sabato 28 febbraio 2009

DE CIVE. Rivista di pensiero politico. Homepage

DE CIVE
Rivista di pensiero politico
1996

Direzione: Antonio Caracciolo
Redazione: Giuliano Borghi, Marco Caserta, Francesco Coppellotti, Matilde de Pasquale, Biagio di Iasio, Domenico di Iasio, Fulvio Fazio, Carlo Gambescia, Carmelo Geraci, Mariangela Leotta, Günter Maschke, Günter Meuter, Paolo Savarese, Agostino Severo, Roberto Valle.
Comitato Scientifico: Francesco Gentile, Giacomo Marramao, Francesco Mercadante, Antimo Negri, Helmut Quaritsch, Heinrich Scholler, Piet Tommissen
Segreteria: Claudio Matarese
Direttore Responsabile: Alessandro campi

Anno I - N° 1
Gennaio-Giugno 1996


SOMMARIO
3
Presentazione
di
Antonio Caracciolo

4
Notizie

Clemente Forte: Omaggio a Ernst Jünger, p. 4; Antonio Caracciolo: Destra e sinistra. Hanno ancora senso questi nomi?, 4-5; Riccardo Cavallo: Verso una nuova democrazia?, 5-6; Pier Franco Taboni: Polemiche: l’«insostenibile leggerezza» del ‘liberal’, 6-8; Biagio di Iasio: Etica e storia, 8-11; Biagio di Iasio: Filosofia e ambiente di vita, 11-12; Antonio Caracciolo: Augusto del Noce filosofo del nostro tempo, 12-13; Antonio Caracciolo: Monoteismo e conflitto, 13-15.


25
“Niuna terra in cielo”. Bernard Willms e la storia della filosofia
di
Roberto Farneti

29
Fondamenti della filosofia del linguaggio
nella concezione politica di Hobbes

di
Klaus M. Kodalle

41
La protezione del cittadino come fondamento della legittimità
di
Antonio Caracciolo

43
Kat–echon contro Eigner
di
Bernd A. Laska

55
I due volti del Leviatano
di
Günter Meuter

65
Morale e diritto nell’Antico Testamento
di
Paola Helzel

75
I tedeschi e i loro passati
di
Ernst Nolte

81
Recensioni

Maria Felicia Schepis: La contesa tra fratelli, a cura di Giulio Chiodi, Torino, Giappichelli, 1993, pp. 414, Lire 48.000 ISBN: 88-348-3114-4, pp. 83-84. Paul Piccone: I paradossi del conservatorismo, recensione di David Frum, Dead Right (New York: Basic Books, 1994), 230 pp. La traduzione dall’inglese della recensione è di Maria Giuseppina Masulli, pp. 84-88.

(Segue)

giovedì 26 febbraio 2009

Bernard Willms: Politica come “philosophia prima” ovvero cos’è un filosofare politico radicale?

Homepage


Nel 1996 aveva fondato De Cive. Rivista di pensiero politico, di cui per tre anni uscirono di seguito sei numeri. Da ogni fascicolo ripubblico qui in “Civium Libertas” articoli particolarmente significativi. Una apposita Homepage conterrà tutti gli indici dei fascicoli apparsi, che per gli interessati all’acquisto sono ancora disponibili presso l’Editore. Questa ripubblicazione di articoli prelude alla possibile ripresa della pubblicazione della rivista cartacea nel prossimo anno solare. Le difficoltà che hanno portato all’interruzione della rivista erano esclusivamente di carattere redazionale. Se sarà possibile costituire un’ampia redazione che possa reggere agli impegni propri di una rivista cartacea e se al tempo stesso vi sarà la prenotazione di un congruo numero di abbonamenti, potrà essere valutata la riedizione con lo stesso titolo della rivista interrotta. Scelgo come primo articolo qui ripubblicato un testo del compianto e collega Bernard Willms, al quale rivolgo un commosso ricordo. La traduzione del testo è di Roberto Farneti. L’articolo è apparso su De Cive, n° 1, gennaio-giugno 1996, pp. 17-24.

Antonio Caracciolo

* * *

Bernard Willms

POLITICA COME PHILOSOPHIA PRIMA OVVERO: CHE COS’É UN FILOSOFARE POLITICO RADICALE?


La parola radicale nella formulazione di questo tema accentua qui non tanto il Politico, quanto il Filosofare. Politicamente radicale sarebbe, da un certo punto di vista, un pensiero che arriva a toccare estremi teoretici e pratici. La radicalità politica è liquidatoria, è di parte e può mobilitare le masse. Il suo contegno mentale è ideologico. Essa appartiene all’orizzonte della patologia politica. La radicalità filosofica è, al contrario, la virtù specifica del pensiero. Essa va dritta all’intero, al riconoscimento (Anerkennung) ed è esclusiva nel senso del rigore e dell’unicità. La filosofia politica non sia qui intesa come sottodisciplina della filosofia pratica, nella comprensione della quale mantiene comunque una posizione storicamente e sistematicamente fondabile. Filosofia politica radicale sia qui detto un filosofare che vede nel Politico il fondamento di ogni pensabile. Ad ogni modo, ciò che in un pensiero è fondamento, archè, di ogni altra cosa, sia detto a ragione la sua philosophia prima.

Filosofia politica nel senso del filosofare politico radicale non tiene conto di alcun possibile rapporto esteriore di metafisica e politica. Per la filosofia politica nel senso qui precisato, metafisica nel senso di philosophia prima è la stessa cosa di politica.

Una tale radicalità non è solo il risultato di una decisione soggettiva, ma di una sfida radicale la cui obiettività può e deve essere resa plausibile. Il pensiero si inoltra nella radicalità del politico quando diventa cosciente del caso critico (Ernstfall) radicale. La classica formulazione del caso critico è sempre questo “Essere o non essere” con cui, dopo Adorno, l’individuo moderno calca la scena della storia. La finitudine di ogni esserci dà alla questione “Essere o Non essere” sempre un carattere generale, anche se gli uomini hanno imparato ad accomodarsi su questa questione – nel caso normale – in modo abbastanza ordinato. Allo stesso modo, di fronte ad un’imminente fine del mondo si potrebbe, nella misura in cui essa fosse, religiosamente e teologicamente, integrata in un ordine globale, voler piantare alberi, generare figli e costruire case. Soltanto il caso critico, non assimilabile al caso normale, restituisce a questo, nuovamente, la sua qualità originaria; e allora non bastano più quelle istituzioni ordinate o quelle irresolutezze amletiche. Quando l’improvvisa morte violenta in ictu oculi diventa una minaccia generale, completamente realizzabile per ognuno di noi, allora la questione sulla verità diviene un lusso, quella sul senso, una scappatoia, quella sulla metafisica diventa un parlare di alberi. Rimane appropriata la questione sulla necessità, e rimane certamente concreta quella sulla necessità della fondazione, conservazione e riedificazione di una situazione normale: questa è la questione del Politico.

Per filosofia politica radicale si intenda qui il risultato dell’idea che della filosofia in senso proprio non è rimasto nient’altro; di fronte ad una umanità che con le destre – ma del resto anche con le sinistre – prepara l’autodistruzione del mondo, e con le sinistre così come con le destre, distrugge i boschi, uccide in massa i propri figli, sia prima sia dopo la nascita, e lascia crescere le proprie case come agglomerati che regolarmente diventano letali per una parte dei suoi abitanti.

Queste caratterizzazioni non sono affatto da intendersi come Apocalissi scongiurate, ma come obiettivo divenire consapevoli di una nuova qualità del caso critico. Quella messa in questione che risulta dalla presa di coscienza di questo caso critico deve essere spiegata in due momenti distinti.

Per prima cosa essa deve essere resa chiara, per il diciassettesimo secolo, sulla base del pensiero di Hobbes, che alla luce del più recente sviluppo della ricerca può essere illustrato come pensiero radicale del politico.

Successivamente si dovrà cercare di rendere concretamente accessibile quella un tempo acquisita radicalità del pensiero politico per la quale non ne va di una filosofia politica compiuta, ma di mettere in mostra il tentativo che la riduzione della philosophia prima alla politica non ha un significato bloccante (verschließende) ma ne ha, al contrario, uno dischiudente (erschließende).

Il risultato più sorprendente della ricerca hobbesiana degli ultimi dieci anni è il lavoro su di un Leviathan intégral, che sta a significare una lettura ricostruttiva di Hobbes, che comprenda in una maniera più approfondita sia la dimensione scientifica, sia quella politica, sia quella teologica dell’opera, nel senso della supposizione di coerenza a favore dell’autore. Con ciò, il breve periodo di disperazione dovuto a quella disparità delle interpretazioni che vent’anni fa fu accentuata da Quentin Skinner è da vedere nel suo volgere al termine in tempi brevi. Secondo Skinner le interpretazioni hobbesiane significative del secondo terzo del nostro secolo – quindi l’interpretazione morale-giusnaturalistica di Taylor e Warrender, quella politico-aristotelizzante di Leo Strauss, quella economica di MacPherson e quella teologica di Hood e Kodalle – pagano la loro rispettiva plausibilità con l’incompatibilità reciproca, da cui Skinner dedusse l’impossibilità di una interpretazione consistente, non senza sviluppare egli stesso la proposta assai costruttiva di una accresciuta ricerca contestuale (1).

La generazione dei ricercatori hobbesiani che abbraccia sia la filosofia analitica anglosassone sia le tradizioni europeo-continentali – ed è da contrassegnare coi nomi di Aryeh Botwinnik, Sheldon J. Eisenach, David Johnston, Michele Malherbe, Tom Sorell e Yves Charles Zarka – lavora oggi, nuovamente e con successo, al Leviathan intégral, per riprendere ancora una volta l’espressione di Malherbe (2). Ciò significa che in merito a ciò non si tratta solo del Leviatano, bensì dell’opera complessiva di Hobbes, nella misura in cui essa integra gli aspetti metodologico-epistemologici, politici e teologici. In questo senso, questi autori non debbono in alcun modo pagare il prezzo della inconciliabilità delle loro interpretazioni, neppure quando gli uni non sanno nulla degli altri (3).

La nuova dimostrazione della coerenza del pensiero di Hobbes – così come può essere evidenziata, e di fatto lo è stata – ha la sua espressione più convincente nel fatto che, e nel modo in cui, la philosophia prima – nel senso metafisico della parola – sia da intendersi, in Hobbes, nel quadro della fondazione politica del suo intero pensiero. Thomas Hobbes è, per un verso, l’erede della grande tradizione filosofica occidentale, per l’altro, uno dei fondatori del moderno razionalismo scientifico: la sua philosophia prima è politica nel senso di una arché nel significato classico della parola.

Tutti questi recenti sforzi orientati alla coerenza nel pensiero politico e metodologico in Hobbes devono essere visti sullo sfondo del problema generale, che è noto come problema-Leo-Strauss e che ha giocato nella letteratura un ruolo importante (4). Leo Strauss, per farne breve menzione, ha rappresentato la concezione secondo la quale le idee, le opinioni, il pensiero di Hobbes, si fossero pienamente formati già prima della sua scoperta di Euclide all’età di quarant’anni.

Questo problema, e qui ha inizio la questione intorno alla philosophia prima di Hobbes, non si lascia tematizzare sulla base del principio: che cosa sia nato prima, l’uovo o la gallina. Piuttosto, io credo, potrebbe costituire un aiuto ulteriore se si prende a tema una distinzione che fa Karl Marx nel Poscritto alla seconda edizione del primo volume del Capitale, e cioè la distinzione tra modo di indagare e modo di esporre:
«Certo, il modo di esporre deve distinguersi formalmente dal modo di indagare. L’indagine deve appropriarsi nei particolari la materia, analizzarne le diverse forme di sviluppo e scoprirne i legami interni. Solo dopo che questo lavoro sia stato condotto a termine, si può esporre in modo adeguato il movimento reale. Se questo tentativo riesce, e se la vita della materia vi si rispecchia idealmente, può sembrare di trovarsi di fronte a una costruzione a priori» (5).
Più brevemente e più elegantemente si lascia esprimere quanto menzionato con una espressione dai Cahiers di Paul Valery:
«C’est qui est au premier plan dans la tete de moi, ne l’ets pas dans mes écrits» (6).
Ricordiamo ancora brevemente che anche Hobbes è “un figlio del suo tempo”, in questo modo ci riesce più facile considerare che per un filosofo come Hobbes – per il quale non ne va di una rielaborazione scolastica di sistematiche filosofico-tradizionali, bensì di una trasposizione filosofica delle esperienze concrete della sua epoca – questo, quindi ciò che infine nella costruzione metodica viene descritto come il primo passo, come philosophia prima, cioè la corretta definizione dei nomi generali (7), può certamente essere una premessa metodica, che significa necessaria al procedimento descrittivo, ma non sufficiente, e cioè non la sua philosophia prima in senso fondativo. Qui rimane interamente determinante per Hobbes un’idea aristotelica secondo cui qualche cosa è “il primo”, “il più alto”, “il più valido”, per mezzo del quale ogni altro riceve la sua fondazione, oppure che fonda tutti gli altri (8).

