mercoledì 30 aprile 2014

Alain de Benoist: «La fine della sovranità». Una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Alain de Benoist, La fine della Sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli. Arianna editrice, www.gruppomarcro.com, Cesena 2014, pp. 127, € 9,80.

Con questo saggio de Benoist segna un’altra tappa delle sue riflessioni, volta a demistificare le idee, ma meglio sarebbe dire i pregiudizi, con cui si cerca di costruire sulle ceneri di un mondo dove bene o male “la maggior parte dei bambini sapeva leggere e scrivere, si ammiravano gli eroi invece delle vittime, gli apparati politici non si erano ancora trasformati in macchine per stritolare le anime e si avevano a disposizione più modelli che diritti. Era un mondo, nel quale si poteva capire cosa intendeva dire Pascal, quando sosteneva che il divertimento ci distrae dall’essere veramente uomini. Era un mondo, nel quale le frontiere garantivano, a coloro che vivevano al suo interno, un modo di essere e di vivere che era di loro specifica pertinenza. Era un mondo, che aveva anche i suoi difetti e che talvolta è stato addirittura orribile, ma in cui la vita quotidiana della maggior parte delle persone era quanto meno garantita da dispositivi di senso, in grado di dare dei punti di riferimento”. Il nuovo che dovrebbe succedergli consiste in una “sorta di cesarismo finanziario che consiste nel governare i popoli tenendoli in disparte”. Lo Stato “terapeutico e gestionale” in tale quadro “basa  il proprio potere sulla costituzione assolutamente volontaria di una situazione subcaotica, sullo sfondo di una fuga in avanti e di un’illimitatezza generalizzate, creando in tal modo una condizione di guerra civile fredda”. La “mondializzazione” (che corrisponde a ciò che in Italia è denominato “globalizzazione”) “non è nient’altro che il processo geo-storico di espansione progressiva del capitalismo in scala planetaria, l’espansione planetaria del principio del libero mercato”. Condizione perché questo avvenga è che l’area delle decisioni pubbliche (politiche) venga ridotta, ma soprattutto finalizzata al “sistema” capitalistico, nella forma dominante che ha assunto, ovvero quella finanziaria. De Benoist si chiede “Chi sono i grandi perdenti della mondializzazione? sono chiaramente i governi e gli Stati. Rimane tuttavia da capire se è stata la mondializzazione a portare all’indebolimento degli Stati, oppure se è stato l’indebolimento degli Stati (insieme alla disintegrazione dei valori collettivi, che prima strutturavano il corpo sociale) a permettere la mondializzazione”.

Questa è la novità del presente: fino alla metà del secolo scorso il “politico” e l’ “economico” andavano avanti sostanzialmente di pari passo: il capitalismo aveva avuto bisogno dello Stato moderno, del potere razionale-legale, del monopolio statale della decisione politica e della forza legittima per espandersi e rimuovere gli ostacoli alla propria crescita. Ora è lo Stato moderno la principale (possibile) remora   ad un ulteriore consolidamento dell’assetto economico (nella forma che ha assunto) e di conseguenza la sovranità (dei popoli) che dello Stato (democratico) moderno è l’intralcio essenziale.

Sono molte le riflessioni che il saggio suscita – così come l’attenta prefazione di Edoardo Zarelli. Cerchiamo di evidenziare le più interessanti, due per tutti i lettori, e una, specifica, per gli italiani.

La prima: se è vero che politico ed economico, come scriveva Freund, sono due essenze, c’è altrettanta possibilità di (eliminare o) sottomettere il politico da parte dell’economico che viceversa. Piuttosto, a seguire M. Hauriou e O. Spengler, l’importanza e la percezione decisiva del prevalere dell’uno sull’altro, dipende dalle vicende ed epoche storiche. E il tutto consegue più dal sentire comune del periodo che da altri fattori “reali” (come tecniche di produzione, norme giuridiche, risorse finanziarie ed economiche). Il che da un lato suggerisce un metodo di lotta e resistenza alla globalizzazione, di cui questo libro è un esempio: costruire un common sense diverso (e spesso opposto) a quello favorito dalla propaganda, assordante e/ o insinuante, del “sistema”. Dall’altro che se il prevalere del “denaro”, come scriveva Hauriou, è uno dei fattori e segnali della fase di decadenza delle comunità umane a questa succede un ciclo ascendente, fondato su nuovi  fondamenti spirituali, religiosi soprattutto, ciò può darci una speranza. Che è poi la consapevolezza che la fine della storia non c’è e, quel che più rileva, non è questa, la quale casomai è la fine di un ciclo, o di un’epoca.

