venerdì 10 luglio 2015

Il “populismo” di Marco Tarchi recensito da Teodoro Klitsche de la Grange. Ridefinizione di un termine abusato.

Marco Tarchi, Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo, Il Mulino, Bologna 2015.

Questa è la nuova edizione, molto ampliata e rivista, date le vicende dell’Italia contemporanea, che hanno confermato la vitalità dei movimenti – e fenomeni – populisti, di un libro apparso nel 2003. Scrive Tarchi che “nel frattempo quella moda (del populismo) è dilagata, rompendo ogni argine. Nei mesi che hanno preceduto le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del 25 maggio 2014” è difficile scovare un termine più diffuso (e usato per stigmatizzare i soggetti politici più “scomodi”).

Quel che è cambiato è che, rispetto a qualche decennio fa, il termine populista è impiegato per connotare movimenti europei e, molto spesso, italiani (precedentemente radicati, per lo più, nelle aree non europee). Per cui l’Italia è divenuta “a parere di molti commentatori, una delle terre di elezione del populismo, ormai uscito dalla marginalità ed episodicità che in precedenza sembravano contraddistinguerlo”. “Questi dati di fatto autorizzano, e per certi versi obbligano, a porsi una domanda principale e alcune altre subordinate. Prima di tutto: quale percorso ha condotto la politica italiana, dopo quasi settant’anni di esperienza democratica repubblicana, a impregnarsi di una dose così forte di populismo?”. È stato un effetto del crollo del sistema dei partiti della “prima Repubblica”? “E ancora: a quale livello si situa  questa presunta invasione di elementi populisti nella politica italiana? Si limita a contaminare lo stile dei suoi attori di vertice o influenza anche i valori coltivati dall’opinione pubblica? Infine: a seconda che si accetti l’una o l’altra di queste ipotesi, quali effetti immediati sta provocando e quali ne saranno le conseguenze prevedibili in un prossimo futuro?”.

Dato che il termine viene impiegato preferibilmente per demonizzare gli avversari, cioè a scopo di lotta politica, la prima operazione scientifica da fare – scrive Tarchi - è “sottrarre il populismo all’alone sulfureo che lo circonda e ammetterlo a pieno titolo nel novero delle teorie politiche degne di attenzione e studio – non è  probabilmente il (compito) più arduo, ma resta comunque impegnativo. Da un lato, infatti, i mezzi d’informazione destinati al grande pubblico e gli esponenti della classe politica hanno fatto di questo termine un epiteto spregiativo”; e d’altro canto tra “i politologi, gli storici e i sociologi, che qualche anno addietro parevano propendere per un atteggiamento più pacato, volto a restituire al concetto la funzione descrittiva per cui era stato coniato e ad applicarlo senza i condizionamenti del pregiudizio ideologico e delle intenzioni faziose, oltre che senza ingenuità o minimizzazioni, pare tornata in auge la logica «militante» delle stigmatizzazioni”. Per cui “lo studio del populismo dimostra che la scienza politica è a volte una maniera di fare politica con altri mezzi. Il populismo è un argomento di polemica prima di essere un oggetto di analisi”. L’autore ricorda, al contrario, la lezione di Max Weber, sull’avalutatività – e neutralità - della scienza “almeno tanto attuale quanto trascurata nei fatti da un buon numero dei suoi sedicenti discepoli, e non ci deve stancare di applicarla anche, se non soprattutto, a oggetti di studio imbarazzanti”.

D’altra parte è chiaro che limitarsi, come fanno gran parte di coloro che ne parlano, a svalutare il populismo, non fa comprendere né perché il populismo esista e tanto meno perché si rafforzi.  Da meno del 10% dei voti del più antico dei fenomeni populisti del dopoguerra (cioè l’Uomo Qualunque) si è arrivati al 35% attuale dei grillini e della Lega (più qualche altra scheggia riconducibile a tematiche e attitudini populiste). Bel risultato di un’incomprensione che ha contribuito, in una certa misura, alla crescita del fenomeno. Per cui a certi pomposi demonizzatori del populismo, dovrebb’essere consegnata – da Grillo o da Salvini - una onorificenza al merito. 

In un’intervista tra le non poche rilasciate a seguito della pubblicazione del libro l’autore ha detto “il caso italiano presenta però una maggiore varietà di declinazioni di questo modo di pensare, che dai tempi dell’Uomo Qualunque ad oggi si sono manifestate a destra, a sinistra, al centro in svariate forme. Insomma, il carattere camaleontico attribuito a questo fenomeno da vari studiosi qui da noi si è svelato pienamente” . Nella recensione al libro scritto da Gianfranco Morra  si legge “Uno dei meriti della ricerca di Tarchi è di avere mostrato che il populismo non esprime solo la crisi della democrazia, ma anche il desiderio di guarirla. Lo stesso Pd, con la segreteria Renzi, ha assunto, in termini moderati, non pochi elementi di populismo: un linguaggio comprensibile a tutti, usato anche nei luoghi istituzionali, che afferma il primato del governo sul parlamento, critica burocrazie, tecnocrazie e banche, polemizza contro i vecchi partiti e la casta sindacale”.

La riedizione di quest’opera di Tarchi ha incontrato un’attenzione rilevante, rivolta in misura preponderante, com’è naturale, sia all’attualità del tema che alle “categorie” del pensiero politico e sociologico-politico; così come gli autori citati e presi in considerazione nel libro sono in prevalenza degli scienziati politici (da Isaiah Berlin a Ludovico Incisa di Camerana).

È tuttavia stimolante esaminare quanto scrive Tarchi e può essere  ricollegato a differenti discipline, autori e parametri di riferimento, che è opportuno specificare.

1) Populismo e forme d’integrazione. È noto che ogni soggetto politico (e quindi collettivo) realizza e si costituisce (il “principio del divenire dinamico dell’unità politica” di Carl Schmitt) attraverso l’integrazione. Rudolf Smend ne distingue le forme in tre fondamentali: l’integrazione funzionale, quella personale e quella materiale. La prima è ordinata attraverso procedure di coinvolgimento e partecipazione per lo più realizzantesi con procedure (elezioni, referendum, plebisciti); la seconda nel rapporto, più emotivo e non “organizzato” (e diretto) tra capo e seguito (tra governanti e governati); la terza per la condivisione di principi, valori (e norme) nella comunità politica. È evidente che nel populismo prevale l’integrazione personale. Ad altre forme politiche sono più connaturali (o comunque preponderanti) le altre.

Populismo e ciclo politico; intendendo per ciclo quello che Pareto, Mosca ed altri intendevano come conquista, mantenimento e perdita del potere da parte di (determinate) élites e delle conseguenti forme (e valori). Nel ciclo politico il populismo è d’incerta collocazione, ma preferibilmente si trova nello stato iniziale, Non tanto per lo stile (l’appello al popolo, il popolo come sede dell’armonia sociale e così via) quanto per il rapporto capo-seguito e il carattere solo parzialmente (e modestamente) organizzato della sintesi politica (per lo più dipendente da crisi). Scriveva Maurice Hauriou che: “ordinariamente, il diritto ricopre accuratamente il nocciolo metafisico come un involucro giuridico, e ci si ferma all’apparenza (surface). È quanto succede nella materia del potere di diritto. Ma quando l’involucro viene a mancare, come nel potere di fatto, si ricade sul nocciolo metafisico o teologico” . Ciò capita nei casi d’emergenza (rivoluzioni, colpi di Stato, insurrezioni, invasioni).

In questi frangenti chi conquista il potere ha anche la necessità di trasformarlo e così legittimarlo in potere di diritto: e i due elementi necessari a ciò sono il riconoscimento da parte del paese (i governati) e la ricostruzione di una situazione istituzionale stabile. Condizioni che mancano (o sono estremamente indebolite) durante la crisi che genera il governo di fatto.

Sta di fatto che, fin quando quelle condizioni non ci sono più, l’unica via percorribile (o comunque principale) è il rapporto di fiducia tra capo e seguito, mentre la mediazione dell’apparato istituzionale (debole e/o disorganizzato) è secondaria. In un secondo tempo, riconosciuto il nuovo potere e ricostruite le istituzioni la prevalenza del rapporto fiduciario si ridimensiona.

Populismo e carisma; per la stessa ragione il populismo è riconducibile, tra i tre classici tipi di potere distinti da Max Weber, preferibilmente a quello carismatico. Il “principe nuovo” può contare assai poco sull’organizzazione, di più sulla condivisione di valori, ma soprattutto si basa sul proprio carisma, in particolare nelle nazioni abituate a forme democratiche di esercizio del potere. In effetti a citare i più frequenti casi di populismo e di leader populisti, la maggioranza è di personaggi e movimenti che conquistano il potere e che quindi sono “allo stato nascente” (o meglio “giovanile”); con la trasformazione del carisma in “pratica quotidiana” si attenua il richiamo (e l’attitudine) populista, dovuto alla necessità conseguente alla debolezza di una strutturazione istituzionale, per cui il canale preponderante era quello del supporto – non mediato - tra governanti e governati.

