Questo articolo, qui in editing con i tipi di “Civium Libertas”, esce contemporaneamente sul sito Behemoth.
MEGLIO BECCARIA
1. Malgrado le speranze suscitate, Renzi continua, in molti campi, a seguire le orme dei suoi predecessori e, peggio, le opinioni indotte dagli idola tribus (la sua), asseritamente prevalenti. Ne costituisce una conferma la recente legge sulla corruzione (ma anche la precedente sul falso in bilancio). Perché a considerarle (e non solo purtroppo quelle) si basano su una proporzione inversa: se aumenta il castigo cala la propensione al delitto.
Proporzione che ha dalla sua un fondo di verità: ma non è l’unica variabile né quella principale. Ve ne sono altre, anche più influenti a raggiungere lo scopo di contenere la propensione a delinquere. E’ merito di Beccaria, passato alla storia per la sua condanna della tortura e della pena di morte (anche per la critica di Kant), averle ricordate nel suo libro tanto citato quanto poco (e/o superficialmente) letto, averle ricordate: la certezza della pena, la sua proporzionalità, la sua condivisione nel senso comune.
Tra questi spicca, sia per l’importanza ed ancor più per la situazione della giustizia (e in genere dello Stato e della burocrazia italiana), che il castigo sia sicuro almeno nella maggioranza dei casi – e che sia (anche) pronto, cioè non espiato decenni dopo la commissione del reato.
2. Scrive Beccaria nel XXVII capitolo di “Dei Delitti e delle pene”: «Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione; La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità: perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani… Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico».
Tali considerazioni sono così evidenti che non si può non aderirvi: tra una pena mite, ma applicata alla maggioranza dei reati commessi, ed una pena assai grave ma irrogata episodicamente, l’effetto deterrente della prima appare evidentemente superiore.
Orbene in Italia i dati delle statistiche giudiziarie c’informano che l’oltre 85% delle denunce esposte viene archiviato, su richiesta del P.M., in fase iniziale; molti dei processi non archiviati “sul nascere” si estinguono per prescrizione. Non siamo in grado di precisare quanti si concludono e, ciò che più rileva, quante condanne siano poi eseguite: ma ho l’impressione che siano intorno (al massimo) al 2-3%. In tali condizioni, si replicherà, è meglio fare leva sull’effetto deterrente di pene più gravi.
3. Ma non è così, e non solo per le considerazioni di Beccaria. Se al legislatore fosse concessa solo la sanzione afflittiva come strumento per assicurare l’osservanza dei precetti giuridici, il discorso avrebbe ancora una certa – anche se limitata – plausibilità. Non l’ha più, perché può provvedere non solo con sanzioni afflittive, ma anche con altri tipi di sanzioni, tutte volte allo stesso scopo di incentivare il rispetto della legge.
Scriveva Carnelutti che “Sancire significa fondamentalmente, in latino, rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa; ciò che viene avvalorato, in quanto si cerca di impedirne la violazione, è il precetto, in cui l’ordine etico si risolve” ma occorre distinguere le diverse specie di sanzioni: “Una prima distinzione, fondamentale, emerge già da quanto fu detto al punto che precede: secondo che consista in un bene concesso o in un male inflitto a chi ha fatto del bene o del male si distingue il premio dal castigo … non v’è alcun motivo per riservare al castigo il carattere della sanzione: serve a garantire l’osservanza dell’ordine etico il premio al pari del castigo; praticamente e, perciò, storicamente il premio ha però una importanza assai minore” (1). Per cui esistono sanzione afflittive e sanzioni premiali. Poi vi sono le sanzioni preventive e quelle successive (le prime volte ad impedire la condotta sanzionata, le altre ad eliminarla o ridurla per il futuro) quelle fisiche e quelle economiche; restitutorie o riparatorie.
Di tutta questa panoplia di strumenti sanzionatori, non limitati tra l’altro, al processo penale, che ne costituisce solo parte non maggioritaria ma sicuramente più visibile – e quindi la preferita a chi intende fare “passerella” nel teatrino della politica – il legislatore continua ad usare la sanzione afflittiva penale, dimostratasi da tempo poco efficace nel combattere la corruzione (e più ancora la dilapidazione di pubblico denaro molto superiore per danni arrecati a quelli causati da condotte penalmente rilevanti), quanto idonea a conseguire scopi e risultati politici, a stroncare o spingere carriere.