Non dobbiamo, si sa, cercare a lungo per trovare l’equivalente filosofico di quanto in Aristotele in ultima istanza è il Divino: ma noi conosciamo il dio mortale, il Leviatano. Il Leviatano è un dato di cui Hobbes credette di poter dimostrare scientificamente, con necessità, l’inevitabilità, in quanto risposta alla sfida di quel caso critico che egli riconobbe nel proprio tempo. È fuori questione che Hobbes abbia vissuto il proprio tempo come un tempo di generale dissoluzione. Questa esperienza di dissoluzione sarebbe la base filosofica nel senso del cominciamento della concreta ricerca ed esperienza del mondo. Nell’esposizione sistematica questa dissoluzione corrisponde al cominciamento che ha luogo nella fittizia annihilatio mundi, la cui posizione metodologica è stata sottolineata di recente, tra gli altri, da Zarka, mentre i lavori di Johnston e Eisenach rendono estremamente chiaro un qualcosa per cui, da un punto vista pratico, alla finzione dello stato di natura corrisponde quella funzione della annihilatio mundi (9). L’esperienza reale che sta alla base di questo stato di natura è l’esperienza della dissoluzione di una normatività vincolante nella guerra civile confessionale. Tuttavia, sia annihilatio mundi sia “stato di natura” sono di nuovo, per quanto concerne loro, la premessa per rintracciare ciò che è primo, fondativo, necessario, e questo è il Leviatano ovverosia il concetto propriamente hobbesiano del politico: la philosophia prima di Hobbes è politica.

Un passo importante in questa ricostruzione del Leviathan intégral consiste in una nuova valutazione del Behemoth. Quest’opera che Hobbes compose verso la fine della sua vita è stata per lungo tempo appena presa in considerazione. Il Behemoth è rimasto all’ombra del Leviatano.

Le cose non potranno andare diversamente fintantochè entrambe le opere non verranno comprese sotto le medesime premesse dell’interrogativo che fa riferimento ai contenuti, alle questioni, alle risposte sistematiche che danno forma alla filosofia politica di Hobbes. Sulla base di questa premessa, Behemoth deve restare confinato ai margini del Leviatano. Tuttavia un’altra immagine si forma, quando viene presa sul serio la tesi secondo cui la filosofia di Hobbes, come un intero, anche nei suoi esiti più generali, deve essere compresa a partire dalla premessa delle lotte politiche che caratterizzano il diciassettesimo secolo non soltanto in Inghilterra, vale a dire delle controversie spirituali e politiche della guerra civile confessionale.

Dopo che in Germania, già negli anni Trenta, fu richiamata l’attenzione da Schmitt e Schelsky sul significato del Behemoth e dopo i lavori di McGillivray e Ashcraft negli anni Settanta c’è oggi finalmente, una nuova serie di studi sul Behemoth; di Paulette Carrive, di Noam Flinker, di Mark Hartmann e di Robert Kraynak (10). Il libro in cui Hobbes sviluppò la sua teoria sulle cause della guerra civile deve avere infatti una collocazione altamente significativa. Questo problema delle cause della guerra civile fu visto da Hobbes soprattutto nell’àmbito del conflitto sulle parole e sui significati, nell’àmbito dunque della lingua, ovvero, detto modernamente, del discorso. Il problema delle definizioni politiche legittime e illegittime è elaborato, nel Behemoth, in tutta la sua urgenza. Una delle cause della guerra civile è da vedersi secondo Hobbes proprio nel fatto che nessuno nel popolo sapeva quali fossero i doveri di un suddito; diremmo oggi che da una generale perdita di senso ne verrebbe una cospicua incertezza dei ruoli.
«Lastly, the people in general were so ignorant of their duty, as that no one perhaps of ten thousand knew what right any man had to command him, or what necessity was of king or commonwealth...» (11).
L’ignoranza del popolo non viene tuttavia ricondotta semplicemente alla sua stupidità, bensì all’influenza esercitata su di esso attraverso la diffusione di falsi princìpi, false definizioni per il tramite di sacerdoti presbiteriani e pseudopolitici ignoranti ma ambiziosi.
«In a manner all his subjects, where, by the preaching of presbyterian ministrers, and the sedicious whisperings of false and ignorant politicians, made his enemies; ...» (12).
Questo richiamo al condizionamento ideologico del popolo – attraverso una pubblica influenza retorica che ha luogo soprattutto dal pulpito, il medium di massa dell’epoca – che sta alla base della falsa concezione delle parole e che perciò dovette avere un effetto seditious, ovverosia sedizioso, si estende per tutta l’opera. L’insolita caparbietà colla quale Hobbes si concentrò su questo argomento concernente le cause ideologiche della guerra civile ha indubbiamente contribuito alla relativa sottovalutazione del Behemoth; questa esclusività è potuta sembrare una troppo grossa semplificazione. Ma gli avvenimenti politici del nostro secolo mostrano sufficienti esempi di politica delle definizioni. La concezione hobbesiana delle cause ideologiche e del significato e del ruolo degli intellettuali fanatici nella preparazione di una guerra civile – vale a dire nella distruzione della legittimità politica – fu, proprio in questo senso, confermata da Franz Neumann (nel suo Behemoth) negli anni Trenta: essa è, infatti, tutt’altro che patently ridicolous (13). Behemoth, dunque, è in primo luogo la descrizione di una mistificazione politica del linguaggio – ovverosia del discorso – una nuova Torre di Babele. Ora, si farà qui solo breve menzione su quale significato Hobbes ascrivesse al linguaggio, in particolare in àmbito politico. Egli afferma nel De homine:

«Tertio, quod imperare et imperata intelligere possimus, beneficium sermonis est, et quidem maximun» (14).

Quell’univocità che gli uomini costruiscono comunicativamente è il superamento della Babele Behemoth. La guerra civile, il male più grande, è la rottura, la distruzione di questa univocità comunicativa, ovvero, detto in termini moderni, il dissolversi della comunicazione autoritativa in una discrezionalità (Beliebigkeit) di discorsi in cui una gerarchia in quanto tale non è piu rintracciabile. La radicalizzazione filosofica dell’esperienza della guerra civile è lo stato di natura. Hobbes pervenne a questo stato di natura – distogliendo tutto ciò poco alla volta da quell’esperienza del Behemoth ricavata da una data realtà umano-sociale – come ad un qualcosa che, come norma e valore, non aveva in sé più alcuna ovvietà. Questa è la annihilatio mundi pratica che Hobbes riferisce anche alla teoria della natura e alla teoria della conoscenza; ciò che, come ha illustrato Zarka in maniera convincente, conduce ad un punto generale della costruzione ideale del mondo dal Politico.

Lo stato di natura è, senza alcun dubbio, una congettura ideale. Esso, tuttavia, è quella lotta di ognuno contro ogni altro – bellum omnium contra omnes – che si ricava necessariamente da un punto di vista ideale; almeno se si considera l’ovvietà del sistema funzionale delle norme e dei valori. Diritto, ordine e quindi libertà conservano propriamente il carattere di un compito, e certamente di un compito a cui gli uomini non debbono adempiere in un modo qualsiasi; un compito per il quale si dia un soggetto che, laboriosamente, se ne faccia carico: il Leviatano, lo Stato, in qualsivoglia forma esso sia costituito. Nella radicalizzazione filosofica bisogna dunque prendere le mosse dal fatto che, per quanto riguarda gli uomini, e sulla base della loro struttura riflessiva e della loro libertà, è da presupporre un conflitto originario, vale a dire una assenza di consenso (Nichtübereinstimmung), piuttosto che l’armonia originaria o la pace, che certamente in nessun modo possono essere escluse, anzi, il cui realizzarsi nel castigo del declino, non può mai essere abbandonato al caso o alla buona volontà dei singoli, come nello “stato di natura”. Lo Stato, il Leviatano, lo stato politico in quanto guerra civile superata attraverso un grande potere è la soluzione specifica di quel compito politico che pone gli uomini in essere.

L’opera di fondazione e di conservazione del Leviatano, ovverosia del Politico, è la premessa per ogni sviluppo dell’esistenza umano-collettiva, incluso lo sviluppo della scienza, della religione e della teologia. Nella misura in cui il pensiero del caso critico (di essere o non essere) viene preso in considerazione nel senso di cui all’inizio si è fatta menzione, la politica diventa philosophia prima. Quel caso critico fu per Hobbes la guerra civile, di cui cercò di concettualizzare la radicalità ideale nella figura della annihilatio mundi, sia da un punto di vista epistemologico-metodologico, sia da un punto di vista pratico. La francamente indiscussa radicalità di Hobbes non consiste soltanto nell’avere afferrato il problema della comunicazione su di un piano politicamente fondamentale, bensì, in primo luogo, nell’idea anticipatrice di una philosophia prima della cui possibilità concreta noi, ora, siamo divenuti consapevoli; dalla qual cosa deriva quella nuova dimensione di inevitabilità della filosofia politica.
«Perchè sono un filosofo?, chiede Michel Serres, e la sua risposta è: per Hiroshima» (15).
L’attualizzazione del Leviatano, di fronte ad una nuova dimensione nella annihilatio mundi, ha, nell’argomentazione fin qui svolta, due funzioni. Per un verso si deve tener presente il carattere paradigmatico del pensiero hobbesiano, per l’altro verso quella attualità deve servire a preparare una spiegazione sistematica della filosofia politica nel senso di quella menzionata radicalità, una radicalità che si potrebbe chiamare anche profondità di senso (Gründlichkeit), ovverosia esclusività, vale a dire, in un senso terra terra, univoca inevitabilità.

Filosofia del Politico come philosophia prima intesa in un senso anche protometafisico presuppone tre caratteri elementari: la dinamica della libertà, il rapporto di contingenza e necessità e la presenza dell’escluso. E chiamerei antropologici questi caratteri elementari se fossi in grado di ovviare all’argomento heideggeriano di fuoriuscire, con l’antropologia, dall’àmbito del filosofare sostanziale (16). Li definirei da un punto di vista postmoderno, se con ciò non mi gettassi nel pericolo di una dissertazione su moderno e postmoderno, tanto da rimanerne magari invischiato; o se per lo meno mi trovassi a dover dimostrare come mai proprio Hobbes sia un filosofo postmoderno: che non sarebbe forse né così difficile, né così pericoloso ma, in ogni caso, a questo punto, troppo lungo (17). Dunque definisco quei tre caratteri leggi fondamentali del pensiero politico, ovverosia elementi con cui il pensiero politico può e deve fare i conti; un “fare i conti” inteso sia nel senso di Gottfried Benn, sia nel senso di Thomas Hobbes. La parola “leggi”, naturalmente, esprime più di una proposta che si vuole non vincolante; dietro c’è anche il carattere di risultato di studi: quelle leggi sono il distillato che mi impegno fermamente a ricavare per via dimostrativa da ogni filosofia politica, affermativamente o criticamente, ex negativo.

La legge della dinamica della libertà è stata la sfida specifica del pensiero moderno, e lo è tutt’ora. Si presuppongano gli uomini come liberi e ci si dovrà mettere in testa che ciò può essere buono soltanto nella misura in cui può anche essere cattivo. Questa è l’idea fondamentale di Hobbes e l’elemento che sta alla base del suo “homo homini lupus”. Non fa specie che Thomas Hobbes non sia mai divenuto una delle figure di integrazione trainanti in àmbito moderno: si arriva a ciò riflettendo sulle conseguenze del carattere di libertà, piuttosto che accettare la finzione roussoiana che l’uomo sia buono. La libertà come carattere, divenne quantificabile come “emancipazione”: sempre maggiore libertà per un sempre maggior numero di individui. Ciò che soltanto si può dire su quella legge, sempre più libertà per la politica, è quanto di peggio ci sia con cui fare i conti. Lo stato di natura hobbesiano non è altro che la cifra di questo moderno carattere di libertà che soltanto attraverso il morso della tarantola roussoiano, come disse Nietzsche (18), fu pervertito nel moderno carattere edificante della finzione; ciò che significava maggiore libertà, significava anche soltanto un maggiore bene per sé, quindi più valore, più armonia e più progresso.

Naturalmente ciascuno di noi riconosce in questa concezione di una rischiosa dinamica della libertà la propria bestia nera. Ma prima che quanto dico secchi a qualcuno, vorrei ricordare a questo proposito che Hermann Lübbe, oramai trent’anni fa, seppe aggiungere sale all’ingenuo piacere del latte di ogni stile di pensiero pio e democratico, con questa definizione:


«Libertà, infine, non è quella possibilità di essere nel privato tanto dissoluti quanto si vuole»
(19).

L’altra bestia nera, naturalmente, è Carl Schmitt, che penetrò con tale intensità la dinamica del privato da doverci fare i conti; persino al tanto ammirato Thomas Hobbes credette di doverlo rinfacciare (20). La quintessenza che si ricava da questo primario carattere elementare, suona, come è noto:
«Perciò resta valida la constatzione stupefacente e per molti sicuramente inquietante che tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l’uomo come ‘cattivo’, che cioè lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi ‘pericoloso’ e dinamico» (21).
C’è ancora bisogno del rimando alla dinamica contemporanea e alla pericolosità di un homo homini faber e cioè della minaccia definitiva e letale dell’uomo da parte del suo simile, in cui il lupo hobbesiano sveli il suo carattere specifico, per chiarire che questo carattere rende impossibile riconoscere nella parola “libertà” un qualcosa che non sia moneta hobbesiana?