Populismo e democrazia. Come sopra cennato l’autore fa notare sia che una certa dose di “populismo” è connaturale ad ogni democrazia e anche se in misura inferiore, a nazioni che di democrazia (e delle relative forme e procedure) hanno ben poco, sia che gli esorcismi verso il populismo nascondono – quasi sempre – il timore (e il disprezzo) verso il popolo e, c’è da aggiungere, verso le nuove elites emergenti. Esorcismi che sono quindi strumenti della lotta per il potere; per lo più (ma non sempre) impiegata dalla classe dirigente decadente contro quella in ascesa.
Populismo e consenso. Ricollegandoci al succedersi delle elites, il sintomo decisivo è il calo di consenso dei governati ai governanti, per cui quest’ultimi devono affidarsi principalmente all’apparato burocratico (per cui il regime risulta “zoppo” e poco vitale).

Il populismo può considerarsi, in tali frangenti, il mezzo per ricostruire un “circuito” di consenso (e legittimità) divenuto esangue.

Che questa sia la situazione prodottasi in Italia, in particolare a partire dalla cesura fondamentale, che non è tanto Tangentopoli (che ne appare una conseguenza, anche se di particolare importanza), ma il crollo del comunismo e dell’ordine di Yalta, è evidente. Non soltanto è confermato dai successivi risultati elettorali dei partiti classificati come populisti (ormai superiori a un terzo dei votanti) rispetto alle percentuali modeste che gli analoghi soggetti politici ottenevano in precedenza; ma anche dal fatto che, contemporaneamente diminuisce la percentuale dei cittadini che si recano a votare, ormai alle elezioni locali ridottasi a molto meno di due terzi del corpo elettorale. Tenuto conto del dissenso al “sistema” (oggi chiamato spesso “antipolitica”), misurato dai suffragi ai partiti populisti e dell’indifferenza allo stesso (e disgusto) degli astenuti, la percentuale dei “consenzienti” al regime è di poco superiore al un terzo della cittadinanza: troppo poco per sostenerlo e renderlo vitale. 

Teodoro Klitsche de la Grange

 Questo articolo esce contemporaneamente sul sito Behemoth. 



lunedì 6 luglio 2015

Teodoro Klitsche de la Grange: «Responsabilità politica e giurisdizione»

Questo articolo, qui in editing con i tipi di “Civium Libertas”, esce contemporaneamente sul sito Behemoth. 

RESPONSABILITA’ POLITICA E GIURISDIZIONE

1. Può sembrare ovvio, nell’Italia contemporanea, che possa essere giudicato (e condannato) un parlamentare per averne corrotto un altro, al fine di ribaltare la risicata maggioranza che sosteneva il governo Prodi del 2006-2008, come nel processo a Berlusconi in corso a Napoli. Ma non lo è. Anzi, a ben vedere, è ovvio il contrario. Se si comincia a recitare il “salmo dell’uguaglianza”, ossia che tutti i cittadini sono uguali e quindi soggetti alla giurisdizione, il discorso ha il limite di “provare troppo” e di essere facilmente confutabile. Perché l’ordinamento dei poteri pubblici si fonda sul fatto che orwellianamente, alcuni “cittadini” sono più uguali degli altri. Ossia che taluni, i funzionari pubblici (in senso lato), hanno il diritto di comandare entro certi limiti (più o meno estesi), e i cittadini il dovere di obbedire.

E quindi ai rapporti di diritto pubblico è connaturale una cospicua dose di diseguaglianza. Per cui non è un argomento che possa andare oltre un talk-show, malgrado ossessivamente ripetuto. Ed esulerebbe dai limiti del presente scritto enumerare gli altri, assai meno frequentati e ripetuti.

Piuttosto nessuno si pone il problema che non tutti i tipi di potere (giuridico) e di responsabilità (che ne consegue) hanno gli stessi effetti, comportano le stesse conseguenze e la stessa funzione. Se le responsabilità prescritte per un funzionario pubblico in uno Stato legislativo, dove vige il principio di legalità, ossia della conformità degli atti delle burocrazie (amministrativa e giudiziaria) al dettato della legge (parlamentare o in casi “eccezionali” di fonte governativa), è sindacabile l’atto (o il comportamento) del funzionario nell’ “applicare” la legge, questo criterio può avere valore solo secondario per un ministro o un parlamentare, i quali hanno sempre poteri di direzione politica e (quasi sempre) di iniziativa legislativa, e per gli atti di maggior rilievo politico di loro attribuzione non hanno norme da applicare. L’essenza della responsabilità politica è la decisione e la congruità di questa al raggiungimento dello scopo (il bene comune): dell’altra (la responsabilità giuridica del funzionario) la conformità delle norme di grado inferiore a quello superiore (o del comportamento del funzionario alla norma osservanda).

2. Il che è di particolare evidenza quando il Parlamentare (o il Ministro) esercita i poteri di “direzione politica” (o di governo). I quali sono quelli più rilevanti e concernono (prevalentemente) sia i rapporti tra poteri ed organi dello Stato sia tra gli Stati (e poco o punto l’applicazione di norme). Il che risale all’epoca dei vagiti dello Stato borghese di diritto.

Quando, infatti, Montesquieu nell’Esprit des lois inizia ad esporre la teoria della distinzione dei poteri scrive “Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile.

In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o a termine, e corregge o abroga quelli esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. Il base al terzo punisce i crimini, o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato” (1).

Dato che organi come Parlamento e governo esercitano poteri diversi (legislativo, amministrativo e di “direzione politica”) sorse il problema di come sindacare (o non sindacare) gli atti che avrebbero dovuto – per altre ragioni – essere controllati giudiziariamente dagli altri. E nacque in Francia la dottrina degli “actes de gouvernements”.

Carrè de Malberg riteneva, al riguardo, che “Ciò che caratterizza, di converso, l’atto di governo è proprio d’essere, a differenza degli atti amministrativi, svincolato dalle necessità d’abilitazione legislativa e deciso dall’autorità amministrativa con un potere d’iniziativa libera in virtù di un potere proprio e che deriva da una fonte diversa dalle leggi; di guisa da poter qualificare (la funzione di ) governo, almeno in tal senso, come indipendente dalle leggi” e che esiste  “Una determinata sfera di attribuzioni, ch’è precisamente quella del governo, all’interno della quale esso occupa una posizione costituzionale analoga a quella del legislatore, nel senso  che,  proprio come il parlamento, trae i propri poteri relativi a queste attribuzioni direttamente dalla Costituzione” (2).

Per cui non essendo legislativa l’  “habilitation” ne deriva da un lato che essa consegue dalla stessa Costituzione; dall’altra che tali atti non sono soggetti a controllo giurisdizionale (cioè di conformità alla legge – non essendolo “per natura”): mentre gli atti amministrativi, anche se connotati da ampia discrezionalità, sono impugnabili in via giudiziaria, les actes de gouvernement, no. Ma ciò non esclude che, malgrado tali caratteri, siano conformi all’ordinamento giuridico (ordre juridique) vigente, dato che la Costituzione, che li autorizza, ne è la source fondamentale. E’ chiaro che il concetto di costituzione qui va inteso non in senso formale, ma come ritiene Barile, in un certo senso, per la natura delle cose.

Jellinek arriva a conclusioni simili, sul punto della “libertà” (e ragioni della stessa) degli atti di governo, partendo dalla distinzione tra attività statale “libera o vincolata” (3). L’una e l’altra rinvenibili in ogni assetto e regime politico. Per cui non è possibile (concepire e) dare esistenza a uno Stato in cui ogni attività statale sia mera esecuzione delle leggi  “uno Stato con un governo che agisse unicamente secondo le leggi, sarebbe un’assurdità politica: sull’indirizzo dell’attività statale emanante dal governo non può mai decidere una semplice regola giuridica” (4). Il problema si pose anche nel diritto italiano, dato che l’art. 31 T.U. 26/6/1924 nel Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art.24 del precedente T.U. 2/6/1889) prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico. E’ penetrante il giudizio di Barile che l’attività politica non può venir “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato” (5).

Anche Vittorio Emanuele Orlando nel trattare le “immunità” dalla giurisdizione di determinati organi “supremi” dello Stato scriveva “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto” (il corsivo è nostro) e Santi Romano nel trattare delle immunità parlamentari sosteneva “Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guarentigia” (6).