L’altra è che nella “pars costruens” nell’edificazione di istituzioni che garantissero e proteggessero l’economia capitalista, la preferenza è andata ai Tribunali, cioè a un potere giudiziario svincolato dello Stato: questo non fa più “parte” dello Stato, ma è da questi svincolato e loro superiore. La diffusione di questi organismi nel secondo dopoguerra è stata impressionante. Se Hegel affermava con ragione che “non c’è Pretore tra gli Stati”, ora si può – con altrettanta ragione – sostenere che ve ne sono, e fin troppi. Ma questa predilezione verso il potere giudiziario (in specie non statale) deriva dai caratteri di tali organismi, che non sono d’investitura popolare, in cui la subordinazione di questi agli stessi Stati praticamente non esiste – almeno nella maggioranza dei casi - e spesso statuiscono in base a norme dal contenuto vago, e talvolta senza un reale supporto normativo “esterno”. In sostanza una giurisdizione nei fatti tendenzialmente autoreferenziale, ma soprattutto – quel che più conta – svincolato – o poco vincolato – dal controllo statale. Il che ne fa graditi strumenti “regolativi” per il capitalismo post-moderno.

La terza riflessione (per gli italiani). L’Italia è un paese che ha la caratteristica, contraddittoria, di essere tra i primi dieci-quindici del mondo quanto alle attività private, ma uno dei peggiori piazzati quanto a funzioni e servizi pubblici. È inutile stare a citare i macro-dati relativi: sta di fatto che questo connotato di una società vivace, almeno fino a qualche decennio orsono, e di apparati pubblici poco efficienti e (quindi) largamente parassitari, ne fa un caso pressoché unico in Europa (a limitare geograficamente il paragone). A prescindere da tutto quello che potrebbe scriversi in merito, la causa principale (ma non esclusiva) di ciò era ed è l’assetto policratico della costituzione materiale, caratterizzata dal frazionamento pluralistico delle potestà pubbliche, dalla scarsa capacità decisionale e dalla difficoltà di trovare momenti di sintesi.

Connotati che, presenti nella prima repubblica hanno continuato ad esserlo – con qualche correzione insufficiente - anche nella “seconda”, assumendo solo un nuovo nome: poteri forti (proprio perché quello democratico è debole).

Questa debolezza strutturale, peraltro officiata da non pochi conservatori dell’esistente, ha mostrato la sua specifica fragilità con la crisi economica. Alla corrosione interna, si è aggiunta – ed era logico, quella della finanza internazionale, più o meno collegata con (gran) parte dei “poteri forti” interni.

Occorre all’uopo ricordare che la rappresentazione di questa situazione, che nasconde sotto la protezione dei diritti individuali e “sociali” (quest’ultimi sempre meno), la volontà di dominio (e sfruttamento) e il rifiuto di responsabilità chiare e dirette, l’ha data Carl Schmitt, sostenendo che i diritti individuali (a contenuto liberale o socialista) sono “i coltelli coi quali potenze anti-individualistiche macellavano il Leviatano, spartendosene le corna” .

E in effetti l’effetto sinergico nella demolizione e spartizione del Leviatano dei “poteri forti” interni e di quelli esterni è la chiave di lettura della crisi italiana contemporanea, di uno Stato (e una classe dirigente) debole, aperta o esposta a qualsiasi sopraffazione, e come profetizzava alla Costituente V.E. Orlando ad ogni “servilità”.

Teodoro Klitsche de la Grange

martedì 1 aprile 2014

Teodoro Klitsche de la Grange: «La decadenza italiana», relazione al convegno “Per una Nuova Ogettività”,

Testo in corso di editing
con note da aggiungere.