E per rendere più plausibile, forse soltanto più appetibile, questa menzione allo specifico cominciamento del moderno pensiero della libertà – programmato, dal principio fino al suo naufragio, in forma di “progetto del moderno” – si faccia riferimento solamente al fatto che Jean François Lyotard, il più politico tra i pensatori di quel nuovo inizio che si definisce postmoderno, giunge, attraverso Heidegger, Wittgenstein e Feyerabend, al riconoscimento di una pluralità dei generi del discorso in cui non c’è più alcun sistema di regole discorsive (Satz-Regel-System) che possa arrogarsi un’autorità sopraordinata.

«En l’absence d’un régime de phrases ou d’un genre de discours jouissant d’une autorité universelle» (22).

Questa frase deve essere compresa nel contesto di quella radicale coscienza di libertà per la quale, all’inizio dell’età moderna (Neuzeit) Thomas Hobbes ha trovato la cifra dello stato di natura. E proprio questo fu il carattere al quale corrispose, in Hobbes, la annihilatio mundi pratica: e cioè il fatto che tutte le verità che nel diciassettesimo secolo venivano concepite solo da un punto di vista teologico furono ridotte ad una moltitudine di opinioni settarie la cui concretezza significava guerra civile. Quei sistemi di norme fondati trascendentalmente erano divenuti mere contingenze a cui si contrapponeva la necessità di un ordine da fondare ex novo. E questa fondazione non poteva affatto rinviare alla verità, ma soltanto alla necessità.

Con questo, siamo al secondo carattere elementare col quale deve fare i conti il filosofare politico: il rapporto tra contingenza e necessità. Ed è forse significativo, nel senso del nesso argomentativo svolto, lasciare la parola anzitutto ai teorici contemporanei, e proprio a Jean François Lyotard. In Le Différende egli sostiene:
«Premieremente, sur une phrase qui arrive, il faut enchainer. (Serait-ce par un silence, qui est une phrase). On n’a pas la possibilité de ne pas enchainer. Deuxièmement, enchainer est nécessaire, comment enchainer est contingent».
«Il faut enchainer. Cela n’est pas une obligation, un Sollen, mais une nécessité, un Müssen. Enchainer est nécessaire, comment enchainer ne l’est pas»
(23).
Questa non è altro che l’espressione concreta del fatto secondo cui gli uomini stanno sotto una coazione ad agire, ma che per nessuno di loro la direzione dell’agire viene programmata, sia pure in un coagulo storico-istituzionale. L’ordine è necessario, ma nessuno sa quale aspetto esso debba avere in verità. Ne consegue che ogni ordine come tale è contingente, e lo si sa realmente da quando Senofonte determinò che presso gli etiopi gli dei dovvessero essere bruni e col naso schiacciato e presso i traci, invece, biondi e con gli occhi blu. Nondimeno Eraclito ebbe a dire, per rimanere in àmbito presocratico, che i cittadini dovevano battersi per la loro costituzione come per le mura delle loro città. Entrambe le cose sono da prendere seriamente: contingenza e necessità. La loro dignità scaturisce dall’ordine come tale, fino agli ordini contingenti. Questa necessità significa che i sistemi di regole una volta trovati – sulla cui attuazione contingente, anche di fronte a tutte le pecularità etnologiche, non può sussistere alcun dubbio – debbono essere relativamente sottratti all’intervento arbitrario dei singoli. Così nascono i miti su di un diritto primigeno, o di una legislazione che scaturisce direttamente dalle mani di dio o degli dei. La necessità è all’origine del sacro, del venerando e della religione, così come di tutti i derivati metafisici. Ovviamente, sta nell’interesse di chi è favorito dal relativo ordinamento, di negarlo e di perpetuarlo nella sua contingenza e, ovviamente, risulta da ciò ogni specie di vincolo al trono e all’altare e al potere in quanto tale e alla filosofia. Nella sobria lingua della teoria delle istituzioni quella necessità resta fuori, dal momento che le istituzioni debbono rimanere relativamente escluse dall’invadenza (Zugriff) dei singoli, e ciò accade semplicemente attraverso la complicatezza della regola di condotta che ha come scopo il loro cangiamento. Sia l’arbitrarietà del costrutto istituzionale, sia quello della deroga individuale alle istituzioni (Ausgriff) sono fattivamente delimitate dalla selezione di possibilità storicamente contingenti. Prima o poi la comprensione della necessità sarà chiarita storicamente – lo stesso per la libertà; e prima o poi sarà un nonsenso voler iniziare di nuovo da un punto zero storico. Prima o poi non rimarrà nient’altro che una presunzione di potere, quella di assegnare alle istituzioni in quanto tali la dignità della necessità; ed è una arroganza di dimensione addirittura fichtiana, che un qualche politico democratico come il cancelliere Kohl sostenga di perseguire in tutta serietà lo scopo di portare i tedeschi, nel corso del suo incarico
«su di una via dalla quale non possano mai più tornare indietro» (24).
A questa assurda pretesa da burocrati di partito coscienti del proprio potere, che non sarebbe migliore di quanto è se essi si comprendessero come democratici e progettassero di intraprendere ogni cosa nel nome della libertà, corrisponde, per quanto possibile, lo sforzo dei filosofi alla giustificazione metafisica dello status quo, per mezzo della quale i filosofi cercano di proporsi come i buenintencionados, i bendisposti, in quanto parte di un establishment, quelli che, se punzecchiati, fanno saltare fuori i capi ideologici. Ma la filosofia non giustifica nulla, nemmeno se stessa: non ne ha necessità alcuna. Se la filosofia, in quanto filosofia politica, si pone in relazione con un sistema politico in quanto tale, ciò accade non nel senso di una giustificazione in senso proprio, bensì, in maggior misura, nella parte del Cid Campeador, che manda il suo re in rovina per costringerlo a comportarsi da re (25). Ma, naturalmente, anche questo è soltanto un sogno eroico di cui, di fronte alla discesa di un certo sistema nelle sconfitte della giustificazione, si conserva pur sempre l’idea; di cui un gelido totalitarismo costringe in prospettiva tutti i linguaggi e tutti i pensieri ad una performatività che consente ad esso di far passare tutto attraverso il collo di bottiglia di una società della comunicazione in rete attraverso tecniche intelligenti, un sistema per il quale sia l’autorità dello Stato e il suo diritto, sia la dignità dell’individuo, vengono concepiti come rumori di fondo, per i quali il sistema sviluppa corrispondenti strumenti di oppressione. Un’immagine che ha origine in Lyotard il quale ha valutato nei medesimi termini e comunque occasionalmente che soltanto per un 20 per cnto al massimo, questo sistema di comunicazione informatico sia del resto, nel suo insieme, ancora comunicabile (26).
«The sciences are small power» (27) ovvero: la filosofia rigorosa è poco potere, come disse Thomas Hobbes.
Ebbene, è fuori di dubbio, la filosofia si trova a mala pena nelle vesti del Cid; essa si trova, invece, in quelle di un riccio su di un’autostrada. Di quest’immagine può consolare il fatto che il riccio, come disse il generale Kutusow, al contrario della volpe può fare soltanto una cosa, anche se l’autostrada non sembra appartenere ai generi di cose seriamente rischiose. Piuttosto sono proprio le volpi a rimanere al suolo, anche se per volpi non si intendono volpi machiavelliane.

Ora, dopo questa digressione per altro prevista, tocca alla spiegazione della terza legge, fondamentale non solo per il Filosofare politico: la legge della presenza dell’escluso.

Essa altro non è che un effetto della dinamica della libertà, la quale corrisponde all’esserci (Dasein) e cioè all’esistenza dell’uomo in quanto uomo, in cui il dover-si-comportare (Sich-Verhalten-Müssen) ovverosia l’agire, è altrettanto necessario in sé dal momento che esso, in quanto agire, è determinabile solamente nell’orizzonte di possibilità in linea di principio infinite. Ogni posizione giuridica (Rechtsetzung) è dunque, in definitiva, un atto selettivo (Selektion) che si attua sullo sfondo della libertà, che condensa arbitrio e necessità e che corrisponde alla libertà in quanto necessariamente contingente, nella misura in cui ciò fa ad essa torto. Teoreticamente, alla durezza della mediazione di questo dissidio, che come tale è ineludibile, corrisponde la realtà di quelle possibilità nell’orizzonte della storia accaduta, che, pragmaticamente, conducono a quanto Hermann Lübbe ha ripetutamente definito una supposizione a favore della ragionevolezza dell’esistente.

Un esempio negativo per questa legge sarebbe forse un razionalismo il cui carattere illuminato consisterebbe nell’avere distrutto la religione, oppure un positivismo scientifico che decreta la fine della metafisica. Realizzazione positiva di questa legge è sia la conciliazione di religione e Leviatano in Hobbes, sia una regola di coesistenza di privato e pubblicità che per noi, oggi, è oggetto di una minaccia mediocratica. La sovranità del Leviatano e la sua competenza di regolamentazione sono esclusive, tuttavia l’escluso (das Ausgeschlossene) resta presente; il cristallo hobbesiano, così come è stato illustrato da Carl Schmitt, è aperto sul lato superiore. Nel suo pensiero politico si trovano caratteri che – nel senso della legge della presenza dell’escluso – debbono valere addirittura come classici. Nella tradizione della “politica in quanto politica”, nella cui teoria anche la philosophia prima è già politica domina ovunque in effetti il seguente principio: ogni ordine è, in quanto tale, tanto necessario quanto contingente. Ogni ordine è posto (gesetzt) – se questa posizione (Setzung) viene ora concepita in quanto decisione autoritativa, ovverosia in quanto istituzionalità coagulata storicamente e assurta alla dignità della prova – ed ogni ordine posto è necessariamente concreto, ed ogni ordine concreto è necessariamente contingente. Che significa che esso chiude un orizzonte di possibilità ed esiste tuttavia alla condizione di questa chiusura e cioè del principio della presenza dell’escluso.

Una delle formulazioni paradigmatiche di Carl Schmitt è naturalmente la distinzione di amico e nemico dal Concetto di “politico”. Questa formulazione, certamente sgradevole, non significa altro che ogni ordine concreto deve determinare chi vi appartiene e chi no. D’altro canto ciò non significa altro dall’idea hegeliana del § 92 dell’Enciclopedia, secondo cui i limiti di ogni cosa non sono affatto esterni ad essa, che è quanto, riferito ai limiti interni ed esterni, ha potuto sostenere Dolf Sternberger facendo appunto menzione di questo, che anche una democrazia non può dimenticare che è, ovverosia ha da essere, uno Stato (28).

L’altro esempio schmittiano è quello dello stato normale e dello stato di eccezione; esso si situa nel problema della sovranità. Come soluzione politica oppure come ordine concreto uno stato normale può essere sostenuto solo da colui che può istituzionalmente in quanto sovrano “decidere sullo stato di eccezione”. L’escluso, senza di cui non è pensabile stato normale alcuno, è qui istituzionalmente presente attraverso la decisione sovrana. Una delle formulazioni politicamente più geniali del principio della presenza dell’escluso che io conosca.

Dunque, fin qui arriva la spiegazione dei tre princìpi della filosofia politica ai quali ci si debba formalmente attenere: quanto più chiaramente riusciamo a scorgere la annihilatio mundi del caso critico definitivo – “qui solvet seclum in favilla, teste David cum Sybilla” – tanto più scorgiamo quella minaccia dell’esserci, dunque dell’esistenza dell’uomo in quanto uomo, attraverso un totalitarismo freddo, sociale.

E sebbene io sia comunque mio malgrado cosciente delle possibilità che anche questi fundamentalia del filosofare politico possano essere posti sotto sospetto metafisico – e ciò sia pure soltanto in forma di sospetto ideologico – bisogna dire che ciò va riferito al rapporto di politica e metafisica, dal momento che questo filosofare politico esclude la metafisica nel momento in cui essa non può pretendere ad alcuna verità, nè può appellarsi alla necessità: ciò va riferito, per quanto è possibile, ad un bisogno insopprimibile, a cui corrisponde il compito della filosofia, di rendere pensabile il mondo. Conformemente al principio della presenza dell’escluso, la filosofia politica è esclusiva, ma “aperta sul lato superiore”. La metafisica, o meglio i discorsi metafisici sono una forma della libertà dell’esserci (Dasein) nella misura in cui essa esiste nell’orizzonte della contingenza di ogni possibile esserci. Per cui non vedo alcuna possibilità di definirli come un mero “gioco delle perle di vetro”, o come un parco giochi o come una terapia d’occupazione per intellettuali intenti a rifletterci su, e sono senza dubbio numerosi. Ma questo esito scettico va altrettanto poco a discapito della metafisica, quanto poco il mercato dell’arte va contro l’arte.

In merito alla radicalità e all’esclusività protometafisiche del filosofare politico sia citato, in conclusione, lo storico dell’arte scomparso in questi ultimi anni Max Imdahl, di cui gli anziani abitanti di Münster hanno di certo ricordi altrettanto buoni degli abitanti di Bochum, e tutto il mondo degli specialisti in senso stretto. Imdahl mi disse una volta, trent’anni fa, in una discussione:
«Un pittore è un uomo per il quale il mondo è esclusivamente un mondo pitturabile».
Quindi, un filosofo politico sarebbe qualcuno per il quale tutta l’esistenza è fondata politicamente.