Sintetizzando, l’opinione sul punto più largamente – ed autorevolmente – condivisa consta di due asserzioni fondamentali: la prima che non è possibile (né opportuno, né naturale) che in uno Stato tutti gli atti di competenza del potere governativo-amministrativo siano soggetti al sindacato giudiziario; la seconda, anche data la pochezza (e vaghezza) della definizione degli atti “sottratti” al controllo del giudice, e la generalità del sindacato giudiziario, che le deroghe fossero “tassative”. Determinazione quanto mai ardua. La giurisprudenza francese (sulla sindacabilità da parte del Conseil d’État, ricondusse ad una liste jurisprudentielle tali atti, includendoci in particolare quelli relativi ai rapporti internazionali, quelli relativi ai rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della Vª Repubblica. In realtà, passando da un tentativo di definizione denotativa, come la liste jurisprudentielle, ad una connotativa, emergono quali criteri distintivi degli atti politici da un lato lo scopo per cui sono presi tali atti: la difesa della società o del governo dai nemici, il funzionamento delle istituzioni statali (necessità di avere un governo e quindi – in regime parlamentare - la fiducia del parlamento).

Per quanto riguarda (ma la soluzione non differisce un granché) la giustizia civile e soprattutto quella penale, scrive Schmitt che “Nelle controversie, che a seconda della loro fattispecie o oggetto, quando sia attuata una forma generale di giurisdizione, debbano essere decise per competenza dai tribunali generali – civili, penali o amministrativi -, il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi. In ciò consiste il vero problema della giurisdizione politica” (7).

3. Nel processo a Napoli, non si tratta di festini in villa – come nel “caso Ruby” – cioè di attività totalmente “privata” ma di materia costituzionale e quindi politica, essendo l’istituto della fiducia parlamentare previsto dell’art. 94 della Costituzione e, più ancora, costitutivo (e distintivo) della forma  parlamentare di governo.

Già Benjamin  Constant sostenne a tale proposito (cioè per giudizi con “materia” costituzionale, a carico dei ministri che i “I tribunali  ordinari, possono e debbono giudicare i ministri colpevoli di attentati contro gli individui; ma i loro membri sono poco adatti a pronunciare su cause che sono piuttosto politiche che giudiziarie; sono più o meno estranei alle conoscenze diplomatiche , alle combinazioni militari, alle operazioni finanziarie: conoscono solo imperfettamente la situazione dell’Europa, hanno studiato soltanto i codici delle leggi  positive, sono costretti dai loro doveri abituali a consultare soltanto la lettera morta e a chiederne soltanto la stretta applicazione” (8).

Sul fatto poi che la giustizia politica non avesse la stessa necessità di “espiazione della pena” di quella amministrata per reati comuni e che   lo scopo principale fosse l’allontanamento dal potere (nella specie) del ministro responsabile sosteneva “Da tutte le disposizioni precedenti risulta che i ministri saranno spesso denunciati, accusati talvolta, raramente condannati, quasi mai puniti. Tale risultato può, a prima vista, sembrare insufficiente agli uomini i quali pensino che, per i delitti dei ministri come per quelli degli individui, una punizione positiva e severa è pienamente giusta e assolutamente necessaria. Io non condivido però questa opinione. Mi sembra che la responsabilità debba perseguire soprattutto due scopi: quello di togliere il potere ai ministri colpevoli e quello di mantenere nella nazione, con la vigilanza dei suoi rappresentanti, con la pubblicità dei loro dibattiti e con l’esercizio della libertà di stampa nell’analisi di tutti gli atti ministeriali, lo spirito critico, un interesse abituale alla conservazione della Costituzione dello Stato, una partecipazione costante agli affari, in una parola un sentimento animato della vita politica” (9).

4. Nel caso, l’opinione criticata non tiene conto, in particolare, di due circostanze. Che la/e responsabilità è/sono giuridica/e (e giudiziaria/e) ma anche politiche (a tacer d’altro).

E che ciò che conta in tali questioni non è solo il quid ma anche il quis judicabit cioè chi ha il diritto (la potestà) di giudicare fatti del genere, essenzialmente politici, e le “sanzioni” che sono loro congrue.

Quanto al primo profilo fra tanti, è il caso di ricordare quanto sosteneva Jellinek: “Ad ogni titolare della posizione di organo statale incombe di fronte allo Stato una responsabilità individuale … Anche le Camere, solo però nella loro attività come organi collegiali dello Stato, sono libere da qualsiasi responsabilità. Per l’attività della sua funzione il membro di una Camera è soggetto ad una responsabilità, sia pur molto limitata, di fronte alla Camera stessa: responsabilità, che non può mai, però, colpire il suo voto. Pel contrario, il funzionario è civilmente, penalmente e disciplinarmente responsabile verso lo Stato del legale esercizio della sua funzione. Questa responsabilità è, di regola, esercitata mediante tribunali ed autorità disciplinari” (10).

Nella specie, tra gli organi costituzionali, la responsabilità politica consiste per il governo e i Ministri di esserlo verso le Camere, che possono sfiduciarli, per i parlamentari di non essere eletti alla successiva tornata. E quindi ad esercitarla è il corpo elettorale.

Con la conseguenza che se ad ottenere indirettamente gli stessi effetti è una sentenza non è violato tanto (e solo) il diritto del parlamentare a un giusto processo, ma soprattutto quello del corpo il quale ha il potere di accertare la responsabilità (politica) e di “irrogare le sanzioni” previste; che sono, in buona sostanza quelle che Constant rilevava: l’allontanamento (o la mancata conferma) del potere.

5. Senza necessità di ricordare il giudizio di Machiavelli che, per le accuse “contro alle ambizioni dei potenti cittadini”, riteneva non potessero essere congrui i mezzi della giustizia ordinaria “perché i pochi, sempre fanno a modo de’ pochi” (11), è appena il caso di ricordare che nello Stato borghese di diritto dalla materia e dai soggetti politici “deriva sempre il caratteristico allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenua il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generale” (12).

In effetti negli ordinamenti costituzionali degli Stati contemporanei, la materia ed i soggetti politici comportano forme, procedure e talvolta sanzioni a carattere derogatorio di quelle dei giudizi ordinari. Per fare qualche esempio: per la Francia è disposto dagli articoli 26 e 68 della Costituzione; per la Germania dall’art. 46; per la Spagna dall’art. 71 e dall’art. 102; per il Belgio dall’art. 45; per il Giappone dagli articoli 50, 51 e 75 della Costituzione. Quindi la regola della giustizia politica è proprio di essere derogatoria – in misura maggiore o minore, e nelle differenti soluzioni – di quella ordinaria.

Ossia proprio il contrario di quello che si vorrebbe far credere, servendosi di un’interpretazione strumentale del principio d’uguaglianza.

NOTE

(1)   Ésprit des lois, lib. XI, cap. 6.

(2)   Contribution à le théorie générale de l’Etat, Tome I°, Paris 1920, p. 526

(3)  G.Jellinek Allgemeine Staatslehre, trad. it., Milano 1949, p.177.Così la definisce  “attività libera è quella determinata soltanto dall’interesse generale, ma da nessuna speciale regola di diritto; vincolata, invece, quella che consiste nell’adempimento di un obbligo giuridico. L’attività libera è la prima per importanza, logicamente originaria; che sta di base a tutta la restante attività. È per essa che lo Stato fissa la sua propria esistenza, giacché la fondazione degli Stati non è mai l’esecuzione di norme giuridiche; è da essa che lo Stato riceve indirizzo e scopo della sua evoluzione storica; è da essa che procede ogni mutamento ed ogni progresso nella sua vita. Uno Stato, di cui tutta l’attività fosse vincolata, è una concezione irrealizzabile. Quest’attività libera si riscontra in tutte le funzioni materiali dello Stato, che si sono venute storicamente distinguendo; nessuna, senza di essa, è possibile. Il suo campo più vasto è nel dominio della legislazione, la quale, in confomità stessa sua natura, deve godere della maggiore libertà. Non meno importante, però, essa si mostra nell’amministrazione, dove questo elemento assume il nome di governo (Regierung)”(il corsivo è nostro).

(4) op. cit.

(5)  V. P. Barile voce “Atto del governo e atto politico” in Enc. Dir., vol. IV, p. 225 (il corsivo è nostro).

(6) Corso di diritto costituzionale, Padova, 1928, p. 222.