LA DECADENZA ITALIANA

1. La decadenza non è tra i temi più frequentati dalle elites politiche e culturali italiane. In un contesto culturale propenso a credere che l’economia sia il destino e che fatti e processi storici siano da valutare preferibilmente sotto l’aspetto numerico-quantitativo, dovrebbe suscitare  stupore che il dato della decrescita del PIL italiano (del sette per cento dal 2008 ad oggi) non abbia suscitato quasi nessuna discussione; questo in un paese che ama parlare diffusamente e pubblicamente anche dei fatti minimi e irrilevanti.

L’unica spiegazione che si può dare – oltre a quella che parlarne porterebbe alla ricerca dei responsabili (se ve ne sono), cosa pericolosa per chi esercita il potere – è che la decadenza è, per sua natura, opposta all’idea di progresso, e in particolare a quell’idea di progresso nota e assai coltivata negli ultimi due secoli, per cui il progresso è un dato di fatto, (e ancor più una forma di legittimazione per chi se ne proclama fautore); e l’umanità in ogni epoca si trova progredita rispetto all’epoca (al tempo) antecedente, e questo processo non avrà mai limite. Soltanto che i fatti cui far riferimento sono diversi e decisivo, per capire l’andamento, è la collocazione temporale di riferimento. Se si paragona la situazione dell’uomo moderno con quella dell’uomo del neolitico, il progresso è chiaro: in 8-10 millenni è enormemente aumentato il benessere, la durata della vita, le chances di vita. Ma se il periodo di riferimento è diverso, ad esempio tra gli ultimi secoli dell’Impero romano  d’occidente e l’epoca carolingia(circa cinque o sei secoli) parlare di progresso tra l’una e l’altra epoca appare bizzarro. Un servo della gleba carolingio avrebbe considerato con invidia l’antenato, colono di un latifondista: malgrado le vessazioni e le fiscalità della burocrazia del dominato, godeva di edifici pubblici e privati meglio costruiti; di ponti e strade mantenuti, poteva viaggiare anche per mare senza temere pirati e saraceni, e aveva una durata della vita di circa quindici anni più lunga (che è l’indice principale di benessere). Parlargli quindi di progresso – nel senso suddetto – sarebbe sembrata una boutade di cattivo gusto.

La diversità tra il punto d’osservazione e l’osservato ha prodotto pertanto una serie di concezioni dell’ “andamento” della storia, che possono così sintetizzarsi.

L’umanità è in progresso: è quella prima sintetizzata. Nello spazio cartesiano se l’ascissa indica il tempo e l’ordinata la “felicità”, è rappresentata da una retta che cresce verso l’alto.

L’umanità regredisce: è la tesi del pensiero più antico per cui l’umanità ha conosciuto all’inizio della storia l’era più felice (l’età dell’oro, il paradiso terreste, e così via) ed è andata peggiorando: è, una retta che procede verso il basso.

La storia (le vicende umane) si ripete, in cicli più o meno uguali: concezione cara a gran parte del pensiero antico, meno del moderno: nello spazio cartesiano è una sinusoide con andamento medio  - grossolanamente – parallelo all’asse delle ordinate.

2. Tale ultima ipotesi è stata la più frequentata e condivisa: dagli stoici a Nietzsche passando per Vico. Ha dalla sua un argomento forte: quello della costanza (la regolarità) della natura umana, al di là delle varie vicende storiche. Nella sua applicazione “politica”, cioè prendendo in esame le vicende politico-istituzionali, inizia con Polibio di Megalopoli, il quale tuttavia scrive di non essere il primo: “Forse con maggiore diligenza da Platone e da alcuni altri filosofi fu trattata la teoria della naturale trasformazione delle varie forme di governo” . Secondo lo storico greco ogni forma politica conosce fasi di progresso e di decadenza, al termine della quale si trasforma in altra. E passando all’esposizione della successione delle forme di governo scrive che prima è la monarchia; ma quando al primo re (“intronizzato” da una crisi – à la Girard) succedono altri, con i privilegi dei re, ma senza le sue qualità e la necessità che lo aveva favorito, “a causa dei soprusi si accesero odio ed ostilità: il regno si mutò in tirannide. Cominciò la rovina di quella forma di governo, si tramarono insidie contro i re”. Coloro che guidano la rivolta costituiscono del nuovo regime; ovvero l’aristocrazia ; ma succedendo loro i figli “ fanno sorgere di nuovo nel popolo uno stato d’animo simile a quello di cui abbiamo prima parlato, e perciò tocca anche a loro una caduta finale simile a quella toccata ai tiranni”. Quindi, altro rivolgimento  e istituzione di un regime democratico; al quale, una volta degenerato, succede un nuovo regime monarchico. E il cerchio si chiude.