E per completare ora, davvero in conclusione, il mio personale fondo di citazioni, sia ancora una volta citato uno Schmidt, ma non Carl, bensì Arno, e proprio con questa frase da intendersi in senso metafisico-critico in quanto teologico-critico, se non addirittura politico:

«Meglio un cielo senza dei che senza nuvole» (29).

Bernard Willms

(Traduzione dal tedesco di Roberto Farneti)


NOTE


– Titolo originale: B. WILLMS, Politik als erste Philosophie oder: Was heißt radikales politisches Philosophieren?, in G. Volker (Hrsg.), Der Begriff der Politik. Bedingungen und Gründe politischen Handelns, Stuttgart, J.B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1990, pp. 252-267. Traduzione autorizzata di Roberto Farneti. La prima parte di questo testo rinvia ad una relazione tenuta il 30 maggio 1988, contestualmente ad una conferenza su Thomas Hobbes, presso la Sorbona di Parigi.

(1) In merito a questa discussione, cfr. B. WILLMS, Der Weg des Leviathan: die Hobbes-Forschung von 1968-78, Berlin, 1979, (di seguito Weg), pp. 70 segg. Torna al testo.

(2) M. MALHERBE, Thomas Hobbes, Paris, 1984, p. 218. Torna al testo.

(3) Più in dettaglio, nel mio contributo Der Leviathan und die delischen Taucher. Zur Entwicklung der Hobbes-Forschung seit 1979, in Der Staat, 27, 1988, pp. 587-588. Torna al testo.

(4) L. STRAUSS, The Political Philosophy of Hobbes. Its Basis and its Genesis, Oxford, 1936, tr. it. nel vol., Id., Che cos'è la filosofia politica, Urbino, 1977, pp. 117-350. Sulla discussione del “problema-Strauss”, cfr. Weg, (supra, nota 2), pp. 72 segg. Torna al testo.

(5) K. MARX, Il capitale, Libro primo, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, Utet, 1974, p. 87. Torna al testo.

(6) P. VALERY, Cahiers, 1926, XXVI, XI, pp. 528-529. Torna al testo.

(7) Il luogo meglio noto è in T. HOBBES, Leviatano, tr. it. di Gianni Micheli, Firenze, La Nuova Italia, 1987, cap. 46. Torna al testo.

(8) ARISTOTELE, Metafisica, 1026 a. Torna al testo.

(9) Cfr. D. JONHSTON, The Rethoric of Leviathan, Princeton, 1986, p. 189. E. J. EISENNACH, Two Worlds of Liberalism, Chicago and London, 1981, pp. 7, 18, 33, 67. Y.C. ZARKA, La Décision Métaphysique de Hobbes, Paris, 1987, pp. 183, 250 et passim. Torna al testo.

(10) C. SCHMITTS, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes, Hamburg, 1938, (nuova edizione con una importante postfazione di G. Maschke: Köln, 1982), tr. it. in Id., Scritti su Thomas Hobbes, a cura di C. Galli, Milano, Giuffrè, 1986, pp. 61-143; H. SCHELSKY, Thomas Hobbes, Berlin, 1981, (ma la stesura risale al 1940); R. McGILLIVRAY, Thomas Hobbes' History of the English Civil War. A Study of Behemoth, in Journal of the History of Ideas, 31, 1970; R. ASHCRAFT, Ideology and Class in Hobbes' Political Theory, in Political Theory, 1978; P. CARRIVE, Béhémoth et Leviathan, in AA.VV., Hobbes Philosophie Politique, Caen, 1983; M. HARTMANN, Hobbes Concept of Political Revolution, in Journal of the History of Ideas, 47, 1986; R.P. KRAYNAK, Hobbes' Behemoth and the Argument for Absolutism, in American Political Science Review, 76, 1982; N. FLINKER, Dialogue Structure in Hobbes' Behemoth, (manoscritto, 1988). Torna al testo.

(11) Ibidem, p. 198. Torna al testo.

(12) Ibidem, p. 198. Torna al testo.

(13) M.M. GOLDSMITH, Hobbe’s Science of Politics, New York and London, 1966, p. 239. Torna al testo.

(14) T. HOBBES, De homine, X, 3. Torna al testo.

(15) P. ENGELMANN, Philosophien. Gespräche mit M. Foucault, ...und Michel Serres, Wien, 1985, p. 156. Torna al testo.

(16) M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1987, § 10. Torna al testo.

(17) B. WILLMS, Postmoderne und Politik, in Der Staat, 3, 1989, tr. it. di C. Forte in “Behemoth”, 8, 1991, pp. 9-18 e “Behemoth”, 9, 1991, pp. 11-21. Torna al testo.

(18) F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, Milano, Adelphi, 1990, p. 3. Torna al testo.

(19) Hermann LÜBBE, detto a voce, all'incirca nel 1959. Torna al testo.

(20) Cfr. C. SCHMITT, Scritti su Thomas Hobbes, cit. Torna al testo.

(21) C. SCHMITT, Il concetto di “politico”: Testo del 1932 con una premessa e tre corollari, in Id., Le categorie del “politico”, Bologna, il Mulino, 1972, p. 146. Torna al testo.

(22) J. F. LYOTARD, Le Différend, Paris, 1983, p. 10. Torna al testo.

(23) Ibidem, p. 103. Torna al testo.

(24) In una intervista rilasciata al quotidiano Le Monde, nel gennaio 1988. Torna al testo.

(25) Cfr, la traduzione tedesca di Herder, Id. Werke, Suphan, vol. 28, pp. 478-480. La scena è stata rappresentata in modo sorprendentemente efficace nel Film El Cid di Howard Hawks, con Charlton Heston e Sophia Loren. Torna al testo.

(26) J. F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Milano, 1981. Torna al testo.

(27) T. HOBBES, Leviatano, cit., cap. X. Torna al testo.

(28) Nell'articolo sul “patriottismo costituzionale”, nella “Frankfurter Allgemeine Zeitung” del 31 agosto 1982. Torna al testo.

(29) A. SCHMIDT, Gadir oder Erkenne dich selbst, Zürich, 1987, tr. it. di E. Picco, Gadir ovvero conosci te stesso, in Id., Alessandro o della verità, Torino, 1981, p. 11. Torna al testo.

De profundis per “Disonest Reporting Italia”


Provate ad immaginare di ricevere una sequela di lettere e molestie di ogni genere, anche pesanti e letali, per aver fatto in buona coscienza cose che ritenete di assoluta innocenza, come ad esempio l’uso per fini didattici di una carta geografica della Palestina disegnata nel 1933, quando ancora non esisteva lo stato di Israele, che anche solo per questo non poteva essere disegnato nella carta geografica. Incredibile ma vero! Un insegnante di religione cattolica si è trovato messo alla berlina per una cosa del genere. E basta un nonnulla per suscitare nella assoluta impunità innumerevoli attacchi del genere, riprese dalla catena degli eserciti virtuali di Israele, costituiti da blog, militanti, lapidatori, sionisti sfegatati puri e duri, e così via. Adesso sembra che una delle molteplici iniziative messe in atto dal governo di Israele per influenzare anche la rete non goda più di finanziamenti. E quindi i “Disonest Reporting”, la cui anima è il denaro, devono chiudere bottega:

[Il testo in tondo è l’«ultimo» comunicato di HRI.
Il testo in corsivo fra quadre è il nostro commento]

Reporting Italia finisce qui.
[Forse soppiantata da più efficaci mezzi di guerra informatica, forse da “In difesa di Israele”. Ma la nostra è una mera congettura. Di certo alla Lobby i soldi non mancano. Non crediamo che siano state ristrettezze finanziarie ad aver posto termine a “Disonest Reporting Italia”]
I finanziamenti sono improvvisamente e inspiegabilmente cessati e il server, senza finanziamenti, non invia comunicati.
[Penso a innumerevoli servizi analoghi, di cui non faccio il nome, ma di cui non credo che lavorino gratis, come invece succede per la quasi totalità delle forme di solidarietà verso i palestinesi. Una guerra del denaro contro la povertà!]
Un intero mese di frenetici scambi con Gerusalemme e con New York non ha portato alcun risultato: Honest Reporting internazionale sarebbe ben felice di continuare a garantirci l’uso del nome,
[E che nome!]
ma non il finanziamento.
[A me viene da ridere]
Questo messaggio vi arriva con mezzi di fortuna, reinviandolo una dozzina di volte per raggiungervi tutti, ora che finalmente il server ha acconsentito a fornire almeno la lista dei vostri indirizzi.
[Ahi, ahi! Non si potrebbe secondo la normativa che ogni volta sottoscriviamo negli appositi moduli. Ma costoro, lo sappiamo, sono superiori alle leggi, che invece valgono per i goym.]
E dunque, con infinita tristezza e amarezza, ci salutiamo qui: questa avventura, iniziata per volontà del compianto e rimpianto Shuny Noury
[Mai coperto, come si dice a Roma. E Google non restituisce quasi nulla a questo richiesta]
e proseguita, come gli era stato promesso sul letto di morte, per altri due anni e mezzo dopo la sua scomparsa, oggi si chiude. Un sentito grazie a tutti coloro che hanno fedelmente seguito honest reporting Italia, un grazie speciale a coloro che hanno attivamente collaborato con le loro segnalazioni e le loro lettere ai giornali.
[Delazione, diffamazione, denigrazione: questa la consueta attività di questo genere di servizi]
Ancora un’ultima segnalazione, prima di separarci definitivamente:

http://www.malainformazione.it/

È un nuovo sito, che ci aiuta a smascherare le bufale nell'informazione su Israele.
[A proposito di “bufale” arriva questo segnale da Ilan Pappe: è ora di finirla con il canone storiografico del “conflitto” israelo-palestinese. Non vi è mai stato nessun “conflitto”, ma solo fin dall’inizio un’operazione di “pulizia etnica”, fin dal 1882 all’epoca della prima immigrazione di 25.000 ebrei. I “padri” sionisti hanno avuto sempre in mente la “pulizia etnica” dei territori. L’ultima bufala è la politica dei “due stati”. Una bufala che serve per coprire il completamento del processo, lungo processo non già “di pace”, ma di “pulizia etnica”, al cui compimento è di certo necessaria la manipolazione della cosiddetta opinione pubblica europea. Servizi come “Disonest reporting Italia”, non i soli, concorrono a questo scopo]
Sulla destra troverete l'invito ad iscrivervi alla newsletter: a voi iscrivervi non costa niente, al gestore del sito invece un sufficiente numero di iscrizioni garantirà la prosecuzione del finanziamento
[Interessante! Anche io mi ci sono iscritto con un nome fittizio allo scopo di monitorare la deprecabile attività. Non immaginavo certo di concorrere al finanziamento dell’iniziativa iscrivendomi. Evidentemente, costoro fanno vedere all’erogatore di danari quanta è lunga la lista e su questa base ottengono danari. Non per nulla hanno pratica di finanza. Il denaro è il loro mestiere.]
che gli permetterà di proseguire un lavoro da cui tutti noi
[Tutti voi! Noi siamo poveri goym vostre “vittime”. Qualche ministro ha messo in giro la voce che dovremo tutti sottoporci a circoncisione, essendo “noi” «tutti ebrei».]
potremo trarre indubbia utilità. Quindi vi invito ad iscrivervi e a segnalare a vostra volta il sito alle vostre mailing list e nei vostri blog.
[Si noti qui la conferma dell’esistenza di una “rete sionista”, organizzata dal governo israeliano]
E ora, dunque, addio. O forse – chi può saperlo? – arrivederci. Magari l’anno prossimo a Gerusalemme …
[È un modo rituale con cui gli ebrei si salutano. In concreto, ha significato il piano Dalet, il programma di genocidio e pulizia etnica della Palestina. A tutti i costi vogliono coinvolgerci]

[Hanno risposto all’ultimo appello di HRI i seguenti siti: 1) «Liberali per Israele»; 2)...]
Si badi bene ciò a noi interessa sottolineare, perché è una sorta di confessione. I soldi per l’iniziativa “Disonest reporting Italia” arrivano o da New York o da Gerusalemme. Nel manifesto degli intellettuali pro Gaza si è detto che ormai la propaganda non è più strumento della guerra, ma esso stesso parte della guerra in atto. Ho personalmente sperimentato l’assoluta inutilità di un confronto critico e di un contraddittorio con questa gente: bisogno solo conoscerli quanto basta per evitarli e non averci a che fare mai più.

mercoledì 25 febbraio 2009

Freschi di stampa: 1. Israel Adam Shamir: «Per il sangue che avete sparso». In memoria di Mauro Manno

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Ho appena ricevuto in contrassegno il volume di Israel Adam Shamir, Per il sangue che avete sparso, tradotto da Mauro Manno (ma lui si firmava al minuscolo), per le Edzioni all’insegna del Veltro, con una prefazione di Serge Thion. La mia conoscenza personale con Mauro risale a pochi anni addietro, quando non gli era ancora noto il male che lo ha condotto rapidamente alla morte. Nelle nostre conversazioni telefonico, sempre più rare – non sentendomi io di affaticarlo troppo al telefono – mi parlava dei suoi interessi e di ciò che andava scrivendo. In una di queste conversazioni mi aveva accennato al volume di Shamir e ne avevamo già concordato una recensione su “Civium Libertas”, per ciò che la cosa può significare e valere non trattandosi di una rivista cartacea. Di un ultimissimo lavoro mi aveva parlato qualche mese prima della sua morte che è giunta a me inaspettata, anche se il suo male era piuttosto serio. Ero preoccupato perché non riusciva a perfezionarlo, se ho ben inteso da un punto di vista puramente formale. Gli avevo detto di non preoccuparsi, perché lo avrei supplito in questioni puramente redazionali. I libri delle piccole case editrici non posso purtroppo trovarli alla Libreria Feltrinelli che ho sotto casa. Devo ordinarli per contrassegno. Mi è giunto così l’altro ieri un altro volumetto di grande pregio scientifico ed editoriale: Giudaismo svelato, Edizioni Ar, riguardante l’opera fondamentale di Johan Andreas Eisenmenger, un’opera apparsa per la prima volta a Francoforte nell’anno 1700 – ultimo anno del secolo XVII o se si preferisce primo del XVIII – e subito boicottata e fatta sequestrare dalla comunità ebraica del tempo, potentissima allora come oggi. Di quest’opera di 4° di oltre 2000 pagine divesi in due tomi non è mai stata rifatta da allora un’edizione integrale e l’unico esemplare che in Italia ho rintracciato si trova in Torino.