(7)  E prosegue “Non si tratta in questo problema press’a poco del fatto che senza riguardo a norme decisionali riconosciute contrapposizioni di interessi politici vengano risolte per mezzo di un procedimento giurisdizionale, cioè sono artificiosamente trasformate in controversie giuridiche, ma al contrario: per specie particolari di vere controversie giuridiche è previsto a causa del loro carattere politico un procedimento speciale o una speciale istanza. Nell’ambito della giurisdizione civile naturalmente ciò entra poco in risalto, ma lo è invece nelle materie penali o nelle divergenze con un oggetto della controversia di diritto pubblico”, Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1985, p. 182.

(8)  Principi di politica, trad. it.a cura di U. Cerroni Roma 1970 p. 125 ss.

(9)   Op. cit. p. 130 e prosegue “Sì: i ministri saranno raramente puniti. Ma se la Costituzione è libera e se la nazione è energica, che importa la punizione di un ministro quando, colpito da un giudizio solenne, è rientrato nella classe volgare più impotente dell’ultimo cittadino dal momento che la disapprovazione lo accompagna e lo perseguita? La libertà è stata egualmente preservata dai suoi attacchi, lo spirito pubblico è stato ugualmente raggiunto da una scossa salutare che lo rianima e lo purifica” ivi p. 131.

(10) Allgemeine Staatslehre, trad. it. Milano 1949 p. 306-307.

(11) Discorsi sopra la prima deca, di Tito Livio I, 7.

(12) Carl Schmitt op. cit., p. 183 (il corsivo è nostro).
Teodoro Klitsche de la Grange

«Ero pagato per fare il Troll sionista pro-Israele»: denuncia-rivelazione delle insidie della Rete, a salvaguardia degli “ingenui”.


Riceviamo dalla nostra collaboratrice Egeria, esperta conoscitrice del web di lingua inglese, un documento impressionante. Se è vero che Internet apre nuove frontiere di conoscenza e inaudite possibilità di comunicazione, è anche vero che alla “novità” del mezzo si accompagna anche la “novità” dei pericoli e delle insidie. Per scelta di onestà e trasparenza si può anche usare il proprio nome reale e dare piena possibilità di identificazione. È questo un primo pericolo che si affronta relazionandosi con chi non usa il proprio nome o assume identità false, certo dell’impunità o dell’anonimato nel caso si conducano deliberati ed intenzionali attacchi personali e campagne diffamatorie. Se poi si trattano determinate materie sensibili, ci si scordi delle garanzie di una presunta libertà di pensiero e di espressione. 

I media si considerano essi, non i comuni cittadini, i principali intestatari del diritto alla libertà di pensiero e di espressione. Se in passato il “giornalista” poteva essere considerato un professionista dell’informazione, oggi non è più così ed ognuno di noi deve imparare a difendersi dalla manipolazione e demonizzazione giornalistica: è di ieri il caso della Grecia, dove il ruolo dell’informazione è stato quello di condizionare l’esito referendario. Quanto per fare un esempio recente, di ieri, fra gli innumerevoli possibili. Poiché qui si parla di Trolls, esiste anche (vedi il caso Udo Ulfkotte) il fenomeno del giornalista a libro paga di un servizio straniero, di un partito, di uno Stato, di qualcuno che lo paga per immettere dei contenuti nel circuito informativo. Vi è perfino chi teorizza: la mia “opinione” è un «diritto», la tua un «reato», un crimine orribile da perseguire con tutti i poteri dello stato. 

Non circola la notizia, vera, di una pena di 12 anni di carcere per il solo reato di aver scritto un libro, non di gossip, ma di argomento storico, e pure ormai storico-remoto. E non è il solo caso: sono a migliaia! Neppure i reati di mafia vengono puniti così severamente. Ma è difficile trovare una qualche barlume di giustizia nella repressione penale e carceraria non di omicidio, una violenza carnale, una frode alimentare, una rapina a mano armata, una strage, etc., ma nella semplice repressione penale di una opinione in materia storica, specialmente se argomentata in libri improntati a rigore scientifico, sul quale gli storici di professione lasciano il campo ai moderni Inquisitori. Non sembra azzardato dire che se per un verso assistiamo alla autodistruzione del diritto internazionale, ossia a quel sistema di relazioni fra gli Stati avviatosi nel 1643 con il Trattato di Vestfalia, per altro verso assistiamo ormai, spesso inconsapevoli, alla cancellazione di quei diritti “fondamentali” così pomposamente sbandierati nelle Carte dei diritti e nei discorsi magnoeloquenti dei politici, grandi e piccoli, che occupano la scena delle piazze. È un panorama sconfortante che supera la forma romanzata di tutti gli scrittori che hanno immaginato il sorgere di una “neolingua” il cui scopo è l’alterazione stessa del pensiero che pone a se stesso le sue autolimitazioni con l’uso di termini imposti e programmati. 

Sulla pregevole introduzione di Egeria, dove più sotto scrive:
«Per la cronaca: non siamo mai riusciti a trovare un solo ebreo – né nel web, né in persona – che avesse dato a questa domanda una risposta favorevole ai palestinesi.»
in verità, possiamo osservare che noi almeno uno solo lo abbiamo conosciuto, anche perché venuto in Roma e in Italia ormai sono più volte, sia pure in sordina. Ci riferiamo a Gilad Atzmon, che lasciò Israele, dove era nato, all’età di trent’anni, per non farvi più ritorno, dichiarando che quella era una terra sottratta ai Palestinesi. Del resto, Gilad definisce se stesso un “ex-ebreo”, forse a testimonianza anche del fatto che l’essere o non essere ebrei non è una questione di DNA, ma una fatto storico, un’identità acquisita che si può anche abbandonare e dismettere. Quella di Atzmon (nome posticcio assunto dai suoi genitori trasmigrati in Palestina dall’Europa orientale, assumendo poi come moltissimi altri un cognome biblico, per documentare in questo modo un remotissimo e impossibile radicamento) è una personalità ben diversa da quella di un Ilan Pappe e di molti altri “ebrei” pur favorevoli, ma sempre con qualche riserva, alla “causa” palestinese.

Ma a ulteriore prova di ciò che dice più sotto Egeria, a proposito del ruolo di ascari di supporto da parte dei “non-ebrei” (goim), si può citare la manifestazione anti-Onu di Ginevra di pochi giorni, dove Israele è stata condannata per l’ennesima volta (con la sola rituale eccezione degli USA), per l’ennesimo e ultimo “massacro-genocidio” di Gaza. Erano poche centinaia di persone, per lo più evangelici sionisti “italiani”, massiciamente supportati dell’Ambasciata di Israele in Italia.  Gli ebrei in senso proprio erano  pochissimi, per esplicita ammissione degli organi di informazione smaccatamente sionisti, come “Il Foglio”. Dell’ONU lo «Stato ebraico di Israele» semplicemente se ne infischia, salvo fondare la sua legittimità sulla discutibilissima deliberazione spartitoria del 1947, la più infelice, invalida, ingiusta deliberazione in tutta la storia dell’ONU, che nel 1975 equiparò razzismo e sionismo. Una delibera che fu poi ritirata come merce di scambio durante i fallimentari accordi di Oslo del 1992-93.

Va infine notato che il singolo Internauta, ingenuo nel credere alla spontaneità del “dialogo”, del “confronto”, e della forza logica della sua capacità di argomentare, si trova spesso - a sua insaputa – ad avere come interlocutore veri e propri Stati, potenze globali, apparati con bilanci stratosferici, che possono permettersi di pagare veri e propri eserciti di “troll”, per loro non meno utili (e più economici) dei contractors inviati a devastare paesi come l’Iraq, l’Afganistan, la Libia, la Siria, il mondo intero, seminando ovunque morte e distruzione. Dunque, il testo che segue, di Egeria, è uno squarcio di luce su di un mondo malefico che per regnare ha bisogno delle tenebre e della “neolingua”: l’hobbesiano “Regno delle Tenebre”.

Per chi volesse, in buona o in cattiva fede, continuare a opporre dubbi e resistenze sul fatto autoevidente che lo “stato ebraico” usa tutto il suo potere politico, economico, finanziario, lobbistico con o senza il supporto dei “sayanim” giunge a proposito questo brano di un recente libro, scritto in forma di intervista a due intellettuali ebreo, che vanno per la maggiore, Noam Chomsky e Ilan Pappe, che a pag. 166 scrive: «Il mondo accademico, come sempre, è una ruota dell’ingranaggio. L’Interdisciplinary Center Herzliga, una prestigiosa università privata, ha istituito un ‘quartiere generale per i civili” dove gli studenti possono per andare a lavorare all’estero come volontari nelle campagne di propaganda, e diversi altri istituti offrono allo Stato l’aiuto dei loro studenti per diffondere la narrazione israeliana nel cyberspazio e sui media alternativi» (Palestina e Israele: che fare?, giugno 2015, Fazi Editore).  Nel libro non è menzionato Gilad Atmon, che si pone su un piano ben più radicale, ed offre strumenti di analisi e comprensione che hanno in pregio di poter far vedere le cose non nella sola ottica della vittima palestinese, quanto e soprattutto nel ruolo che “noi”, europei, italiani, americani, occupiamo in un “genocidio” che si svolge sotto i nostri occhi e di cui autori sono i nostri governi, i nostri politici, i nostri giornalisti. Il “noi” chiaramente significa “loro”, perché noi non siamo affatto responsabili di ciò che ci viene attribuito con le astrazioni linguistiche di nomi come Italia, Europa, Occidente...
 
