dei diritti fondamentali” per la protezione di questi
(art. 30); i giudici sono indipendenti. È regolato lo stato d’eccezione (artt.
48-54) con possibile limitazione dei diritti fondamentali.
Nel complesso, e
per quanto valga un testo costituzionale scritto, ovvero parecchio, ma non del tutto,
e probabilmente meno dell’ordinamento costituzionale concreto (e della
Costituzione materiale). appare che
sicuramente i principi dello Stato borghese di diritto sono applicati.
L’altro caso, che
ha indotto il “viso dell’armi” dell’U.E. è la Polonia. Anche qui distinzione
dei poteri e tutela dei diritti fondamentali sono previsti dalla Costituzione
del 1997.
Tuttavia le preoccupazioni
dell’U.E. sono state determinate dalle leggi del 2017 sul potere giudiziario così
da avviare una procedura d’infrazione ai sensi dell’art. 7 par. 1 TUE avendo
l’organo comunitario constatato l’esistenza di un evidente rischio di
violazione grave e persistente dello Stato di diritto. La normativa suddetta
apportava modifiche alla Corte Suprema e al Consiglio Nazionale della
magistratura, che ha fatto seguito a leggi sui mezzi d’informazione, sui poteri
della polizia e sul Difensore civico.
Tale normativa –
che aveva generato un duro scontro tra maggioranza (del Partito “Diritto e
giustizia”) e le opposizioni - concerneva l’accesso al Parlamento dei
giornalisti e il rinnovo della dirigenza
dei media pubblici. La legge sui
media ha previsto l’immediata sospensione di tutti i membri delle direzioni,
nonché dei consigli d’amministrazione dei media pubblici. Tuttavia non sono state riesumate le disposizioni,
abolite nel 1990, “classiche” per il controllo dell’informazione: censura e
monopolio pubblico, almeno dei mezzi di comunicazione via etere.
In altre parole
sembra che la situazione del diritto di espressione/informazione della Polonia
attuale somigli parecchio a quella dell’Italia fino agli anni ’70 (inoltrati):
un monopolio dell’etere affiancato da un pluralismo della stampa.
Situazione
sicuramente non ottimale, ma comunque di limitata pericolosità e che, se non
genera una condizione ideale, non appare idonea a connotare addirittura come
“illiberale” uno Stato che, almeno dalle disposizioni costituzionali, appare
modellato sui principi dello Stato borghese di diritto.
Vero è che altro è
scrivere delle commoventi e condivisibili norme nei testi costituzionali e
altro dare loro attuazione nella legislazione e nella prassi amministrativa. In
specie noi italiani conosciamo bene la prassi di proclamare diritti altisonanti
nella costituzione per poi tradirli nella successiva attuazione.
La stufenbau nazionale è essenzialmente
cartacea: la costituzione dispone X, il legislatore, profittando delle
equivocità della norma superiore e/o del carattere compromissorio[7],
emana la legge Z, e l’amministrazione, sulla base di questa, il provvedimento
Y. Spesso tra il “prodotto finito” (cioè il comando
concreto) e la norma iniziale c’è una divaricazione evidente; in diversi
casi una contraddizione manifesta, se non con la lettera, con lo “spirito”
della norma superiore.
Pertanto appare
maggiormente trasgressiva dei principi dello Stato di diritto, in larga parte trasfusi
nella Convenzione EDU - ed in effetti è la causa della mole di lavoro prodotta
per l’Italia dalla Corte EDU - la violazione negli atti concreti (sentenze,
provvedimenti e così via) di quanto disposto al vertice della piramide.
D’altra parte, se
andiamo alla definizione di “Stato di diritto” (nel senso di democrazia
liberale o di “Stato borghese di diritto”), questo si basa, oltre che su quelli
cennati, sull’uguaglianza di fronte alla legge, sulla “difesa giuridica” nei
confronti del potere, e sul principio di legalità.
Non c’è quindi un
sostanziale discostamento di Polonia e Ungheria dai “connotati” dello Stato di
diritto. E neanche dallo “Stato costituzionale di diritto” giacché le due
citate costituzioni prevedono un controllo di costituzionalità esercitato da
una Corte apposita sugli atti legislativi.
Tuttavia è chiaro
che una approssimativa garanzia della libertà di informazione è un vulnus alla concezione liberale dello
Stato, anche se le limitate compressioni di questo, paragonate alle ben più
gravose limitazioni imposte in altre democrazie, non sono tali da giustificare
l’espressione di “illiberali”.
Piuttosto il fatto
che i leaders di Ungheria e Polonia
dichiarino essi stessi di volere una “democrazia (cristiana) illiberale” (o
altre consimili) ha fornito il destro per vedere nel loro comportamento molto
più illiberalismo di quanto ce ne sia.
Del pari quell’
“illiberalismo” parte dall’identificazione del liberalismo con l’ideologia
della globalizzazione. Il che non è vero, se non in parte, giacché la
democrazia liberale risulta sempre dall’unione di un principio di forma
politica (democrazia) con quelli dello Stato borghese. Senza quella, o almeno
senza uno Stato che assicuri l’applicazione del diritto non c’è neanche la
garanzia dei diritti, fondamentali e non.
Scriveva Hegel che
“lo Stato è la realtà della libertà concreta”[8]:
senza uno Stato i diritto non hanno realtà. Lo sanno bene i globalisti i quali
in sostanza vogliono ancora gli Stati, ma sottoposti
a poteri non statali, non democratici, e forse anche non “politici”, che
cercano – e in gran parte riescono – a dominare.