Le altre sanzioni, le quali se ben organizzate e coordinate, sono le più efficaci, sono state trascurate e anzi addirittura in taluni casi abolite. Ne deriva che la lotta alla corruzione, così condotta ha assunto il carattere della carica di don Chisciotte contro i mulini a vento: una bravata inutile contro un bersaglio sbagliato. Basti dire che a più di vent’anni da “Mani pulite” siamo sempre alle prese con gli stessi problemi – anzi peggiorati: e che quell’operazione è servita, pertanto, non a combattere la corruzione, come proclamato, ma solo a cambiare (parzialmente) una classe politica.
Il che d’altra parte è anche, per così dire, nella natura delle cose. Se un’attività illecita viene repressa solo con una (modesta) parte dell’apparato sanzionatorio, ossia con qualche norma ad hoc e relativo ufficio che le applica (o tenta di applicarle) l’effetto non può che essere modesto. Ma se tutto l’ordinamento, cioè il complesso dei poteri e degli uffici con i loro rapporti di sotto – e sovra-ordinazione e le loro connessioni e interazioni – sono modellati anche a quel fine, il risultato è ben diverso.
4. A tale proposito è bene ricordare che oltre un secolo fa Jellinek distingueva i controlli sulle attività pubbliche, assai importanti per le attività sanzionatorie, come “l’esame alla stregua di determinate norme degli atti rilevanti per lo Stato, compiuti dai suoi organi e membri, possono essere o politici o giuridici”, e ricordava l’importanza – al riguardo - delle responsabilità dei funzionari (2).
Tanto per ricordare, enumeriamo con qualche esempio come i controlli e quindi le sanzioni dei comportamenti corruttori (insisto, peggio dilapidatori) siano stati “trattati” dalla fine degli anni ’80 in poi.
a) I controlli amministrativi. Sulle amministrazioni statali, sulle Regioni e gli Enti locali erano previsti dall’art. 100 (e 103) (per gli atti delle amministrazioni statali, con la Corte dei Conti); dall’art. 125 (per gli atti delle Regioni), dall’art. 130 (per quelli dei Comuni, Provincie e degli altri enti locali). Il sistema previsto dalla Costituzione del ’48 s’innestava e modificava largamente) nei precedenti, analoghi istituti, in particolare quelli prescritti dalla legge comunale e provinciale, di controllo su Provincie, Comuni e altri Enti locali. Quando l’ordinamento regionale entrò in funzione iniziarono le doglianze sul nuovo sistema (non del tutto ingiustificate, data la composizione degli organi di controllo). Tali controlli erano riconducibili alla “classe” delle sanzioni preventive di cui alla partizione di Carnelutti, giacché esercitati prima che l’atto da controllare divenisse esecutivo. Il risultato delle critiche fu di abolirli: in un primo tempo l’occasione per il rimaneggiamento della materia fu data dalla legge 8/6/1990 n. 142, concernente il nuovo ordinamento delle autonomie locali. Con questa, gli atti soggetti a controllo erano ridotti al minimo. Poi con la riforma del titolo V della Costituzione erano totalmente aboliti. Onde non destano meraviglia le notizie, ogni tanto emergenti sulla stampa, di Comuni ed altri Enti che hanno perso rilevanti somme nell’acquisto di titoli-spazzatura cioè nell’essersi trasformati in speculatori finanziari, fatto ignoto (un tempo). Qualcosa di parzialmente diverso (ma con lo stesso scopo) è capitato anche alla Corte dei Conti. L’offensiva contro la Corte dei Conti è stata portata da due direzioni. La prima, di accreditare il controllo di legittimità come un qualcosa di “superato”, al posto del quale si impongono controlli di efficienza. Ciò che non si capiva era, perché un tipo di controllo dovesse escludere l’altro. Peraltro restava incomprensibile, il tipo di sanzione che avrebbe accompagnato un giudizio negativo sull’ “economicità” della gestione. Mentre l’atto di controllo negativo comporta la non esecutività del provvedimento “controllato” (e quindi la sua impossibilità a spiegare efficacia) – ed è quindi una sanzione efficace, un giudizio gestionale negativo è comunque un chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. Tuttavia ciò non bastava. Occorreva incidere anche sulle funzioni giurisdizionali della Corte, ridimensionando oggetto, presupposti, limiti ed effetti dell’azione di responsabilità. Il che era compito di una pluralità di norme, di cui ricordiamo le principali: il D.L. 15/11/93 n. 453, convertito con legge 14/1/94 n. 19; la L. 14/1/94 n. 20; leggi le quali, tra l’altro, riducevano a categorie tassativamente indicate gli atti soggetti al controllo preventivo di legittimità. E altro su cui non insistiamo per non annoiare il lettore.
b) L’altra, ovvero la responsabilità dello Stato e dei funzionari è stata ridotta (la prima) e non ampliata (la seconda) peraltro già quasi totalmente disapplicata, anche se prevista dalla Costituzione.