CIVIUM LIBERTAS

INTRODUZIONE

Quando è stato pubblicato in rete, nel 2012, nella versione originale inglese, l’articolo ‘confessione’ di questo troll pentito, di cui segue la traduzione in basso, ha suscitato discussioni a valanga, che durano tuttora.

L’articolo è stato successivamente ripreso per pubblicazione nella rete di lingua inglese in decine e decine di siti e blog, nei mesi e anni a seguire. Basta inserire nel motore di ricerca la frase iniziale dell’articolo – ovviamente nella versione originale inglese – e si riceve una fila infinita di risultati.

Link all’originale in inglese.

http://consciouslifenews.com/paid-internet-shill-shadowy-groups-manipulate-internet-opinion-debate/1147073/

E qui bisogna subito entrare nel merito del punto centrale che questa introduzione vuole discutere, e cioè, la reazione da parte della lobby israeliana, con l’uso delle solite strategie di intimidazione nei confronti dei gestori dei siti che hanno pubblicato la confessione, e la reazione dei troll sionisti, pro-israeliani, che hanno infestato i vari siti e blog con insulti e tattiche di ridicolizzazione dell’articolo.

Se si usa Google per la ricerca – e cioè per vedere il numero di siti che hanno pubblicato la ‘confessione’ – è interessante notare il modo in cui appare il primo risultato della lunga lista che si genera. Si tratta del sito che per primo ha pubblicato l’articolo, nel 2012, e salta subito all’occhio che il titolo è preceduto e seguito da una parola in lettere cubitali ‘HOAX’, che in inglese significa ‘Bufala’. Infatti, chi frequenta la comunità anti-sionista, anti-Israele nella rete americana, ha potuto notare come si è immediatamente messa in moto la massiccia e implacabile macchina della ‘polizia sionista’, che ha indotto, con minacce e altro, molti dei siti e blog a cancellare l’articolo. Al sito originale è stato invece intimato di fare apparire la confessione come un falso, visto che ormai non c’era verso di togliere l’articolo dalla rete.

Noi abbiamo scelto di mettere come link al testo originale inglese, la pubblicazione apparsa in un sito alquanto noto e autorevole nella comunità del ‘giornalismo di verità’ in USA (v. link in alto), soprattutto perché l’editore ha introdotto la pubblicazione fornendo appunto le informazioni circa le minacce ricevute da un sedicente gruppo di rappresentanti legali che sosteneva di ‘avere le prove’ che la confessione fosse un falso, e anche perché è molto appropriata l’analisi fornita dall’editore nella sua prefazione.

Che il sito sia molto frequentato è deducibile anche dal numero di commenti generati: ben 245.

Entreremo in seguito in merito alla varietà e natura dei commenti apparsi nei vari forum di lingua inglese.

Ma andiamo per ordine.

In seguito alle intimidazioni dei sedicenti legali, l’editore ha chiesto chiarimenti sulla loro identità, oltre all’esibizione delle ‘prove’ sul presunto ‘falso’ della confessione. Tuttavia – come era da aspettarsi – l’editore non ha mai ricevuto alcuna risposta. Ha quindi deciso di non cancellare la pubblicazione, fornendone le motivazioni.

Nella sua nota introduttiva, l’editore fa notare che, a prescindere che si voglia dare credito o no alla ‘confessione’ anonima in oggetto, è cosa ben nota che l’attività di trolling è una strategia molto diffusa e molto più comune di quanto si possa immaginare, e che viene impiegata da parte di gruppi di potere per salvaguardare i propri interessi.

In effetti, si tratta di una vera e propria industria, le cui strategie vengono chiamate ‘Astroturfing’ e hanno fini sia di propaganda che disinformazione.

Nella sua introduzione, l’editore in questione fornisce anche un elenco di articoli da consultare per approfondire le tecniche di ‘Astroturfing’, che però sono scritti in inglese. Ma basta inserire il termine nella versione italiana di Wikipedia per avere almeno una descrizione blanda di questa strategia usata a livello universale.

Comunque la frase introduttiva è la seguente in Wikipedia:
«Astroturfing è un termine coniato negli USA intorno alla metà degli anni ‘80 nell'ambito del marketing, e definisce la creazione a tavolino del consenso proveniente dal basso, della memoria o della storia pregressa di un’idea, un prodotto, o comunque qualsiasi bene oggetto di propaganda (bene di consumo, candidato alle elezioni, etc.). La tecnica di astroturfing si affida spesso a persone retribuite affinché esse producano artificialmente un'aura positiva intorno al bene da promuovere».
Per non appesantire questa introduzione, non entreremo qui nei dettagli delle strategie dell’Astroturfing, di cui comunque il troll pentito fornisce alcuni esempi concreti nella sua confessione in basso.

Tuttavia, chi vi scrive ha una conoscenza ravvicinata e pluriennale delle strategie del trolling sionista nella vastissima rete di lingua inglese specializzata nel contrastare Israele, il giudaismo e il potere ebraico.

I troll più esperti, che fanno questo mestiere da anni, operano soprattutto nelle chat politiche, dove vige la comunicazione ‘botta e risposta’ e non c’è tempo per comporre risposte congetturate ad arte.

Per fortuna negli USA si gode ancora della libertà di espressione, e – a differenza dell’Europa – non esistono finora leggi che prevedono la persecuzione legale per chi esprima pubblicamente opinioni cosiddette ‘anti-semite’ (che peraltro sappiamo essere un termine falso, ingannevole e insidioso). Per questo motivo esiste un gran numero di network con programmi radio che trasmettono, sia nel web che per radio, talk-show politici in diretta con tematiche di critica a Israele e alla lobby israeliana che è in controllo totale del parlamento USA (il Congress) e della maggioranza delle varie confessioni religiose cristiane.

A questi talk-show il pubblico può partecipare sia con chiamate in diretta, sia entrando nella discussione che si genera contemporaneamente nella ‘chat’ in internet che ogni network possiede.

I troll non hanno vita facile in queste chat, perché i partecipanti regolari sono persone molto informate e ben consapevoli delle strategie del potere ebraico. Sanno individuare un troll (in inglese: shill) a kilometri di distanza, per così dire. E infatti, come si vedrà nella ‘confessione’ pubblicata di seguito, i troll pagati per operare nelle chat sono un gruppo a parte, e per esperienza sappiamo che sono i più rari.

Invece i troll che si inseriscono nei forum di commento sono un vero e proprio esercito, perché (come spiegato dal troll pentito) per questa attività esistono modelli di risposta ben collaudati, e non è necessaria una grande esperienza.

Ma sono questi i troll più insidiosi, perché operano in siti frequentati dai lettori con i background più disparati, non tutti emotivamente immuni al giudizio altrui, molti ancora terrorizzati all’idea di essere considerati ‘razzisti anti-semiti’. Questi sono lettori che preferiscono desistere dal proseguire la discussione se attaccati, e molti si sentono perfino in colpa per avere osato intrattenere certi pensieri, oltre che per averli espressi ... per cui si trovano a scusarsi e giustificarsi, facendo il gioco dei troll, ovvero dei loro committenti.

Come vedremo dalla ‘confessione’, i troll sono veri e propri impiegati, con stipendi fissi e con bonus per i risultati di un certo livello. Quindi non ‘mollano l’osso’ per non perdere i vantaggi economici, e diventano sempre più efficaci.

Per esperienza sappiamo che sono molto rari i troll pro-Israele che svolgono questa attività per convinzione politica personale.

Sono rari perché:
1 - i troll pro-Israele non sono quasi mai ebrei, e
2 - sono pochi i non-ebrei in favore delle politiche israeliane.

Gli ebrei stessi, invece, si dichiarano apertamente nei forum e nelle chat – almeno negli USA – e hanno uno stile inconfondibile. In genere sono giovani che cercano il consenso del popolo di internet, e ci tengono a informare i partecipanti alle discussioni che loro stessi «non sono come gli ebrei di Israele», che loro sono «contrari alla violenza contro i palestinesi», e che «i giovani ebrei del presente prendono le distanze dai precetti dei rabbini che predicano la legittimità della pulizia etnica dei palestinesi e la violenza contro i non-ebrei in terra di Palestina».