Machiavelli, nei Discorsi (Lib. I, cap. 2) riprende la concezione di Polibio delle tre forme di governo che degenerano e succedono l’una all’altra “Alcuni altri e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delle quali tre ne siano pessimi; tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi che vengono ancora essi a essere perniciosi” e data la facilità delle forme “buone” a convertirsi nelle “perniziose” “se uno ordinatore di republica  ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. E succedendo le forme di governo l’una all’altra Machiavelli conferma che “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano né governi medesimi, perché quasi nessuna republica  può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede ”.

Tale concezione dell’avvicendamento ciclico delle forme di governo, e della loro decadenza, ritorna, tra gli altri, in Mosca e Pareto. Il primo scrive che questa s’accompagna alla “mancanza di energia nelle classi superiori, che divengono deficienti di caratteri arditi e pugnaci e ricche di individui molli e passivi… quando la classe dirigente è degenerata nel modo che abbiamo accennato, perde l’attitudine a provvedere ai casi suoi ed a quelli della società, che ha la disgrazia di essere da essa guidata” .

Il secondo vi ritorna più volte, enumerando (come fa anche Mosca) i sintomi della decadenza: attenuazione della mobilità sociale (“cristallizzazione”) soprattutto chiusura della classe dirigente; uso da parte di questa dell’astuzia più che della forza; la classe governante tende a diventare “un ceto d’impiegati, colla ristrettezza di mente che è propria di tal gente” , aumentano, nella classe dirigente, i residui della classe II e scemano quelli della classe I. Quando, nell’impero romano d’Occidente, i barbari lo fanno cadere, invertono le tendenze ricordate . E comincia un nuovo ciclo (o nuova era).

Per Pareto, com’è noto, la regola dei fenomeni sociali è l’andamento ritmico-ondulatorio, per cui ad un periodo ascendente  segue immancabilmente uno discendente, e inversamente . Le “onde” cambiano secondo la durata del fenomeno, e vi sono “vari generi di queste oscillazioni, secondo il tempo in cui si compiono. Questo tempo può essere brevissimo, breve, lungo, lunghissimo” . Scrive Pareto: “Si può dire che in ogni tempo gli uomini hanno avuto qualche idea della forma ritmica, periodica, oscillatoria, ondulata, dei fenomeni  naturali compresi i fenomeni sociali” ; nota peraltro che mentre nel passato  prevaleva la convinzione del carattere ciclico, ora prevale quella favorevole della società, di un bene crescente .

2. Il carattere ciclico non è limitato, ovviamente, ai regimi o alle “forme” politiche. Accanto a questo c’è altro. Quello del chi decade è un altro problema. Essendo ogni comunità umana un aggregato di esseri viventi, e quindi mortali, le sintesi sociali da questi costruite sono soggette allo stesso ciclo: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia.

Spengler e Toynbec considerano specificamente  l’aspetto della decadenza delle civiltà anche in funzione (di filosofia della storia) anti-eurocentrica. Per cui è la civiltà occidentale (o faustiana o anche del cristianesimo occidentale) oggi a decadere. Della quale è parte, e non poco, l’Italia.

Altri, tra cui occorre ricordare Ernste Nolte, (ma l’elenco di quanti sostengono tale constatazione è assai esteso), ad essere nella fase discendente  è l’Europa, detronizzata dalle due guerre mondiali – e successive guerre coloniali – dalla funzione di “guida” del mondo .

Anche al processo di decadenza europeo non è estranea – per motivi sia storici che geografici – l’Italia.

Però a decadere può essere anche – e principalmente -  a seguire i pensatori sopra citati – tra i tanti – anche una comunità e, più precisamente, la sua forma politica.