L’art. 28 della Costituzione invero prescrive generalmente la responsabilità del funzionario per atti compiuti in violazione dei diritti (formulazione più ampia degli atti di corruzione, che comunque ricomprende buona parte di questi) è stata già trattata per i lettori di “Civium Libertas” in un mio articolo del 9 giugno 2011, cui pertanto rinvio.
5. D’altra parte non è giustificabile per quale ragione tra le sanzioni sia per lo più scelta e privilegiata quella afflittiva-penale (detentiva soprattutto). Se si prende come criterio quello della soddisfazione dell’interesse individuale sacrificato dall’illecito sia nella forma della riparazione (per equivalente) sia della restituzione, una norma penale risulta, per lo più, inutile. Se taluno mi ha rubato qualche milione di euro (o anche meno) è una ben magra soddisfazione del mio interesse sacrificato dal reato, vedere il reo – magari dopo dieci, quindici anni – passare, nel migliore – ma raro – dei casi, qualche mese in carcere. Meglio sarebbe, per la vittima del reato, che lo stesso le restituisse il maltolto.
Ovviamente lo stesso criterio, anche se con qualche (modesto) aggiustamento, vale per lo Stato e gli enti pubblici. Un condono preventivo (al processo) o una riparazione sostitutiva della pena sarebbe non soltanto più satisfattiva delle nostre casse pubbliche, ma anche più dannosa e istruttiva per il reo. Il quale dopo aver ricavato dalla commissione del reato un “bottino” di qualche milione, rigorosamente occultato, rischia, al massimo, qualche mese (effettivo) di prigione, passato il quale può godersi il bottino.
Nietzsche ne “La genealogia della morale” enumerava tutti i “sensi” che può avere il concetto di punizione “Punizione come rendere incapace di danneggiare, come impedimento di un danno ulteriore. Punizione come compenso del danno al danneggiato in qualche forma (anche in quella di un compenso di passioni). Punizione come isolamento di un turbamento di equilibrio per impedire un estendersi del turbamento. Punizione come paura di quelli che determinano ed eseguono la punizione. Punizione come una sorta di compensazione per i privilegi che il malfattore ha goduto finora (quando, per esempio, viene utilizzato come schiavo di miniera)… Punizione come festa, cioè come violentazione e beffa di un nemico finalmente abbattuto. Punizione come ricordo sia per colui che soffre la pena – la così detta «correzione», sia per i testimoni dell’esecuzione. Punizione come pagamento di un onorario da parte della potenza che protegge il malfattore dalle esagerazioni della vendetta. Punizione come compromesso con lo stato di natura della vendetta, in quanto quest’ultimo è ancora tenuto in piedi da generazioni potenti e viene esatto come privilegio. Punizione come dichiarazione di guerra e provvedimento di guerra contro un nemico della pace, della legge, dell’ordine, dell’autorità” (3); e aggiungeva di non giudicare completa tale lista.
Se si cerca la ratio (e il senso) della sanzione afflittiva, irrogata dall’autorità giudiziaria, questo è congruo solo ad uno o due dei sensi elencati dal filosofo. Per gli altri sarebbero più consoni altri tipi di sanzione. Ad esempio quelle preventive o successivo/preventive. Così ad un reo di omicidio colposo per guida d’automezzi, il divieto di guida; per un funzionario corrotto, l’interdizione (meglio perpetua) dei pubblici uffici; per uno stupratore, la castrazione clinica (in vigore in alcuni Stati) Tutte sanzioni che eliminano (o riducono) la possibilità che il reo reiteri la condotta vietata. Lo stesso accade, per altri tipi di sanzione, come quelle a carattere satisfattivo: come la riparazione del danno arrecato alle vittime della condotta illecita, che soddisfa l’identico interesse sacrificato dal reo. Mentre quella afflittiva, ed in particolare la pena “sacrifica un interesse totalmente diverso da quello subordinato dal precetto” (4). La pena detentiva, in particolare, a quale dei sensi enumerati da Nietzsche è congrua? Quello volto ad impedire il “turbamento di equilibrio” (sociale) e quello d’incutere timore di chi decide ed esegue la punizione. Nulla o poco degli altri.