Di quest’ultima opera, a cura del Gruppo di Ar, di poco più di un centinaio di pagine con brani antologici tratti dall’imponente opera di Eisenmenger, per la quale mi auguro un gruppo di lavoro che rende disponibile su internet tutta l’opera tedesca del 1700: non vi dovrebbe essere nessun copyright. Vi sarebbe bisogno solamente di una squadra di amanuensi capaci di leggere il tedesco e di ribatterlo su una tastiera. Parlo di quest’opera di Eisenmenger e di Mauro Manno insieme perché l’ambito di interesse non è separato. Riconoscevo a Mauro una grande competenza sul tema del sionismo e dell’ebraismo, a cui mi interesso solo da qualche anno. Era lui che mi informava su cose che non sapevo e leggevo sempre con molto interesse gli articoli che mi mandava. Ricordo il suo grande apprezzamento per l’opera di Israel Shamir, che fu lui a richiamare alla mia attenzione.

Internet consente una forma di scrittura diversa da quella sulla stampa cartacea. Mi sono ormai perfettamente abituato ad essa. Questa mia “recensione” sarà atipica rispetto al cartaceo. Ho parecchie decine di libri già in lettura sequenziale. Uso passare da una lettura all’altra anche dopo diversi mesi, riprendendo dalla pagina dove ero rimasto, a volte con qualche annotazione. Inizio oggi stesso la lettura del libro di Israel Adam Shamir, tradotto da Mauro Manno. Ne farò osservazioni via via che procedo nella lettura. Sul cartaceo non sarebbe stato possibile procedere in questo modo. Avrei dovuto consegnare all’editore la recensione finita, dopo aver letto il libro. Invece qui incomincio a parlarne prima ancora di accingermi alla lettura. L’editore ha posto sulla copertina l’immagine terribile di un bambino palestinese carbonizzato durante la strage di Gaza, alla quale abbiamo assistito tra la fine dell’anno appena passato e l’inizio di questo 2009. Anche qui è scattato lo stesso meccanismo della menzogna con cui già nel 1700 si avviluppò l’opera di Eisenmenger, Giudaismo svelato, bloccandola e neutralizzandola per almeno mezzo secolo. Aggiungo che leggerò lentamente le cento pagine a stampa di Shamir, perché in questo modo mi immagino di continuare ancora le mie conversazioni telefoniche con Mauro Manno, chiedendo a lui chiarimenti su Shamir.

* * *

Nella sua prefazione Serge Thion definisce Israele uno «stato privo di risorse, di spazio e di denaro» che può assicurare la sua sopravvivenza solo grazie ad una «tecnica di ricatto internazionale» (p. 6). Come ho già detto, sto leggendo i due libri in contemporanea. E leggo in Eisenmenger queste frasi scritte tre secoli prima: «essi [gli ebrei] immaginano che il mondo sia stato creato soltanto per causa loro» (Giudaismo, cit., 85); una delle fonti rabbiniche di Eisenger recita: «gli israeliti sono lo scopo del mondo inferiore, ed essi sono paragonati al grano, i popoli invece alla pula» (ivi); «il più piccolo servizio che gli (a Dio) viene reso dal popolo di Israele, gli è più accetto di un grande servizio [reso] da tutti i popoli» (ivi, 88). E così via. L’idea di un “noi” – gli unici che contano – e “loro” (che poi saremmo noi) è ricorrente ad un comune lettore che abbia almeno una volta letto quello che per “noi” è il Vecchio Testamento. La letteratura talmudica e rabbinica, setacciata ed esplorata da Eisenmenger alla fine del XVII secolo, è alquanto letterale nel senso ed assai poco metaforica, come ci viene fatto credere in numerosi passi biblici che oggi difficilmente possono superare l’esame dei diritti umani da riconoscere a tutti i popoli della terra e soprattutto a quei palestinesi che fin troppo chiaramente gli israeliani odierni pensano di poter trattare come i cananei biblici. Per fare ciò hanno certamente bisogno della copertura politica e mediatica del cosiddetto Occidente, dove la Diaspora offre il necessario sostegno.

(segue)

*
Alfabetico

Amiry - Arrigoni - Blanrue - Burg - Capovilla - Caridi - Carminati - Chiesa - Finkelstein - Fisk - Grimaldi - Khalidi - La Guardia - Halper - C. Mattogno: Le camere a gas di Auschwitz; Hitler e il nemico di razza - G. P. Mattogno - Mervin - Nilus - Pappe - Rabkin - Romano: Lettera; I falsi protocolli - Said: Il mio diritto al ritorno; La questione palestinese - Sand - Sella - Shamir - Solgenitsin: Ebrei e Russi prima della rivoluzione; durante il periodo sovietico - Tradardi - Valli - Waizman - Yahia

venerdì 20 febbraio 2009

La guerra israelo-occidentale contro Gaza. Atti del Seminario romano del 24 gennaio 2009

Post
in costruzione
Versione 1.5
Status: 27.2.09

Pubblico di seguito così come a me giunti gli Atti del Seminario che si è tenuto il mese scorso in Roma sotto l’impressione di un genocidio al quale siamo stati costretti ad assistere pressoché impotenti nella colpevole correità dei nostri politici e dei nostri media tutti intenti a commemorare supposte nefandezze, mentre ignorano e coprono cinicamente quelle del presente alle quali offrono il loro attivo sostegno. Goebbels non avrebbe saputo fare di meglio in una campagna mediatica dove la propaganda non è più strumento di guerra ma essa stessa forma della guerra. Lo sforzo e le risorse che Israele dedica al controllo dei media occidentali ed a un lobbismo militante cui è delegata la Diaspora non è secondario rispetto alle operazioni militari sul campo, che non da oggi, ma da almeno un centinaio di anni insanguinano i deserti mediorientali. L’impudenza è giunta fino a chiamare Risorgimento una vera e propria impresa coloniale di conquista e di pulizia etnica. Questa guerra la si combatte ed ognuno di noi la può e la deve combattere sul piano dell’acquisizione di conoscenze, sulla demistificazione e decostruzione della manipolazione goebbelsiana, sulla diffusione porta a porta della consapevolezza critica. Poiché sono tanti i nomi, le date ed i termini da ricordare abbiamo pensato di fare cosa utile a noi stessi e ad altri redigendo un Dizionario critico del sionismo, le cui schede vengono da me redatte e rielaborate attingendo da letture in corso. Gli Atti qui pubblicati superano il centinaio di pagine. La loro sistemazione grafica secondo i tipi del blog richiederanno un certo tempo. Il vantaggio rispetto alla carta stampata consiste nella possibilità sempre aperta di modifiche, inserzioni e quanto altro. Rendere disponibili gli Atti di un Seminario a meno di un mese dal suo svolgimento non è cosa da poco. È possibile che nel corso dell’editing dei testi io mi senta sollecitato a svolgere mie personali riflessioni, del tutto separate dagli Atti. Le mie osservazioni saranno aggiunto in un post del tutto autonomo, che avevo già incominciato a redigere in una mia cronaca del seminario la sera stessa della sua conclusione. L’occasione della pubblicazione degli Atti mi consente ora una riflessione per la quale non avevo avuto prima il tempo. Per una migliore navigazione del Lettore si abbonderà in link di ritorno all’Indice generale, contrassegnato da una freccia (↑) rivolta verso l’alto. Utilizzerò in questo posto anche immagini che avevo scattato durante il Seminario con la mia macchina fotografica tascabile e non professionale. Altre immagini illustrative saranno da me reperite nella rete.

Antonio Caracciolo
Roma, 20 febbraio 2009






La guerra israelo-occidentale contro Gaza

Atti del seminario
Roma, 24 gennaio 2009
Centro Congressi Cavour


in memoria di Hikmat Nabulsi
in memoria di tutte le vittime delle… “vittime”
in memoria di Stefano Chiarini


«Verrà il tempo in cui i responsabili dei crimini contro l’umanità che hanno accompagnato il conflitto israelo palestinese e altri conflitti in questo passaggio d’epoca, saranno chiamati a rispondere davanti ai tribunali degli uomini o della storia, accompagnati dai loro complici e da quanti in Occidente hanno scelto il silenzio, la viltà e l’opportunismo».

testo degli atti a cura di ISM-Italia,
qui edito a seguito di preventiva autorizzazione
tramite e-mail del 19.2.09,
Torino, 1 febbraio 2009



Sessione di apertura

Perché questo seminario
di Alfredo Tradardi ISM Italia


Ancora un Tradimento dei Chierici! (l’ultimo?)
di Angelo D’Orsi, Università di Torino

Genocidio a Gaza e Pulizia Etnica in Cisgiordania
di Ilan Pappè, Exeter University

La Politica Italiana e Europea in Medio Oriente
di Giulietto Chiesa, Europarlamento

Il Modello Israeliano di Occupazione e Repressione
di Giorgio S. Frankel, Giornalista

Panel 2: Responsabilità e complicità dell’Europa

La catastrofe dell’informazione occidentale
di Viadimiro Giacchè, Analista politico

Medio Oriente, Escalation Militare, Rischi di Guerra Nucleare
di Angelo Baracca, Università di Firenze

Palestina e Israele. Le impossibili simmetrie
di Sergio Cararo, giornalista (Forum Palestina)

La Risposta Italiana all’Appello Palestinese al Boicottaggio (BDS)
di Diana Carminati, Università di Torino

Oltre Totem e Tabù, note a margine del saggio di Ilan Pappé
di Flavia Donati, Psichiatra

L’organizzazione del seminario

Rassegna stampa

Ilmanifesto 20090123
CONVEGNO Tutto esaurito per Pappé a Roma
Ilmanifesto 20090127
Intervista di Michelangelo Cocco a Ilan Pappé

Allegati

URGENTE su Mobilitazione Palestina,
di Angelo Baracca, 05 01 2009

Ilmanifesto 20090122
POLEMICA Scienza e guerra, non c’è neutralità - Boicottare le università di Israele?,
di Angelo Baracca

GENOCIDIO A GAZA

What May Come After the Evacuation of Jewish Settlers from the Gaza Strip
- A Warning from Israel
by Uri Davis, Ilan Pappe and Tamar Yaron, July 15, 2005

Genocidio a Gaza
di Ilan Pappe, The Electronic Intifada, 2 Settembre 2006

Palestina 2007: Genocidio a Gaza, pulizia etnica in Cisgiordania,
di Ilan Pappe, The Electronic Intifada, 11 gennaio 2007

Tempo scaduto
di Ilan Pappé, seconda conferenza annuale a Bil’in, 18 aprile 2007

La furia sacrificale di Israele e le sue vittime a Gaza
di Ilan Pappe The Electronic Intifada, 2 gennaio 2009

Gideon Levy risponde a Abraham Yehoshua

Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Appelli

Appello del mondo intellettuale italiano contro l’aggressione israeliana a Gaza
Appello per deferire governanti e alti comandi militari di Israele alla Corte Penale Internazionale
dell’Aja

Schede

ISM Italia
Modulo di iscrizione a ISM Italia
Forumpalestina
Sguardo sul Medio Oriente

Sei libri da regalarsi e/o da regalare

Indice.



PARTE PRIMA


Si è tenuto a Roma il 24 gennaio il seminario “La guerra israelo occidentale contro Gaza”. Il rettore magnifico de “La Sapienza” ha negato l’uso di una aula universitaria e ci ha costretto a ricorrere ad una sala del Centro Congressi Cavour di soli 230 posti assai costosa (1.500 euro + IVA). Abbiamo presentato il saggio di Ilan Pappe a Bussoleno in Val di Susa e il sindaco ha messo a disposizione la sala del consiglio comunale. Siamo al punto che bisogna rivendicare l’uso pubblico dei beni pubblici, dei beni collettivi!

Abbiamo avuto richieste di partecipazione al seminario quasi doppie rispetto alla capienza della sala, abbiamo cercato di risolvere all’ultimo minuto il problema tentando di connetterci, via computer, a una sala di un albergo vicino, ma non ci siamo riusciti. Ci scusiamo di nuovo con quanti/e abbiamo dovuto pregare di non venire. Non solo faremo pervenire loro gli atti del seminario ma ci impegnamo anche a organizzare ulteriori momenti di riflessione.