Purtroppo però l’esperienza ci ha messo in guardia circa la sincerità delle loro dichiarazioni.

Abbiamo adottato un modo molto semplice ed efficace per smentire e smascherare la loro presunta distinzione e presunta differenza di mentalità rispetto ai loro simili in Israele.

E’ un metodo collaudato e si basa sui dibattiti che l’autore americano Mark Glenn – probabilmente il più grande esperto vivente in scritture ebraiche – ha avuto con visitatori ebrei nella chat del suo network, The Ugly Truth, e ci riserviamo di presentare l’autore e le sue analisi ai lettori italiani nel prossimo futuro.

Intanto, gli ebrei nei forum e nelle chat non parlano mai di ‘Palestinesi’ ma di ‘Arabi’ – un lapsus che tradisce la loro discriminazione e l’adesione al pensiero israeliano secondo cui «i palestinesi non esistono»…!

E poi, per testare la loro sincerità, è sufficiente chiedere:

«Ma tu sei daccordo sulla creazione dello stato di Israele in Palestina?».
Invariabilmente la risposta è: «Certo» – seguita o meno da motivazioni di vario genere.

Ed è allora che rispondiamo:

«Ma tu sai che lo stato di Israele è stato fondato per mezzo di strategie di terrorismo e pulizia etnica, mediante la cacciata e l’uccisione in massa dei Palestinesi, e che senza azioni di terrorismo Israele non sarebbe mai potuta esistere, né potrebbe continuare ad esistere nel presente. In cosa allora si distingue la tua mentalità da quella degli ebrei di Israele? Tu vuoi Israele, ma non la violenza. Pensi che se tu andassi a chiedere cortesemente ai palestinesi di andarsene e consegnare la loro terra di propria spontanea volontà a Israele, loro lo farebbero? Cosa ti importa di più: l’esistenza di Israele, oppure l’incolumità dei palestinesi?».

Per la cronaca: non siamo mai riusciti a trovare un solo ebreo – né nel web, né in persona – che avesse dato a questa domanda una risposta favorevole ai palestinesi.

Come dicevamo, gli ebrei che si dichiarano apertamente nelle chat in genere lo fanno per suscitare le nostre simpatie malgrado tutto. Qualche tempo fa Gilad Atzmon aveva pubblicato nel proprio sito le analisi di un luminare della scienza che studia le psico-patologie nelle loro varie forme e manifestazioni. Lo studioso spiegava, tra l’altro, cosa spingesse certe categorie di persone con disturbi di auto-esaltazione e complesso di superiorità a cercare con affanno il consenso degli altri, annoverando questa categoria tra i psicopatici affetti da narcisismo ossessivo. Atzmon aveva introdotto la pubblicazione di questo video-documento sulle psico-patologie dicendo: ecco qualcosa che vi farà capire Israele. Infatti si potrebbe dire che la descrizione relativa al fenomeno del narcisismo patologico si adatta bene al tentativo sistematico dei rappresentanti della classe ebraica di influenzare le nostre menti e suscitare in noi ammirazione e benevolenza attraverso il web, il cinema, gli eventi culturali, i media, ecc.

Di regola sono invece i troll quelli che entrano nei forum per seminare discordia e lanciare accuse, sia in America che in Europa. E sono stati addestrati ad usare il deterrente più efficace: suscitare sensi di colpa nei partecipanti per mezzo di riferimenti storici alle ‘persecuzioni degli ebrei’.

Ovviamente questi riferimenti storici hanno poca presa sul pubblico americano, ma in Europa la strategia del ricatto morale funziona benissimo.

E qui sarebbe utile, ma troppo impegnativo in questa istanza, iniziare una lunga discussione per fare notare, intanto, l’inutilità di entrare in simili dibattiti con personaggi il cui unico scopo è quello di destabilizzare i partecipanti, e soprattutto una discussione per evidenziare l’assurdità del senso di colpa retroattivo che si vuole generare, visto che i riferimenti sono ad eventi del passato di cui le nostre generazioni non hanno né controllo né responsabilità...
... perché altrimenti si dovrebbe cominciare con il gioco dell’accusarsi l’un l’altro, riesumando fatti storici e bellici di vasta portata, e non se ne verrebbe mai a capo.

CHE  SIA  CHIARO: il dibattito storico è sempre importantissimo, anzi vitale, se si svolge nell’ottica del determinare la verità storica ai fini della giustizia. Ciò che è inaccettabile è abbozzare e accettare il ricatto morale su questioni del passato, specie da parte di chi difende crimini e criminali del presente...!!!

E’ dunque importante per il popolo dei forum essere consapevoli che i loro ‘accusatori’ sono semplici professionisti, non-ebrei, che fanno questo mestiere per lucro, e non perché ‘abbiano a cuore la causa di Israele’. Gli ebrei stessi – i committenti dei troll – hanno cose ‘ben più importanti’ da fare che ‘perdere tempo’ nei forum e nelle chat. E’ un’attività che affidano alla bassa manovalanza non-ebraica appositamente istruita. Loro invece, in quanto ebrei organizzati, esercitano direttamente le pressioni di ‘lobbying’ su coloro ‘che contano’, come i governi e le istituzioni, per imporre i propri interessi mediante ricatti morali, corruzione, minacce e l’intera gamma di tattiche usate dalle associazioni a delinquere di stampo mafioso.

Che sia anche consapevole, il popolo dei forum, che malgrado le apparenze, sono molto rari i singoli individui occidentali che ancora difendono Israele. I pubblici ‘simpatizzanti’ dello Stato Ebraico sono in genere le organizzazioni e i loro rappresentanti, che agiscono per interesse o perché temono le rappresaglie del potere ebraico organizzato.

E’ anche importante usare il termine ‘Stato Ebraico’, perché è così che Israele si definisce e perché appunto lo ‘stato ebraico’ rappresenta il carattere degli ebrei e del giudaismo. E per capire la natura del ‘carattere’ che rappresenta, è sufficiente guardare le macerie di Gaza.

Siamo tuttavia ben consapevoli che in certi ambiti delle discussioni è necessario usare l’eufemismo ‘sionista’ o ‘sionismo’, qui in Europa – mentre nella rete americana che affronta la questione ebraica, l’uso di questi palliativi è stato ormai scartato quasi interamente e sostituito con i termini appropriati: ebreo, ebraico, giudaismo, ecc.

In ogni caso, è importante non perdersi d’animo. Israele è un malato terminale, tenuto in vita artificialmente mediante espedienti destinati a cessare, come il veto USA all’ONU, le guerre NATO in favore di Israele, i miliardi di euro e dollari e le forniture militari che Israele riceve, pagati dai contribuenti occidentali. Tutto questo non durerà a lungo, e Israele non è capace di sopravvivere come nazione senza agire da parassita (come peraltro ha dimostrato l’esperimento fallito nel Biro-Bijan, un vasto territorio nella Russia orientale, assegnato agli ebrei come ‘Regione Autonoma’ negli anni ’30, per dare agli ebrei uno stato da gestire a proprio piacere – ma agli ebrei questo non bastava, e presto hanno iniziato a litigare tra loro, e tutto si è dissolto nel nulla).

LE  TATTICHE  DI  RIDICOLIZZAZIONE  DELLA  ‘CONFESSIONE’

E siccome questa introduzione è già fin troppo lunga per un articolo in rete, riassumiamo solo brevemente quali tattiche hanno usato i troll nei vari forum nel tentativo di screditare la pubblicazione della confessione riportata in basso.

A grandi linee, le reazioni dei troll si riducono a due tipologie di ‘obiezioni’ e si possono riassumere come segue:

- «Mi meraviglio che un sito noto e autorevole come il vostro pubblichi una ‘confessione’ anonima, ben sapendo che le dichiarazioni anonime sono in genere inventate per fini disonesti... Ma chi pensate di ingannare...?»

- «Il fatto che il troll si sia schierato dalla parte di Israele anche dopo essersi auto-accusato di inganno nei confronti dei lettori dei forum, è la dimostrazione che Israele è comunque una causa giusta...».

E’ vero, molti sono stati i commenti perplessi dei lettori comuni sulla ‘simpatia per il diavolo’ (come l’hanno battezzata), sviluppata dal troll durante la sua fraudolenta attività.

Ma molti hanno anche fornito spiegazioni di ordine psichiatrico a questa variante peculiare della ‘Sindrome di Stoccolma’, dicendo che è alquanto comune, e il risultato di un lavaggio del cervello ben riuscito, con un effetto di ‘autogol’ che presto sarebbe svanito.