E qua, di converso, l’Italia si trova da sola – almeno nel contesto sia geografico che di civiltà. É a tale specifica “classe” di decadenza che occorre dedicarsi.

3. In Italia non piace parlare di decadenza sia perché falsifica – o almeno relativizza – l’idea di progresso, sia perché sminuisce il consenso alle elites al governo.

Queste, come tutte le classi dirigenti, necessitano di “miti” (derivazioni, idee, forza, tavole di valori e così via), atte a legittimarle. I quali come tutte le cose ed opere umane (comprese le istituzioni) hanno una nascita ed una morte. Al contrario ciò che si vuole di durata eterna – o almeno lunghissima, con termine in saecula saeculorum, - non ha nascita né morte (o, quanto meno, sono ignote ambedue o una delle due) .

Parlare di decadenza, di idee e realizzazioni obsolete o anche solo rapportate ad una determinata situazione storica e non aventi validità al di fuori di quella, ormai esaurita – e ancor più se la si pretende universale – ha lo stesso senso (e gradimento) di un coro che faccia le prove del requiem per il proprio direttore.

Ciò non toglie che la decadenza vi sia; ed alcuni dati ce la confermano, e servono a chiarirne – per somme linee – la natura. Occorre ricordare che nel 1945 si apriva un nuovo ciclo, dopo una guerra persa e l’occupazione militare, con l’intronizzazione, da parte dei vincitori, di una nuova classe politica, che provvedeva, come da dichiarazione di Yalta, a dare all’Italia una nuova costituzione (peraltro la volontà costituente era anche nella volontà del popolo italiano - v. nota 14, a1); per circa trent’anni durava la fase ascendente; seguita – dopo qualche anno – da quella discendente.

Questa – anche se non esclusivamente – è prevalentemente  decadimento di istituzioni e attività pubbliche (e del relativo personale dirigente). Un dato tra i tanti disponibili, lo sintetizza il PIL italiano è, secondo i dati – il 6° nel mondo – il reddito pro-capite il 12°; mentre il Primo presidente della Corte di Cassazione (quindi non Berlusconi o Dell’Utri) anni fa disse che il funzionamento della giustizia civile italiana la collocava al 156° posto tra gli Stati (che sono, sul pianeta, 181) .

Ciò stante è evidente che la decadenza – o meglio questo fattore porincipale della decadenza italiana ossia del “pubblico” – s’iscrive precisamente nel modello “classico” del ciclo delle istituzioni e dei regimi politici pensato più in relazione a questo che alla comunità cui davano forma. Comunità che continuavano ad esistere (in suo esse perseverare), anche cambiando regime ed istituzioni, il ciclo delle quali non coincide con quello dell’esistenza comunitaria.

La decadenza delle istituzioni è comunque il fattore principale – anche se non esclusivo - della decadenza italiana, che appare chiaro dal peggioramento precedente delle attività e funzioni pubbliche rispetto a quello delle private (in primis i sette punti di PIL persi negli ultimi cinque anni): gli indici di decadenza pubblica erano già preoccupanti quando quelli non pubblici andavano discretamente: la fase discendente degli apparati istituzionali ha preceduto – di almeno vent’anni – quella delle attività private. Il che non vorrebbe dire che quella è necessariamente ed esclusivamente causa di questa; ma che lo è  in misura rilevante.

E che da almeno trent’anni s’intravedessero dei robusti “indici” di decadenza, a partire da quello della divaricazione tra governati e governanti e di calo del consenso di questi è un dato evidente . Dall’inizio poi degli anni ’90, ancora di più perché il crollo del comunismo e la “fine” dell’ordine di Yalta hanno concluso il periodo storico in cui le élites attualmente dirigenti hanno conseguito e mantenuto il potere.