Non ha potuto partecipare al seminario Karma Nabulsi, palestinese, docente di relazioni internazionali all’università di Oxford. Ii 23 gennaio, il padre, che aveva 83 anni e che viveva a Ginevra, è stato colpito da un attacco di cuore. Aveva seguito gli avvenimenti di Gaza in tv 24 ore al giorno malgrado l’invito dei familiari a sottrarsi a questa angoscia. “Gaza broke his hearth”, ci ha scritto Karma. Un tassello delle indicibili sofferenze del popolo palestinese a partire dalla nascita del sionismo.

Centrali nel seminario sono stati l’intervento di Ilan Pappé e le sue risposte alle numerose domande. Ma di notevole livello e importanza sono stati gli interventi di tutti/e gli/le altri/e relatori/trici. Le responsabilità degli intellettuali e dei media sono state messe in evidenza negli interventi di Angelo d’Orsi e di Vladimiro Giacchè. Le prospettive a breve e medio termine su scala geopolitica negli interventi di Giulietto Chiesa e Angelo Baracca. Le caratteristiche specifiche del Modello Israeliano di Oppressione, Repressione e Supremazia Sionista nell’intervento di Giorgio S. Frankel. Sergio Cararo ha messo in evidenza il vicolo cieco in cui governi, partiti, sindacati e parte del movimento di solidarietà si sono messi con “l’equidistanza”, che ha fatto perdere di vista ogni differenza tra oppressi e oppressori, tra assassini e assassinati, tra ladri di futuro e derubati. Un aspetto particolare di questo processo è stato messo in evidenza da Diana Carminati, con una analisi puntuale delle non risposte all’appello palestinese al boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro lo stato di Israele del 9 luglio 2005. Flavia Donati, psichiatra, ha presentato una lettura del saggio di Ilan Pappé, “La pulizia etnica della Palestina”, di singolare interesse.

Ma rinviamo tutti/e alla lettura dell’intervento di Ilan Pappé e del suo saggio per comprendere come essere antisionisti è un prerequisito necessario per essere dalla parte della lotta di liberazione nazionale palestinese. “Equidistanza” o “equivicinanza” significano solo essere dalla parte di uno stato, quello di Israele, coloniale, razzista e fascista e dei suoi complici arabi, europei e occidentali.

Biancamaria Scarcia Amoretti, ordinario di Islamistica presso la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università La Sapienza di Roma, ha coordinato il seminario. Specialista di eresie islamiche e del cosiddetto Islam politico, è autrice di molti volumi. Tra gli altri Sciiti nel mondo, Jouvence 1994 e Il mondo musulmano. Quindici secoli di storia, Carocci 1998, Un altro Medioevo. Il quotidiano nell’Islam dal VII al XIII secolo, Laterza, 2001.

In allegato:
Gideon Levy risponde a Abraham Yehoshua
Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

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Programma del seminario

ISM Italia - Forumpalestina - Sguardo sul Medioriente

Seminario “La guerra israelo-occidentale contro Gaza”

Roma 24 gennaio 2009
Centro Congressi Cavour
Via Cavour 50/A Roma (vicino alla stazione Termini)

9.30 10.00
Welcome e registrazione
Sessione di apertura
10.00 10.15
Perché questo seminario
Alfredo Tradardi ISM Italia
Panel 1: Un nuovo secolo di barbarie
Coordina Biancamaria Scarcia, Università di Roma
10.15 10.40
Genocidio a Gaza e Pulizia Etnica in Cisgiordania
Ilan Pappè, Exeter University
10.40 11.00
La Politica Italiana e Europea in Medio Oriente
Giulietto Chiesa, Europarlamento
11.00 11.30
Dibattito
11.30 11.55
Le Vere Ragioni della Crisi Politica Palestinese
Karma Nabulsi, Oxford University
11.55 12.15
Il Modello Israeliano di Occupazione e Repressione
Giorgio S. Frankel, Giornalista
12.15 13.30
Dibattito
13.30 14.30
Lunch
14.30 14.50
Panel 2: Responsabilità e complicità dell’Europa
Coordina Biancamaria Scarcia, Università di Roma
La Catastrofe dei Media Occidentali
Vladimiro Giacchè, Analista politico
14.50 15.10
Medio Oriente, Escalation Militare, Rischi di Guerra Nucleare
Angelo Baracca, Università di Firenze
15.10 16.00
Dibattito
16.00 16.20
Le Simmetrie Asimmetriche
Sergio Cararo, Giornalista
16.20 16.40
La Risposta Italiana all’Appello Palestinese al Boicottaggio (BDS)
Diana Carminati, Università di Torino
16.40 17.45
Dibattito
17.45 18.00
Le Nostre Responsabilità e i Nostri Impegni
Alfredo Tradardi, ISM Italia
Nel corso del seminario sono previsti i seguenti interventi:
Oltre Totem e Tabù, note a margine del saggio di Ilan Pappé
Flavia Donati, Psichiatra
Ancora un Tradimento dei Chierici! (l’ultimo?)
Angelo D’Orsi, Università di Torino

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Sessione di apertura

Presentazione del seminario

Alfredo Tradardi1 ISM Italia

Ci scusiamo di alcune difficoltà organizzative, ma si è verificato quello che in inglese si chiama overbooking, che non avevamo previsto. Avevamo chiesto una sala grande dell’Università La Sapienza, ma c’è stato un diniego da parte del rettore magnifico per motivi che non sto qui a dire. Abbiamo preso questa sala di 230 posti e le iscrizioni complessivamente hanno superato il numero di 400. Abbiamo tentato ieri pomeriggio di effettuare un collegamento con una sala di un albergo vicino, ma, ahimè, pur arrivando il sottoscritto da una esperienza di 31 anni all’Olivetti, assistito da 4 tecnici, non ci siamo riusciti e quindi mi scuso con tutti coloro ai quali abbiamo dovuto mandare una email dicendo che non era possibile questa mattina entrare in sala.

Come è nato questo seminario?

All’inizio questo seminario è nato dalla pubblicazione del saggio di Ilan Pappé “La pulizia etnica della Palestina” e non vi sto a raccontare come siamo arrivati a questa pubblicazione. E’ stata molto travagliata, però alla fine, prima dell’inizio della Fiera del Libro di Torino, come noi auspicavamo, questo libro è uscito, come strumento della cultura critica, come strumento di contestazione della cultura organica al potere che era presente alla Fiera del Libro. Dopo la Fiera abbiamo, come ISM Italia cioè come gruppo italiano di supporto dell’International Solidarity Movement (ISM) palestinese, iniziato a fare presentazioni del libro di Ilan Pappé in molte città italiane. Ne abbiamo fatte circa 12 e contiamo di continuare a farle. L’obiettivo, all’inizio, di questo seminario era quello di una riflessione collettiva dopo queste presentazioni e dopo che un certo numero di persone avevano letto il saggio, in modo da approfondirne le implicazioni politiche. Il saggio di Ilan Pappé non è solo un saggio storico scientifico, è innanzitutto una indicazione implicita ed esplicita che qualche cosa va cambiato nel nostro approccio al problema Palestina/Israele. Questo incontro voleva essere un primo momento di riflessione non certo quello conclusivo, sulle implicazioni politiche, perché se Ilan Pappé dice che finché questo peccato originale dello Stato di Israele, e cioè la pulizia etnica della Palestina, non viene riconosciuto da Israele e dal mondo occidentale non c’è nessuna possibilità di una pace, questo comporta per tutti noi un approccio molto diverso rispetto a quello tradizionale. La storia della soluzione due popoli due stati la potete trovare in un saggio collettaneo curato da Jamil Hilal, se non li abbiamo venduti tutti, “Palestina quale futuro? La fine della soluzione dei due stati” che contiene contributi di Ilan Pappé e altri. Dopo quanto è avvenuto nella Striscia di Gaza, e già nel 2006 Ilan Pappé scrisse un articolo intitolato “Genocidio a Gaza”, è chiaro che il significato di questo seminario è ancora più emblematico e più importante.

Nella cartellina che vi è stata consegnata all’ingresso con una serie di documenti, trovate il perché, le ragioni di questo seminario, e non mi sto a dilungare su questo, trovate il curriculum di tutti i relatori. Trovate poi una lettera che Abraham Yehoshua, uno del trio Oz–Grossmann–Yehoshua che si presta alla più bieca propaganda in sostegno del governo israeliano, ha scritto a Gideon Levy e trovate anche la risposta di Gideon Levy e credo che questa lettera è molto importante perchè è ora che in Italia la celebrità di questi tre scrittori sia messa decisamente e definitivamente in discussione, perché sono tre razzisti immorali. Poi c’è una lettera che è stata inviata al presidente Giorgio Napolitano che, come sapete, è assai infelice sulla questione medio orientale. Non sto a entrare nei dettagli. Trovate un a vignetta che è stata mandata da Yitzhak Laor. C’è poi una descrizione di ISM Italia e per chi fra i presenti volesse aderire a ISM Italia c’è una scheda apposita.

Ci sono poi le schede di due cose importanti. La prima è di Giulietto Chiesa, sulla televisione Pandora con le caratteristiche di questa importante iniziativa tesa ad avere uno strumento mediatico capace di trasmettere qualche verità.

La seconda di una associazione, che ci ha aiutato in modo determinante, “Sguardo sul Medio Oriente”, un gruppo di giovani studentesse italiane e arabe. Poi c’è una scheda con sei libri che vi potete regalare o regalare e sono sei libri che voi trovate in fondo alla sala.

Oggi mancherà per un problema grave di natura familiare Karma Nabulsi che noi abbiamo conosciuto come autrice dell’ultimo dei saggi del libro “Palestina quale futuro? La fine della soluzione dei due stati”, un saggio di estrema importanza. Karma Nabulsi insegna Relazioni internazionali all’Università di Oxford e si è occupata in particolare del problema dei profughi. La sua tesi è che prima ancora di scegliere fra le diverse, possibili soluzioni (due popoli due stati, uno stato unico, laico edemocratico ecc.) bisogna restituire all’OLP quella funzione democratica che ha avuto nel passato e che non ha più. L’assenza di Karma Nabulsi è per certi versi emblematica. Indica l’assenza della Palestina nel discorso politico italiano, l’assenza nel discorso politico italiano del problema palestinese da molti anni. Con la manifestazione del 17 gennaio e con tutte le altre manifestazioni che ci sono state in Italia durante l’ultimo mese, con questo seminario a cui cercheremo di dare un seguito perché verso le persone che non hanno potuto partecipare oggi, abbiamo una specie di dovere morale di continuare con un incontro più allargato, tutto questo segna la ripresa di un discorso, il ritorno del problema palestinese nel discorso politico italiano.

Il seminario sarà moderato dalla professoressa Biancamaria Scarcia. Vi sarà qualche variazione nella sequenza delle relazioni perché il prof. d’Orsi deve prendere in mattinata un aereo e quindi sarà il primo a parlare. Ma invito a questo punto tutti i presenti a un minuto di silenzio per le vittime della pulizia etnica della Palestina del passato e del presente.

Perché questo seminario (il terzo)? ISM Italia ha curato dal 2006 l’organizzazione di tre seminari, il primo a Biella nel maggio 2006, il secondo a Torino nel maggio 2008, mentre il terzo si terrà a Roma il 24 gennaio 2009.

1. La dimensione della parola condivisa Quale futuro per Palestina/Israele?, Biella maggio 2006

Il 12 e il 13 maggio del 2006 si è tenuto a Biella il seminario “La dimensione della parola condivisa Quale futuro per Palestina/Israele?” (www.frammenti.it). Al centro di quell’incontro la situazione in Palestina/Israele dopo la morte di Yasser Arafat e la scomparsa dalla scena politica di Ariel Sharon e dopo le elezioni palestinesi e israeliane dell’inizio del 2006. Ma più in particolare i temi della fine della soluzione “due popoli due stati”, della pulizia etnica della Palestina e dell’appello palestinese al boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS) dello stato di Israele.

2. Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina, Torino 5-6 maggio 2008

A due anni di distanza si è tenuto a Torino pochi giorni prima dell’apertura della Fiera del Libro con lo Stato di Israele ospite d’onore, il seminario “Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina”, un momento di ulteriore riflessione, suggerito dall’incalzare degli eventi, la guerra in Libano, il genocidio già in corso a Gaza e la pulizia etnica che proseguiva in Cisgiordania, il fallimento, prevedibile e previsto, di ogni tentativo di soluzione (come ha confermato l’ultima conferenza di Annapolis), ma sopratutto dalla ricorrenza dei 60 anni della Nakba (Catastrofe) o della pulizia etnica della Palestina e della costituzione dello Stato di Israele.

Un seminario che ha avuto come principale obiettivo quello di esaminare le responsabilità del mondo occidentale per tutto quello che è accaduto e accade in Palestina/Israele e di rispondere, almeno in parte, alla domanda posta da Ilan Pappe al termine di una sua conferenza: “Perché il mondo occidentale permette a Israele di fare tutto quello che fa?”.