6. Se si va ad esaminare la nuova legge “c.d. legge Grasso”, si può constatare che, a fronte di un grande aumento delle pene detentive per alcuni reati contro la p.a. (e di qualche estensione ad esempio per la concussione, allargata – opportunamente – agli incaricati di pubblico servizio), sono previste alcune “sanzioni premiali” nella forma attenuata - quanto ben nota all’ordinamento – dello sconto di pena per i collaboratori (i “pentiti”) e nel subordinare la sospensione condizionale della pena al caso in cui si sia restituito il profitto del reato. Tale seconda ipotesi è timida: meglio sarebbe, per i reati consistenti in lesione d’interessi patrimoniali procedere all’eliminazione di ogni altra pena, o semmai, alla riduzione al minimo di quella detentiva o alla sostituzione di questa con una sanzione pecuniaria. Così succede per quanto previsto dall’art. 14 della legge, per cui la sanzione riparatoria (il pagamento alla vittima) si cumula alle altre. Nulla poi perché uffici diversi da quelli ordinari (cioè le Procure e l’apparato penale) operino per impedire la commissione di reati tranne - forse – l’informativa all’Authority anticorruzione, rimedio che, quanto ad efficacia, ricorda quello delle pillole contro il terremoto. Nulla, soprattutto, perché l’intero ordinamento, comprensivo dei cittadini, assuma un ruolo attivo nella disincentivazione delle condotte sanzionate, che è poi il problema principale, attesa la modesta minoranza delle denunce di reato che “passa” la fase delle indagini preliminari, senza incorrere in archiviazione (ed altro). All’uopo c’è un sistema adottato in altri ordinamenti, segnatamente in quelli – contemporanei – anglosassoni (e non solo). Quello cioè di facultare la vittima del reato all’esercizio dell’azione penale.
In questo caso il cittadino che agisce per la realizzazione del proprio interesse (sacrificato dalla condotta del reo), cioè per un diritto soggettivo, consegue anche il risultato, già esposto con tanto vigore e logica da Rudolf Von Jhering, di rendere effettivo e concretamente applicato il diritto oggettivo.
Problema ovviamente non limitato ai reati contro la p.a., ma sussistente per ogni tipo di reato. Affidarsi oltre che allo zelo degli apparati repressivi all’iniziativa dei danneggiati è una risorsa da non trascurare. Tant’è che era realtà in tanti ordinamenti (sia nello spazio che nel tempo: le antiche città –Stato, Roma soprattutto, i Comuni medievali).
Sotto il profilo istituzionale significa fare appello a tutti i componenti delle comunità e collaborare all’attuazione del diritto con il collegamento tra interesse individuale e interesse generale (rapporto con cui si mobilita il primo a realizzare il secondo): se il primo non viene soddisfatto o lo è poco (e male) cala pure la possibilità di rendere concretamente applicato questo. E non si mobilitano così le energie disponibili. Se l’attuazione dell’ordinamento è considerata esclusivamente compito dell’apparato burocratico, regolato dal “dovere d’ufficio” la possibilità che ne consegua un ordine concreto è comunque ridotta, avvalendosi dell’operosità del “circuito minore” (5) e relegando la maggioranza dei componenti la comunità in un ruolo passivo, quello di spettatori non di attori, che è proprio quel che si diventa, anche in uno dei sensi del termine, si si ha il diritto di esercitare l’azione penale.
Ma è proprio quello che si vuole, perché è connotato comune di tante prassi di “governo” contemporaneo di fare dei cittadini non dei partecipi della vita pubblica della comunità, ma dei consumatori-contribuenti relegati nel privato. Cioè – a un dipresso – quello che prevedeva Tocqueville quando descriveva il “dispotismo mite” quale esito (finale) delle moderne democrazie.
NOTE
(1) Teoria generale del diritto, Roma, 1946 p. 24.
(2) “Anche di fronte ai sudditi il funzionario è responsabile civilmente, e può da loro essere perseguito penalmente; inoltre rispetto ad essi è responsabile anche lo Stato, sia in via sussidiaria, sia in luogo de’ funzionari, sebbene a questo riguardo, però, esistano spesso delle disposizioni restrittive” v. Dottrina generale del diritto dello Stato, trad. it. di M. Petrozziello, Milano 1949 pp. 306-308.
(3) La genealogia della morale, trad. it. E. Soia, Libritalia 1997, p. 69.
(4) V. F. Carnelutti, op. cit., p. 28.
(5) Si fa riferimento a quanto già da me scritto in “Funzionarismo” Liberilibri, Macerata 2013, in particolare p. 43 ss., cui si rinvia.
Teodoro Klitsche de la Grange