Teodoro
Klitsche de la Grange
[1] Costant parlava di “libertà” più
che di regimi politici; ma la distinzione tra la libertà dei moderni e quella
degli antichi, corrisponde a quella tra “libertà da” e “libertà di” (Berlin)
ossia tra diritti “liberali” di separazione tra Stato e società civile
(Schmitt) e diritti (democratici) di partecipazione al potere. Ne riportiamo i
passi fondamentali del famoso discorso di Costant, il sistema rappresentativo
“è una scoperta dei moderni e vedrete, Signori, che la condizione della specie
umana nell'antichità non permetteva a un'istituzione di questo tipo di
introdurvisi o di stabilirvisi. I popoli antichi non potevano sentirne la
necessità né apprezzarne i vantaggi. La loro organizzazione sociale li
conduceva a desiderare una libertà completamente diversa da quella che questo
sistema ci assicura … Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano
oggi con la parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati
Uniti d'America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle
leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato
in alcun modo a causa dell'arbitrio di uno o più individui. Il diritto di
ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di
esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di
venire senza doverne ottenere il permesso e senza render conto delle proprie
intenzioni e della propria condotta. Il diritto di ciascuno di riunirsi con
altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il
culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare
le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle
sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione
del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante
rimostranze, petizioni, richieste che l'autorità sia più o meno obbligata a
prendere in considerazione. Paragonate ora a questa libertà quella degli
antichi. Essa consisteva nell'esercitare collettivamente ma direttamente molte
funzioni dell'intera sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla
guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza,
nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi; nell'esaminare i conti, la
gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel
metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che
gli antichi chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà
collettiva l'assoggettamento completo dell'individuo all'autorità dell'insieme.
Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto far parte
della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono sottoposte a una
sorveglianza severa. Nulla è accordato all'indipendenza individuale né sotto il
profilo delle opinioni, né sotto quello dell'industria, né soprattutto sotto il
profilo della religione. Così presso gli antichi l'individuo, sovrano quasi
abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati.
Come cittadino egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato,
osservato, represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo
interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi
magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a sua
volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue dignità,
bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell'insieme di cui fa
parte. Presso i moderni, al contrario, l'individuo, indipendente nella sua vita
privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. La sua
sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a epoche fisse ma rare nelle
quali è pur sempre circondato da precauzioni e ostacoli, esercita questa
sovranità, non lo fa che per abdicarvi”. Sieyès aveva già delineato il
fondamento della rappresentanza politica nel discorso all’Assemblea Nazionale
del 7/09/1989 sul “Véto royal” (v. Behemoth n. 1). Distinguendo tra categorie
di “diritti”, il pensatore di Losanna formulava così la distinzione essenziale
tra regimi politici.
[2] Mi si consenta di rinviare al mio
articolo “Sentimento politico, Zentralgebiet e criterio del politico”
pubblicato in traduzione spagnola in Ciudad
de los Cesares (Santiago – Chile) n.
110 marzo 2017; ora disponibile (su stampa) in italiano negli Annali della Fondazione
Spirito de Felice 2018 pp. 135 ss..
[3] Nella conferenza Das Zeitaler der Neutralsierung und
Entpolitisierungen trad. it. di P.
Schiera in C. Schmitt Le categorie del
politico, pp. Bologna 1972.
[4] V. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A.
Caracciolo Dottrina della costituzione,
Milano 1983, p. 64.
[5] v. “Modelli ideali più che tipi
storici sono le tre forme di democrazia analizzate da Robert Dahl nel suo libro
A preface to Democratic Theory
(1956); la democrazia madisoniana, che consiste soprattutto nei meccanismi di
freno del potere e quini coincide con l’ideale costituzionalistico dello Stato
limitato dal diritto o del governo della legge contro il governo degli uomini
(in cui si è sempre manifestata storicamente la tirannia); la democrazia
populistica, il cui principio fondamentale è la sovranità della maggioranza; la
democrazia poliarchica, che cerca le condizioni dell’ordine democratico non in
espedienti di carattere costituzionale, ma in prerequisiti sociali, cioè nel
funzionamento di alcune regole fondamentali che permettono e garantiscono la
libera espressione del voto, la prevalenza
delle decisioni che hanno avuto il maggior numero di voti, il controllo
delle decisioni da parte degli elettori ecc.” v. voce citata, Edizione De
Agostini – L’Espresso 2006, p. 513.
[6] Per la giustizia politica
ricordiamo quanto scrive Schmitt “Nelle controversie, che a seconda della loro
fattispecie o oggetto, quando sia attuata una forma generale di giurisdizione,
debbano essere decise per competenza dai tribunali generali – civili, penali o
amministrativi -, il carattere politico della questione o l’interesse politico
all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche
in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la
caratteristica politica di questi casi. In ciò consiste il vero problema della
giurisdizione politica… qui deriva sempre il caratteristica allontanamento
dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione
del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere
con le quali si attenua il principio tipico dello Stato di diritto della
giurisdizione generale”Verfassungslehere trad. it. di A.
Caracciolo La dottrina della Costituzione,
Milano 1984 pp. 182-183; per gli atti politici mi si consenta di rinviare a
quanto da me scritto in Temi e Dike nella
decadenza della Repubblica in Rivoluzione
liberale.
[7]
Nel senso del “compromesso” formale dilatorio di Schmitt
[8]
§ 260 dei Lineamenti di filosofia del diritto.