Il tutto con evidenti e vistosi effetti sulla legittimazione e sulla reale capacità d’integrazione dell’ordinamento (v. nota precedente). Nella dottrina politica più antica la crisi (cioè il passaggio da un regime ad un altro e da una fase discendente  ad una ascendente) , era denotata dalla circostanza eccezionale (nel senso schmittiano o anche à la Girard) e dalla consunzione della vecchia classe dirigente (v. per tutti Polibio e Machiavelli). A partire dalla rivoluzione francese l’accento è stato posto sulla legittimità (e sul venir meno di questa). In realtà i due criteri non si elidono, né sono in opposizione; anzi la categoria (moderna) della legittimità può includere la consunzione, attribuita prevalentemente dai più antichi all’aumento del “divario” tra merito e consenso (ambedue decrescenti) della classe dirigente, col conseguente venir meno della “riverenzia” (scrive Machiavelli) dei governati.

4. Diversamente dalle crisi di civiltà descritte da Spengler e Toynbee, l’alternarsi di fasi ascendenti e discendenti dei cicli politici non comporta distruzioni (o rinnovamenti) epocali: non è la caduta dell’impero romano d’occidente o delle civiltà precolombiane, ma solo  il rinnovarsi dell’ordine politico. Indubbiamente una crisi, ma in un certo senso “normale” (perché rientrante nell’ordine naturale delle opere umane). Il pensiero “orientato all’eccezione” moderno quello giuridico in particolare (da Schmitt ad Hauriou, da Jhering a Santi Romano)  non vi vede alcuna “novità”: è la normalità del movimento della storia che comporta il cambiamento (anche) delle istituzioni. Nel pensiero politico realista, soprattutto in Mosca e Pareto, la sostituzione di èlite e regimi consunti, fiacchi e decadenti con elite nuove e vigorose, per lo più produce benefici  sociali rilevanti.

Il cambiamento non quindi è demonizzato; da un canto è considerato come un dato, dall’altro per lo più positivo, almeno nel lungo periodo. È sicuramente appare frutto di visione miope pensare che una situazione, un equilibrio o un regime politico possa essere “cristallizzato” non solo in eterno, ma anche nel breve-medio periodo. Le istituzioni (e le comunità) umane, scriveva Hauriou, sono sempre in movimento e l’ordine che presentano è quello di “un esercito che marcia”; e non, si può aggiungere, quello di un organigramma o di un trattato di geometria. Dietro e dopo la decadenza di un’istituzione si vede un nuovo ordine che è generato; e siccome l’accadere dell’una e dell’altro è regolarità storica, occorre tenerne debito conto.

E per farlo e per non sprecare le occasioni che un rinnovamento dell’ordine politico – in primis quale nuova fase ascendente – offre, vi sono cose da  evitare.

In primo luogo negare che esista la decadenza o sottovalutarla o anche – come capita – attivare la disinformazione (nella forma preferita) di non discuterne. È proprio quello che si pratica oggi in Italia dove si tenta di esorcizzare la decadenza con formule magiche tratte dall’armamentario verbale del progresso “senza se e senza ma”. Delle quali la storia non si preoccupa, come i terremoti degli autodafè.

La seconda cosa da non praticare è tentare di tirare la storia – sempre lei – per la giacchetta. Come? Paretianamente facendo leva sulle derivazioni e sul  tentativo di ri-legittimazione di classi dirigenti e di regimi esausti.

L’argomento all’uopo più impiegato è esaltare la bontà/bellezza/santità delle (asserite) idee delle elite discendenti. Occorrendo contrapponendole alla cattiveria/bruttezza/peccaminosità di quelle dei loro avversari. Ma il limite dell’ (adusata) operazione è che, specie in tempi di crisi e ancor più se le fasi discendenti si prolungano, i governati sono più attenti ai risultati che alle intenzioni dei governanti, alle (di essi) opere più che alle idee. Per cui, certi discorsi si svelano in breve per quel che sono: espedienti per occultare pratiche (e risultati) di segno contrario. Qualche volta (ma è cosa assai rara) prediche di profeti disarmati .

Il presupposto su cui si basa quest’armamentario di giustificazioni è che sia possibile cristallizzare una comunità umana, fermare o anche rallentare il movimento della storia e delle istituzioni. Come prima cennato, all’inverso, Hauriou vede l’ordine sociale come movimento lento e uniforme, che richiede necessariamente adattamenti e innovazioni .