Ma la reazione più sorprendente è stata quella dei molteplici ‘troll pentiti’, che di conseguenza si sono dichiarati nei forum, pur conservando l’anonimato... Per loro fortuna.

Dico per loro fortuna, perché conosciamo bene la ferocia con cui ire sioniste si scagliano su chi osa fare denunce pubbliche.

Ecco infatti cosa ha scritto in un forum un ex-troll che aveva pubblicamente confessato il suo passato di troll durante una trasmissione (in USA), in cui qualcuno lo aveva riconosciuto:
«...Hanno scoperto la mia vera identità e ora mi molestano al telefono con chiamate oscene. Mi inviano mail di minacce e pubblicano il mio nome, indirizzo e numero di telefono su base quotidiana. Postano anche i nomi dei miei figli, familiari e amici che hanno trovato su Facebook prima che bloccassi il mio account».
Altri utenti dei forum invece hanno confermato di essere vittime di alcune delle rappresaglie descritte dal troll confesso nell’articolo in basso.

Esempio delle parole di un commentatore:
«...Questa (la confessione) è una descrizione accurata delle tattiche della Hasbara su internet. In quanto assiduo frequentatore di forum politici, specie su ‘Yahoo Mid-East’, sono intimamente consapevole di queste strategie dei troll. Calunnie e menzogne sono i loro ferri del mestiere. Io stesso sono stato preso di mira dai troll della Hasbara per due lunghi anni come nemico pubblico numero 1. E le loro molestie non si limitavano a internet. Queste persone non hanno etica o principi morali. Sono capaci di qualunque cosa, purché ne traggano beneficio per l’immagine di Israele e degli ebrei».
Ecco: qualora fossimo tentati di liquidare la ‘confessione’ come un falso, ricordiamoci cosa dicono i lettori stessi...

Falso o no ... è tutto vero.


Egeria

* * * 

Ero pagato per fare il Troll sionista pro-Israele


Scrivo per uscire allo scoperto circa il mio passato come Troll pagato.

Per un periodo di oltre sei mesi sono stato pagato per diffondere disinformazione e provocare polemiche politiche su Internet.

Ho lasciato quel lavoro, un impiego fisso, verso la fine del 2011, perché ero disgustato con me stesso. Non riuscivo più a guardarmi allo specchio.

Se questa confessione innescherà una sorta di vendetta contro di me, così sia. Parte di essere un uomo vero in questo mondo è avere valori reali per i quali combattere, quali che siano le conseguenze.

La mia storia inizia nei primi mesi del 2011. Ero disoccupato da quasi un anno, dopo aver perso il mio ultimo lavoro nel campo dell’assistenza tecnica. Sempre più disperato e scoraggiato, ho colto al volo l'occasione quando una ex collega mi ha chiamato e mi ha detto di avere una potenziale miniera d'oro per me.

«Quello che ti propongo è un lavoro insolito  – spiegò la mia ex collega –  che richiede segretezza. Ma lo stipendio è buono. So che scrivi bene, e questo è un lavoro che fa per te».
(Vero: scrivere è sempre stato un hobby per me).

Mi diede un numero di telefono e un indirizzo in uno dei quartieri più squallidi di San Francisco, la città in cui vivo.

Incuriosito, ho chiesto alla mia ex-collega quale fosse il sito internet dell’azienda e qualche informazione in più. Lei si è messa a ridere: «Loro non hanno un sito web. E neanche un nome. Vedrai: ti basterà presentarti e dire che ti mando io».

OK, sembrava sospetto, ma la disoccupazione di lunga durata genera disperazione, e la disperazione induce ad accantonare i sospetti quando si tratta di mettere il cibo in tavola.

Il giorno dopo mi sono recato all'indirizzo in questione.

La ditta si trovava al terzo piano di un edificio in cattive condizioni. L’aspetto non ispirava fiducia. Dopo aver attraversato un lungo corridoio coperto di linoleum e fiocamente illuminato dal neon, sono arrivato all’ingresso della sede in questione: una pesante porta di metallo con un cartello che diceva ‘United Amalgamated Industries, Inc.’

In seguito mi resi conto che la ‘ditta’ cambiava nome su base quasi mensile, sempre utilizzando nomi blandi come quello, che non fornivano alcun indizio sulla natura delle attività reali dell’azienda.

Non troppo pieno di speranza, entrai nella sede.

L’interno era alquanto scarno. C’erano alcuni tavoli con sedie su cui una dozzina di persone scriveva usando computer obsoleti. Non c’erano decorazioni, nemmeno le solite piante finte per dare un tono allegro.
Che squallore! Ma hey, un mendicante non può fare lo schizzinoso, giusto?

Il manager, un uomo calvo sulla quarantina, si alzò dalla scrivania e mi venne incontro con un sorriso rassicurante.

«Devi essere Chris, mi disse. Yvette mi ha detto che saresti venuto».
(Yvette e Chris non sono ovviamente i nostri veri nomi).
«Benvenuto. Permettimi di darti qualche informazione su quello che facciamo qui».

Non ci fu alcun colloquio preliminare per decidere se assumermi. In seguito appresi che impiegavano solo persone raccomandate da altre che già svolgevano questa attività, in più addestrate a individuare candidati sulla base di fattori specifici, tra cui  la capacità di tenere la bocca chiusa, l’abilità a scrivere, e la necessità impellente di un impiego.

Ci siamo seduti alla scrivania del manager, e lui iniziò a farmi domande sul mio background e in particolare sulle mie idee politiche (che erano praticamente inesistenti). Poi cominciò a spiegare il lavoro.

«Qui lavoriamo per influenzare le opinioni della gente. I nostri committenti ci pagano per postare commenti nei forum, nelle chat più popolari e nei social network come Facebook».
Chi erano questi committenti?
«Oh, varie persone», disse vagamente. «A volte aziende private, a volte gruppi politici».

Soddisfatto che le mie opinioni politiche non fossero forti, mi disse che sarei stato assegnato ai forum politici.
«I candidati ideali per tali attività sono persone come te, senza ideali politici precisi», disse ridendo. «Può sembrare un controsenso, ma in realtà abbiamo scoperto che è proprio così».

OK. Finché pagano bene, accetterò di credere a tutto ciò che vorranno farmi credere.
Dopo avermi comunicato l’ammontare dello stipendio (che era molto più alto di quanto mi aspettassi) e pochi altri dettagli, il manager sottolineò la necessità di assoluta riservatezza e segretezza.

«Non puoi raccontare a nessuno quello che facciamo qui. Non a tua moglie e nemmeno al cane...» (Non avevo né l’uno né l’altro, si dà il caso). «Ti cuciamo addosso un’identità di copertura, ti diamo un numero di telefono e ti creiamo un sito web finto che potrai utilizzare. Dovrai dire alla gente che sei un consulente. Dal momento che il tuo background nella vita reale è il supporto tecnico, questa sarà anche la tua attività di copertura. E’ un problema per te?»

Nessun problema, gli assicurai.
«Allora OK. Vogliamo cominciare?»
«Adesso?», chiesi, un po 'sorpreso.
«Non c'è momento migliore del presente!», rispose con una risata.

Il resto della giornata fu dedicato alla mia formazione.
Un altro membro del team, una donna sulla trentina dalle maniere spicce, sarebbe stata il mio istruttore, e la mia formazione doveva durare due giorni.
«Sembri un tipo sveglio, mi disse, e credo che imparerai in fretta».

E infatti, il lavoro era più facile di quanto avessi immaginato.
Il mio compito era semplice: mi avrebbero assegnato a quattro diversi siti web, con l'obiettivo di entrare in determinate discussioni e promuovere determinati punti di vista.

Seppi poi che una parte del personale (come me) era assegnato ai commenti nei forum. Altri, invece, lavoravano su Facebook, e altri ancora nelle chat.
Mi resi conto che per ognuno di questi tre mezzi di comunicazione venivano adottate specifiche strategie di ‘trolling’, e ogni troll si concentrava su una di esse in particolare.

E in cosa consisteva il mio compito?

«Dare supporto a Israele, e contraddire i commentatori anti-israeliani e anti-semiti».
Mi stava bene.
Non avevo opinioni in un modo o nell’altro su Israele – e poi, a chi piacevano gli anti-semiti o i nazisti? Non a me, comunque.
Ma non sapevo molto sull’argomento. «Va benissimo», rispose la mia istruttrice. «Imparerai man mano che procedi. All’inizio ti dedicherai soprattutto a ciò che chiamiamo ‘sorveglianza tematica’. E’ alquanto semplice. In seguito, se mostri di avere talento, verrai addestrato per compiti più complessi, che richiedono una conoscenza più approfondita».