Due dei temi trattati nel seminario del 2006 hanno avuto un seguito con la pubblicazione in Italia del saggio collettaneo “Palestina quale futuro? La fine della soluzione dei due Stati”, curato da Jamil Hilal e da Ilan Pappe per i tipi della Jaca Book nel novembre 2007, e del saggio di Ilan Pappe “La Pulizia Etnica della Palestina”, Fazi editore 2008.

Prima dell’inizio della Fiera del Libro di Torino edizione 2008, ISM Italia ha promosso la pubblicazione de:

• il saggio di Yitzhak Laor “Il nuovo filosemitismo europeo e il ‘campo della pace’ in Israele”, “Le Nuove Muse” 2008

• “Politica” (Poesie scelte 1997 - 2008) di Aharon Shabtai, Multimedia edizioni 2008

Il saggio di Laor oltre a esaminare il nuovo filosemitismo europeo (di destra, di centro e in particolare di sinistra) analizza il ruolo che nel “campo della pace” israeliano esercita il trio Oz-Grossman-Yehoshua, considerati, completamente a torto, dall’opinione pubblica europea, tre scrittori “pacifisti” doc. Tom Segev, israeliano, dice che scrivono i loro comunicati pacifisti come se fossero nell’ufficio legale del Ministero degli Esteri israeliano!!!

Sono in verità solo tre razzisti immorali. L’aggettivo immorale dopo il termine razzista è un pleonasmo non inutile.

Le poesie di Aharon Shabtai indicano il retroterra del suo rifiuto a partecipare al Salone del Libro di Parigi: “Io non ritengo che uno Stato che mantiene un’occupazione, commettendo giornalmente crimini contro civili, meriti di essere invitato ad una qualsivoglia settimana culturale. Ciò è anti-culturale; è un atto barbaro mascherato da cultura in maniera cinica. Manifesta un sostegno ad Israele, e forse anche alla Francia che appoggia l’occupazione. Ed io non vi voglio partecipare.”

Un altro testo da ricordare è “Il mondo moderno e la questione ebraica” di Edgar Morin, Raffaello Cortina editore 2007, nel quale l’autore sostiene che il termine “antisemitismo” è una forma di esorcismo. Ne consigliamo la lettura al Presidente della Repubblica.

Nel 2007 si è inoltre riaperto il dibattito sulla proposta di uno stato unico, laico e democratico, nella Palestina storica (Corso estivo a El Escorial, luglio 2007 e Conferenza di Londra, 17 18 novembre 2007).

3. La guerra israelo-occidentale contro Gaza, Roma 24 gennaio 2009

Il saggio di han Pappé, La pulizia etnica della Palestina, è stato presentato a Torino, a maggio e a dicembre, a Varese, Milano, Parma, Ivrea, Ferrara, Bussoleno e Savona; il 19 gennaio sarà presentato a Roma alla libreria Bibli in via Fienaroli (Trastevere) alle ore 17.30.

Il seminario voleva essere, nelle intenzioni iniziali, un primo momento di riflessione sulle implicazioni di ordine politico del saggio di Ilan Pappè.

A seguito dell’attacco israeliano del 27 dicembre e della feroce mattanza in corso nella Striscia di Gaza con il sostegno di tutto il mondo occidentale e la complicità dei paesi arabi “moderati”, questa riflessione si impone in modo ancora più urgente e cogente.

Si impone in modo urgente e cogente di fronte alla complicità attiva dei governi, dei media, dei partiti, dei sindacati europei e del mondo intellettuale.

Si impone in modo urgente e cogente anche a seguito della partecipazione di massa alle manifestazioni, sia in Italia sia in altri paesi europei, delle comunità palestinesi e arabe, una partecipazione senza precedenti che offre una opportunità storica ai movimenti di solidarietà europei per cambiare passo nella definizione dei loro obiettivi e delle loro lotte.

Si impone in modo urgente e cogente una riflessione sulle debolezze e sulle ambiguità del movimento di solidarietà, confermate clamorosamente dalla decisione della cosiddetta tavola della pace di indire una manifestazione ad Assisi in concomitanza con quella indetta in precedenza a Roma, una “decisione irresponsabile” anche a detta di Assopace.

Si impone in modo urgente e cogente per alzare il livello della contestazione contro gli autori di queste barbarie e i loro complici.

Troppe ancora le anime belle all’apparenza sconvolte e turbate se una bandiera israeliana viene bruciata.

Ma è questo il problema?

Troppe ancora le anime belle che continuano a parlare “dell’indiscutibile diritto degli ebrei alla loro terra” (Rossana Rossanda, Torino 14 marzo 2006, Mariuccia Ciotta, Il Manifesto 11 gennaio 2008), per non parlare della manipolazione e della disinformazione sistematiche, strumento della propaganda israeliana attraverso, salvo rarissime eccezioni, gli inviati di radio e tv, per non tacere degli opinionisti senza opinioni, italiani, israeliani e europei, che campeggiano sulle pagine del Corriere della Sera, della Repubblica, de La Stampa e degli altri giornali.

E’ giunto il momento di lanciare una campagna capillare e efficace di boicottaggio, economico, culturale e accademico, contro lo Stato di Israele, aderendo non solo formalmente all’appello della società civile palestinese del 9 luglio 2005 per il boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS).

E’ giunto il momento per lanciare una campagna che crei le condizioni per portare davanti a un tribunale internazionale i responsabili dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi in Palestina e in altre parti del mondo.

1Alfredo Tradardi, nato nel 1936, ingegnere, ha lavorato dal 1960 al 1991 alla Olivetti di Ivrea. E’ stato assessore alla cultura nel Comune di Ivrea nel ‘77 ‘79 e nel ‘92 ‘93. E’ uno dei soci fondatori della associazione culturale itâca (www.frammenti.it) Dall’inizio del 2002 segue il problema palestinese. All’inizio del 2006 ha promosso la costituzione di ISM Italia, gruppo di supporto dell’International Solidarity Movement (ISM) palestinese, del quale è uno dei coordinatori. Torna al testo.

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Panel 1: Un nuovo secolo di barbarie


Ancora un Tradimento dei Chierici! (l’ultimo?)
di Angelo D’Orsi2

Università di Torino

(trascrizione a cura di ISM Italia non rivista dall’autore)


Io mi scuso ma la mia presenza qui è stata decisa all’ultimo momento, perché Alfredo Tradardi, straordinario organizzatore e testimone del martirio del popolo palestinese, avendo saputo che ero a Napoli, mi ha in qualche modo intercettato, ma io devo partire per la Puglia dove devo andare a fare un seminario sulla Palestina. Ma detto questo devo aggiungere un’altra scusa. Io non sono affatto un esperto di Medio Oriente, non è la mia specialità. Ma ho cominciato ad occuparmene come cittadino in quanto ho vissuto, come fatto personale, questa overdose di disonestà, di menzogna che ci sta travolgendo da troppi anni.

E se mi ero sentito ferito e offeso durante la guerra del Libano nel 2006, quando promossi un appello internazionale che raccolse oltre 10.000 firme, questa volta, con questa guerra, questo senso di offesa personale è diventato indignazione morale. E la notte stessa di Capodanno, ho steso un appello forse non rimane molto altro da fare, mi sono detto, ho steso un appello che poi ho mandato a una ventina di persone che poi sono diventate oltre 2000. Un appello del mondo intellettuale italiano. Naturalmente questo appello mi ha procurato, come molte altre volte in passato, molte ingiurie, molti insulti, pubblici e privati. Ma questo è niente. Ma sono qua anche per testimoniare pubblicamente la mia ammirazione e la mia stima a Ilan Pappé. E se ho un piccolo titolo di merito è quello di aver potuto parlare in giro del suo libro e di aver anche contribuito un pò a farne uscire l’edizione italiana. Un libro straordinario di cui consiglio vivamente la lettura a tutti.

Mentre nella notte di Capodanno io, preso da un senso d’impotenza e insieme di rabbia stendevo questo appello, il summenzionato e sullodato Abraham Yehoshua faceva altro.

Leggo le sue parole: “La vigilia del nuovo anno io e la mia famiglia abbiamo ritenuto opportuno mostrare solidarietà ai civili israeliani costretti nei rifugi. Anziché festeggiare siamo rimasti a casa a guardare la televisione. Ci siamo sintonizzati sul canale televisivo Arté che trasmetteva un balletto con la coreografia di Bejart eseguito da un corpo di ballo dell’Opera di Parigi. Non riuscivamo però a dimenticare la guerra. E premendo un pulsante passavamo dall’Uccello di fuoco di Stravinskij ai devastanti uccelli di fuoco in volo fra Khdn Yûnis e Sderot, fra Gaza e Beersheba, passando dal ritmo incalzante, insistente straordinario del Bolero di Ravel a quello tragico, ripetitivo, infinito del conflitto israelo-palestinese”.

Questo che vi leggo è solo l’esordio, tra un attimo poi ci torno. Questo articolo credo sia uno dei punti più bassi della storia dell’intellettualità, diciamo, siamo solo all’inizio, del ventunesimo secolo. Credo che potremmo naturalmente scendere anche più in basso se questo è l’inizio.

Il titolo del mio intervento appunto richiama un celebre titolo La trahison des clercs, il famosissimo pamphlet di Julien Benda del 1927. Nel 1927 la guerra era finita da 10 anni circa ma era quella la guerra a cui si riferiva Julien Benda. Il tradimento dei chierici che lui denunciava riprendeva in qualche modo l’invito che un suo connazionale 13 anni prima, già subito alla fine del ’14, vale a dire Roman Rolland aveva denunciato con l’altrettanto celebre pamphlet “Au dessus de la mélée” (Al di sopra della mischia) in cui invitava gli intellettuali, sconvolto dal fatto che gli intellettuali rinunciassero ad essere quelli che dovevano essere, vale a dire testimoni di verità. Benda nel ’26 userà addirittura l’espressione “sacerdos veritatis” per l’intellettuale. Ebbene Rolland nel 1914 e 1915 e Benda nel 1927, in riferimento alla guerra, erano sconvolti da che cosa? Dal fatto che gli intellettuali rinunciassero ad essere quel che dovevano essere, vale a dire essere testimoni di verità, ad essere cittadini di una sola patria che è la patria della ragione, una patria universale, e si schierassero con le loro classi dominanti, con le classi dirigenti delle rispettive nazioni e diventassero loro megafoni, loro portavoce.

Questo era per Rolland nel ’14, per Benda nel ’27 un intollerabile tradimento della loro missione di intellettuali chierici.

Negli stessi anni, fra il 15 e il 18, un giovane giornalista, tale Antonio Gramsci,
che firmava raramente i suoi articoli perché diceva che era importante trasmettere le idee, non i nomi, conduceva un lavoro diuturno scrivendo anche fino a tre articoli al giorno per i giornali socialisti dell’epoca, l’Avanti e il settimanale socialista Grido del popolo, piemontesi, non faceva altro che denunciare le menzogne della guerra. Ebbene questi tre uomini, Benda, Rolland e Gramsci sono unificati appunto dall’idea dell’intellettuale come figura il cui compito essenziale è quello di dire la verità, dire la verità come recita il titolo di una delle raccolte di scritti di un grande personaggio che io considero una specie di Gramsci della seconda metà del ventesimo secolo, Edward Said, un palestinese le cui opere, tutti i suoi scritti, sono a mio avviso pietre miliari non solo per la questione palestinese, sono pietre miliari per la costruzione di un senso critico, di una attitudine critica verso la verità. “Dire la verità” recitava quella raccolta di scritti di Edward Said di cui consiglio ancora la lettura. E quello che turba davanti a questa guerra è ovviamente, oltre alle immagini che forse stanno scorrendo sullo schermo, alle immagini terribili che abbiamo visto di questa guerra che Gideon Levy nella sua risposta a Yehoshua ha definito la più iniqua e la più crudele delle infinite guerre che Israele combatte contro il popolo palestinese, ebbene quello che turba non è solo questa serie sconvolgente di immagini di questa “guerra ai bambini” (è come se Erode fosse tornato in quelle terre), quello che turba è di nuovo il silenzio acquiescente o la complicità attiva dei chierici. Che non solo rinunciano a dire la verità, per citare Said, ma addirittura diventano embedded, embedded nel sistema delle comunicazioni, embedded nel sistema politico di potere, embedded addirittura negli eserciti. Molti di voi forse avranno visto il lungo servizio che il Corriere della Sera, che è il capofila di questa posizione, ha dedicato a Bernard Henri Lévy noto ex new philosopher il quale appunto si è fatto anche fotografare in tuta mimetica sui carri armati israeliani e ha scritto cose di cui spero un giorno possa vergognarsi. Ma credo che siano speranze vane.

Per brevità non farò le citazioni, rinvio ad andarsi a vedere questo servizio di Bernard Henri Lévy. Evito le citazioni perchè devo essere molto rapido anche perché vorrei sentire almeno un pezzo dell’intervento di Ilan Pappé. Ebbene, sulla scena internazionale ma poi in particolare in Italia in cui questa questione è più tabù che altrove, in Italia non si può proprio parlare e l’episodio appunto del trasferimento del seminario dalla Sapienza a questa sala è un segnale significativo, gli intellettuali sono diventati costruttori di consenso, artefici di propaganda. E la propaganda nelle cosiddette new wars, nelle cosiddette guerre del ventunesimo secolo, quelle che cominciano dopo il famoso triennio 1989-1991, la propaganda non è più un qualunque strumento di guerra come è sempre stato, la propaganda è diventata guerra essa stessa. Oggi, lo abbiamo visto, sono due le guerre che vengono combattute, quella dei carri armati, degli aerei, dei missili e la guerra delle parole che sostengono attivamente e passivamente costruendo consenso intorno ai fatti militari. Si è andata costruendo da una parte una vera e propria egemonia e questo lo notava già in alcune sue opere Edward Said, si è costruita una egemonia nel senso gramsciano, una egemonia che poi è diventata senso comune a livello popolare su alcune menzogne che a furia di essere ripetute sono diventate verità, secondo i meccanismi tipici non solo della propaganda ma della pubblicità, della pubblicità: ripetete, ripetete.