E questa consapevolezza appartiene al giurista francese come a tanti altri, tra cui quella sopra citati, ai quali c’è da aggiungere (tra i molti) Smend e la sua teoria dell’integrazione che Schmitt riteneva uno dei significati del concetto (assoluto) di costituzione e cioè “il principio del divenire dinamico dell’unità politica”.

Che un ordine sociale possa “cristallizzarsi” è contrario non solo a quella dottrina del diritto ma a gran parte del pensiero filosofico, a cominciare dal panta rei di Eraclito.  Oltre che, ciò che più conta, ad un’osservazione, anche non particolarmente profonda, dei mutamenti storici.

In definitiva la concezione criticata trascura che nei fatti sociali vi sono – come in tutti i fatti – sia regolarità (che non si possono cambiare) che variabili (che è nella possibilità della comunità umana innovare): cosa ben nota anche nel pensiero teologico-politico ; e ancor più in quello filosofico, politico e giuridico.

5. Prima di concludere occorre fare due postille. La prima: è da rifiutare la concezione economicista – e in un certo senso, anche marxiana – che la “causa” delle decadenze (e anche della ascendenza) siano economiche. Indubbiamente l’economia ha la sua parte, ma concorrente non determinante o almeno (quasi mai) determinante.

Piuttosto è preferibile la tesi weberiana (e non solo) che sia la cultura e in particolare la religione a muovere le file: sia della fase di decadenza che di ascendenza.

In tal senso, ancora una volta in questa giornata, è il caso di ricordare cosa ne pensava Hauriou.

Secondo il quale esistono nelle istituzioni fattori di decadenza e fondazione: “come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso. Alcune di tali spiegazioni sono note: è almeno dal pensiero antico che è stata rilevata (e da sempre ripetuta) la capacità del denaro e dello spirito economicista di corrodere le istituzioni. Ma è meno ripetuto quanto avverti il giurista francese: che alla fine lo spirito economicista finisce per distruggere perfino le proprie creature (come la speculazione finanziaria fa con l’economia reale – è cronaca di questi giorni).

Lo spirito critico (oggi si direbbe relativismo): anche qui, come nelle notazioni sul carattere fondante (le istituzioni) tipico della religione, Hauriou anticipa considerazioni  che avrebbe fatto (anche) Arnold Gehlen. Ma soprattutto demistifica  anticipatamente, e a ben vedere, in una linea di pensiero che va da Vico ai pensatori controrivoluzionari come Maistre e Bonald, l’idea che lo spirito critico possa legittimare autorità e istituzioni. Non foss’altro perché, come scriveva Vico, queste esistono per dare certezze e non verità”.

Come fattori di rigenerazione indicava la migrazione dei popoli e il rinnovamento dello spirito religioso.

Argomento su cui ritornò più volte : considerava la teologia il fond di ogni assetto politico che nei governements de fait (quelli generati dalle crisi) tiene unita le comunità anche nel dissolversi dalle istituzioni e da modo di ricostruirne delle nuove.

La crisi attuale è connotata proprio dal “disordine” economico-finanziario, che ha, come scriveva il giurista francese un secolo fa, inceppato la stessa macchina capitalista (cioè, in un certo senso, se stesso) ; e dallo spirito critico (che in larga misura oggi si chiama “relativismo”) , che corrode i “fattori di coesione”, cioè quelli – principale quello religioso – unificanti. Anche in questo non è difficile notare la stretta affinità tra il giudizio del giurista francese e la situazione concreta, anche se spesso – incoerentemente – contorta nelle contraddizioni del di chi vorrebbe giustificarla. Basti ricordare la bizzarria di una “Costituzione” europea (che non è costituzione), ma era spacciata come tale, che è stata privata del riferimento alle “radici giuridico-cristiane” rifiutandone così esplicitamente i caratteri unificanti (oltre che dimenticando più di un millennio di storia): in vista di un qualcosa (un “melting pot” tra culture) e che non si sa come e se avverrà e soprattutto se potrà unificare veramente popoli diversi.
Teodoro Klitsche de la Grange

(relazione tenuta il 21/02/2014 al convegno  del Movimento “Per una Nuova oggettività” su la “Decadenza”, all’ “Universale” in Roma)