La mia istruttrice mi consegnò due raccoglitori con fogli infilati in apposite schede trasparenti.

IL  RACCOGLITORE  ‘ISRAELE’

Il primo raccoglitore era semplicemente etichettato ‘Israele’.
Era suddiviso in due sezioni.

La prima sezione conteneva informazioni di base sull’argomento. Avrei dovuto leggere e imparare a memoria alcune di queste informazioni. La sezione comprendeva link a siti con materiale da leggere, articoli e interviste, e brani tratti da libri di storia.

La seconda sezione, più voluminosa della prima, aveva il titolo: ‘Strategie’.
Conteneva una lunga lista di ‘coppie di dialoghi’.
In altre parole, erano modelli di dialogo con specifiche risposte a specifici commenti nei forum.
Se un lettore commentava nel forum qualcosa di simile al modello di commento ‘X’, bisognava rispondere seguendo le indicazioni della risposta correlata.
«Dovrai però diversificare un po’ le risposte di volta in volta – disse la mia istruttrice – altrimenti si noterà».

Questa sezione conteneva anche una serie di suggerimenti per indirizzare il discorso secondo gli obiettivi da raggiungere, o per fare deragliare conversazioni che prendevano una brutta piega secondo i nostri criteri.

Tali strategie comprendevano:
- diverse forme di attacchi personali,
- lamentarsi con i moderatori dei forum,
- calunniare e mettere in cattiva luce il carattere dei nostri ‘avversari’,
- l’uso di immagini e iconografie efficaci,
- e perfino andare sul pesante con allusioni di carattere sessuale o pornografico, e altri trucchi del genere.

«A volte dobbiamo giocare sporco», spiegò la mia istruttrice. «I nostri avversari non esitano a farlo, e quindi noi non possiamo tirarci indietro».

IL  RACCOGLITORE  ‘SITI  WEB’

Il secondo raccoglitore conteneva informazioni specifiche sui siti web a cui sarei stato assegnato.

Si trattava dei siti con i forum più frequentati (come CNN News, Yahoo News, ecc.) e una manciata di siti più piccoli da frequentare a rotazione.

Quando in seguito ho scritto questo ‘articolo-confessione’, l’ho proposto per  pubblicazione proprio al sito su cui avevo svolto gran parte della mia attività di troll. I gestori invece mi hanno perfino bandito dall’accesso al sito (forse vogliono perseguirmi legalmente?).

Le informazioni specifiche per sito comprendevano la storia del sito, compresi gli scontri recenti, e le istruzioni su ciò che doveva essere evitato in ciascun sito per non essere banditi.

Conteneva anche informazioni dettagliate sui moderatori e sui partecipanti più assidui, indicando:
- luogo di provenienza se noto (visto che l’inglese si parla in tanti paesi),
- tipo di personalità,
- interessi specifici della persona
- informazioni sulle debolezze psicologiche individuali e su come sfruttarle (!!!).

«Concentrati sui partecipanti (o lettori) più popolari, quelli a cui abbiamo assegnato un ‘marchio d’oro’ – ha detto la mia istruttrice. Sono quelli che maggiormente influenzano gli altri. Ciascuno di loro vale 50 o anche 100 dei nomi meno noti».

Ogni partecipante era classificato come ‘ostile’, ‘amichevole’ o ‘indifferente’ in relazione al nostro obiettivo.
Dovevamo legare con i partecipanti ‘amichevoli’ e ingraziarci i moderatori, e c’erano anche informazioni sulle strategie da adottare per specifici partecipanti ‘ostili’.
L’informazione era alquanto dettagliata, ma non del tutto perfetta per ciascun caso.

«Se riesci a convertire un ‘ostile’ e a portarlo dalla nostra parte, riceverai un grosso bonus. Ma questo accade raramente, purtroppo. E quindi passerai la maggior parte del tempo ad attaccare e infangare gli ostili».

All’inizio, come dicevo, il mio ruolo era relegato a fare il ‘poliziotto tematico’.

Si trattava di un’attività alquanto semplice e ripetitiva. Consisteva nel contrastare le argomentazioni e deviare il discorso introducendo nuove tematiche. Ciò non richiedeva una conoscenza approfondita della materia di discussione.

Per la maggior parte si trattava di fare uso dei modelli di ‘coppie di dialogo’ contenute nella sezione ‘Strategie’ del raccoglitore ‘Israele’. Era necessario far deragliare il filo del discorso quando andava in una direzione non favorevole dal nostro punto di vista, oppure lanciare accuse di razzismo e anti-semitismo.

A volte dovevo forzare la mano e mentire dicendo che uno specifico commentatore aveva detto o fatto qualcosa in un’altra discussione, sapendo bene che non fosse vero. La cosa mi faceva star male, ma stavo anche peggio al pensiero di perdere l’unico lavoro che ero riuscito a trovare da quando avevo perso il mio ‘vero’ lavoro.

In retrospettiva trovo curioso notare che, nonostante abbia iniziato questa attività sprovvisto di forti opinioni politiche, dopo alcune settimane mi sono ritrovato a essere emotivamente coinvolto nel difendere le idee pro-Israele, che stavo adottando per convinzione. Doveva essere intervenuto un qualche fattore psicologico ... Immagino che un buon venditore impari ad amare sinceramente i prodotti che propone.

«E’ un buon segno – commentò la mia istruttrice. Significa che sei pronto per il passo successivo: il dibattito complesso».

Il ‘dibattito complesso’ prevedeva un gran numero di corsi di formazione aggiuntivi, tra cui la memorizzazione di informazioni più approfondite sulle persone chiave (amichevoli e ostili) con cui mi sarei confrontato o scontrato.

Anche in questo caso esistevano linee-guida tematiche, ma ci era concessa maggiore libertà di argomentazione.

Il corso formativo avanzato forniva copioni specifici e strategie molto più dettagliate. Venivano analizzati perfino aspetti come la scelta dell’avatar più appropriato o l’uso di ‘immagini demotivanti’ che circolano sul web con un bordo nero.

Dovevamo anche fare uso di rapporti finti o falsificati, e di immagini montate ad arte mediante photoshop. Questa parte del lavoro mi metteva tuttavia alquanto a disagio.

In virtù del mio nuovo status venni anche autorizzato e addestrato al compito di trovare nuove reclute: persone ‘come me’ con la giusta personalità, l’inclinazione alla segretezza, la capacità di scrittura analitica, e la disperazione economica necessaria per accettare questo tipo di lavoro.

Ma di lì a poco, ho cominciato a sentirmi in colpa. Non perché mi trovassi a promuovere ed imporre opinioni (come dicevo, ero apolitico prima, e pro-Israele in seguito), ma a causa della disonestà implicita. Se le nostre argomentazioni erano tanto giuste e corrette, mi chiedevo, perché mai agire in questo modo fraudolento? La verità, in quanto tale, non dovrebbe essere propagata con naturalezza, senza necessità di falsa propaganda?

E poi: chi si celava dietro tutta questa operazione? Chi firmava il mio assegno mensile?

Lo stress di dover mentire ai miei genitori e agli amici sulla mia presunta posizione di ‘consulente’ cominciava a pesare alquanto.
Infine ho detto: adesso basta. Quando è troppo, è troppo.

Ho lasciato questo lavoro alla fine del 2011. Da allora ho svolto una serie di lavori poco affascinanti, a tempo determinato e a bassa retribuzione. Ma almeno mi guadagno da vivere senza mentire e senza molestare le persone che si rivolgono alla rete per esprimere le proprie opinioni ed esercitare la libertà di espressione.

Giorni fa sono capitato in quella parte di San Francisco e spinto dalla curiosità sono tornato sulla ‘scena del delitto’ per vedere cosa ne fosse del mio vecchio ufficio.
Non era più lì. Aveva cambiato sede.

Anche questo faceva parte della strategia. Non stare in un posto troppo a lungo, non mantenere lo stesso nome troppo a lungo, traslocare ogni sei mesi circa, mantenere un basso profilo, trovare nuovi addetti mediante il passaparola: è tutto parte dell’attività ‘trollesca’.

Ma è un modo di vivere ingannevole, e a prescindere se la causa sia nobile o no (e personalmente sono ancora in favore di Israele) il fine non giustifica mezzi tanto discutibili.

Questa è la mia confessione.
E penso sia giusto che si sappia: i Troll esistono. Sono reali.
Si muovono tra voi e prendono di mira in particolare quelli che tra voi sono marcati con l’etichetta d’oro – e cioè, quelli più ‘fastidiosi’ e scomodi.
Prendetene ben atto.
Sta a voi decidere come al meglio fare uso di questa consapevolezza.

Un troll pentito