E quali sono gli elementi? Gli elementi sono diversi, non li possiamo analizzare tutti. Mi viene in mente intanto che noi stiamo celebrando proprio in questi mesi, il centenario della nascita del futurismo. Il futurismo fu un grande movimento di avanguardia, rivoluzionario in cultura, come disse Gramsci, ma reazionario in politica. E quale è il vero discrimine fra destra e sinistra? Non è solo la posizione rispetto al concetto di uguaglianza come insegnava il mio maestro Norberto Bobbio. E’ la posizione nei confronti della guerra. I futuristi come sapete sono stati dei bellicisti, sono stati i più virulenti esaltatori della guerra come sola igiene del mondo. Ebbene, mentre celebriamo appunto i futuristi mi viene in mente, leggendo quello che scrivono i nostri opinionisti su scala internazionale e in particolare in Italia, che i futuristi almeno avevano l’onestà intellettuale di dichiarare che erano per la guerra, di dire che la guerra giovava all’agricoltura, alla modernità, come scriveva Giuseppe Papini, trasformatosi da interventista in papista. Invece costoro, i Galli della Loggia, i Panebianco, recentemente anche Gian Antonio Stella che ormai aspira a diventare direttore del Corriere, premettono tutti che la guerra è brutta. A chi piace la guerra? Con ipocrisia che da veramente il voltastomaco. E allora si costruisce un senso comune sulla base di alcune menzogne che diventano verità a forza di essere ripetute. La prima delle quali è: Israele è minacciata, Israele è accerchiata, Israele deve difendersi Vi risparmio le citazioni, mi sono portato i ritagli ma ve ne faccio grazia. Sono tante. Israele costretta a difendersi. Un’orda di barbari che assedia la cittadella della civiltà occidentale, di Israele portatrice di luce, di progresso, in questa marea di bruti che sono gli arabi.

È lo stereotipo che già Said denunciava addirittura nel ’70, che si costruì in occidente per cui gli arabi sono brutti, sporchi, cattivi, ignoranti, incapaci di coltivare la terra, mentre per esempio il libro di Ilan Pappé ci dimostra una cosa che ho trovato una delle cose più belle del libro di Pappé: come quello spossessamento della terra oltre che della memoria è stato anche spossessamento del paesaggio. Popoli che vivevano lì da millenni e che vivevano di una agricoltura attenta al paesaggio, paesaggio dolce, paesaggio gentile, trasformato secondo una modernità imposta con i bulldozer e sostenuta dai carri armati. Ebbene questo stereotipo dell’arabo incapace, inetto, poltrone e queste parole, mi sono andato a rileggere i commenti della stampa internazionale, in particolare italiana al momento della costituzione dello Stato fino agli anni 50, ecco diventa poi, c’è una specie di sviluppo del ragionamento per così dire, il palestinese sempre fondamentalista, ossia terrorista nell’immaginario comune. Nel senso comune che si è costruito a partire dall’equazione dell’arabo terrorista, tutti i palestinesi sono terroristi. E qui almeno forse una citazione dovrei farla da Angelo Panebianco che è uno dei miei preferiti il quale ha scritto uno dei pezzi più memorabili sul Corriere in cui appunto sembra che stiamo assistendo a un interessante rovesciamento del noto paradigma dell’antisemitismo. Uno dei fondamentali paradigmi dell’antisemitismo è il cospirazionismo, cioè l’idea che ci sia una grande cospirazione ebraica. Il famoso falso dei Protocolli di Sion si fonda su questo: c’era un grande progetto ebraico per impadronirsi del mondo attraverso rivoluzioni, guerre ecc. ecc. Ebbene il paradigma si sta rovesciando, adesso il cospirazionismo diventa appunto un cospirazionismo filosemitista, per utilizzare una espressione di Yitzhak Laor (Il nuovo filosemitismo europeo e “il campo della pace” in Israele, Le Nuove Muse 2008). Il cospirazionismo diventa l’idea che ci sia appunto, dietro alla resistenza palestinese e quindi dietro Hamas, un complotto per impadronirsi del mondo, un complotto politico religioso all’insegna del fanatismo estremo che costituisce la più grave minaccia per l’umanità che sta portando, e guai a coloro che non se ne rendono conto e qui sotto accusa è il povero D’Alema perché ha osato dire parole leggermente dissonanti rispetto a quelle non solo del ministro degli esteri in carica, ma del cosiddetto ministro degli esteri ombra, il noto Fassino al quale vorrei ricordare che in una delle infami guerre di fine secolo, di trapasso da un secolo all’altro, la guerra della Nato alla Iugoslavia, la così detta guerra del Kossovo, Fassino allora ministro della difesa ebbe a dire testualmente perché sono parole rimaste scolpite nella mia mente “soltanto chi non ha guardato negli occhi un bimbo kossovaro non può capire questa guerra”. Io vorrei invitarlo a guardare l’immagine dei corpi carbonizzati dei bambini di Gaza e dire che cosa pensa di questa guerra, Fassino il ministro degli esteri ombra, Fassino che è andato anche alla manifestazione pro Israele qui a Roma.

Ebbene, tralascio le citazioni, tutto questo è condito da un vero e proprio razzismo pesantissimo. E una citazione ancora, rapidissima, da Yehoshua il quale in quell’articolo uscito l’8 gennaio sia sulla Stampa di Torino che sul Nouvel Obsevateur di Parigi, esprime la sua tesi di fondo: quale era? Era che “agli amici progressisti che ci criticano per aver usato una reazione sproporzionata” rispondeva: “è vero, forse è sproporzionata, ma deve essere sproporzionata perché una reazione proporzionata sarebbe inefficace”. E quale è l’argomento di questo grande intellettuale? L’argomento è che la capacità di sopportazione e di resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani perché gli arabi sono rudi e rozzi. Bisogna usare il bastone e come nei vecchi metodi pedagogici dei tempi lontani, per i figli bestioni non bastava il ceffone, ci voleva il bastone. Ripeto, questo articolo di Yehoshua diventerà un capo di imputazione perenne. Allora, davanti a questa immagine di morte che voi, io ho visto nelle immagini di tante manifestazioni all’Università, che cosa si risponde, al di là di questa risposta di Yehoshua? Si risponde non solo adducendo la vecchia risposta degli “effetti collaterali” (ci dispiace, non si voleva fare...), no, ci sono due novità. La prima è che Hamas (Hamas ovviamente è la punta dell’iceberg di questa trasformazione di arabo-palestinesi, islamici, fondamentalisti, terroristi) , Hamas è terrorista! Hamas è oggi la resistenza palestinese a una invasione e a una occupazione militare, questo va detto, va detto forte! (applausi) Solo Hamas sta facendo una resistenza, Hamas che ha vinto libere elezioni certificate da osservatori internazionali. Ebbene si dice che Hamas ha trasformato, cito testualmente, Gaza in un enorme scudo umano e quindi è colpa di Hamas. Hamas odia il suo popolo. E la seconda risposta quale è? E questa è la più interessante, è una novità nel discorso pubblico, vale a dire che è finito il tempo dell’ebreo vittima. Ebbene, abbiamo usato una sproporzione, era giusto così. Siamo stanchi di subire. E’ finito quel tempo. Ora l’ebreo, e questo lo hanno scritto in molti, è diventato combattente o è ridiventato combattente, ha impugnato le armi (P.L. Battista sul Corriere della Sera). Ma devo citare una scrittrice statunitense, Cinzia Ozick, che addirittura chiede che in Europa non si celebri più il giorno della memoria. Non c’è religione della memoria (io a questo punto sono d’accordo), perché l’Europa è tutta con i terroristi. E’ riuscita a dire che addirittura l’Europa ha riesumato la condanna del sangue contro gli ebrei, c’è l’antisemitismo che si manifesta nella critica ad Israele per questa guerra. L’antisemitismo è riesploso non solo nel mondo islamico ma in tutta l’Europa. Per fortuna ci sono gli Stati Uniti. E dice ancora, tutto questo è inevitabile, ma è colpa dei palestinesi se muoiono. Perché non sono capaci di costruire rifugi! Capite? L’ha detto! Non sono capaci! E’ uscito sul Corriere della Sera, in data 19 gennaio. Noi abbiamo costruito degli ottimi rifugi. Loro non sono capaci. Peggio per loro.

E poi, è stato detto più volte, l’argomento di carattere demografico, tipico argomento della polemologia da Gaston Bouthoul in avanti, perfino un collega di Ilan Pappé, Benny Morris, in una intervista ha detto: “gli arabi sono tanti, sono tanti e la grande paura di Israele è di subire la bomba demografica araba”. Gli arabi sono tanti, lo dice anche la Ozick, gli arabi sono tanti anche se ne muoiono un pò. E se muoiono i bambini tutto sommato è quasi meglio. E a proposito di propaganda, tra questi meccanismi c’è anche il rovesciamento della verità, l’occultamento della verità, dare le notizie senza il retroscena. Avete sentito grandi squilli di tromba e rulli di tamburo: il ministro degli esteri Frattini è andato a Gaza a portare aiuti umanitari. Ha detto: “a Gaza, non ad Hamas”. E poi ha portato 9 bambini palestinesi a curarsi negli ospedali italiani. Ma sapete chi erano questi 9 bambini palestinesi? Israele ha vietato l’uscita di bambini palestinesi feriti nella guerra. Questi bambini sono bambini affetti da malattie terminali. Quindi si è consentito loro di uscire per venire a morire in Italia. Allora cosa devo dedurne? Devo dedurne due cose: non si vuole che si esamini il tipo di ferite per capire che tipo di armi sono state usate. E mi viene persino un secondo sospetto più malevolo che allude a un progetto genocidario. Questi bambini, tanto devono morire, potete anche portarveli in Italia. Non sia mai che vi portiate bambini feriti che potreste curare. Però se io scrivo, come ho scritto, che siamo davanti non più soltanto a un disegno di cancellazione di una nazione e di cancellazione di una memoria come ha scritto egregiamente Ilan Pappé, ma siamo di fronte a un disegno di cancellazione di un popolo, se io scrivo questo, rischio di essere accusato dal Corriere della Sera di antisemitismo o addirittura di negazionismo.

Alludo anche a una idea diffusa, riportata dai vari Galli della Loggia, che l’intellettuale, se vuole essere pacifista deve essere equidistante, soprattutto non deve parteggiare! Una concezione demenziale. Cito ancora Gramsci: “esisto in quanto sono partigiano”. E finisco ricordando che appunto in Italia non puoi assolutamente uscire fuori dal coro. L’episodio Santoro è significativo. A Torino è accaduto che il presidente del Consiglio comunale si sia recato a parlare con i manifestanti pro Palestina, e sono state chieste le sue dimissioni perché ha osato parlare con loro. E ricordo anche questo episodio poco noto di questo giovane turco che si è dato alle fiamme per protesta. E’ stato liquidato il Jan Palak turco proprio mentre sono usciti libri, si sono fatti convegni per ricordare il Jan Palak del ’68. Ma questo “Jan Palak” non merita cittadinanza.

Davanti a tutto questo, naturalmente dovremmo deprimerci. Però siamo qui. Forse siamo pochi, però se ciascuno di noi diventa anello di una catena, forse possiamo riuscire ad evitare il rovesciamento della verità. Questo è il nostro compito. Questa è la nostra missione.


2Angelo d’Orsi, allievo di Norberto Bobbio, è professore di Storia del pensiero politico all’Università di Torino. Ha promosso la costituzione dell’associazione culturale per il diritto alla storia, “Historia Magistra” (www.historiamagistra.com). Ha fondato il FestivalStoria di cui è direttore (www.festivalstoria.org). Torna al testo. Scrive su “La Stampa”, “Liberazione” e “Il Manifesto”. Tra i suoi saggi: La cultura a Torino tra le due guerre (Einaudi, 2000), Intellettuali nel Novecento italiano (Einaudi, 2001), Piccolo manuale di storiografia (Bruno Mondadori, 2002), I chierici alla guerra (Bollati Boringhieri, 2005), Da Adua a Roma (Aragno, 2007), Guernica, 1937, Le bombe, la barbarie, la menzogna (Donzelli 2007). Nell’agosto 2006, dopo la guerra in Libano, ha promosso l’appello “Facciamo sentire la nostra voce! Una campagna per la verità”. Nel gennaio 2008 “l’appello di solidarietà con i colleghi della “Sapienza” di Roma”, a seguito delle polemiche suscitate dall’invito rivolto a Benedetto XVI di inaugurare con un suo discorso l’anno accademico all’Università Sapienza di Roma. Recentemente ha promosso l’«Appello del mondo intellettuale italiano contro l’aggressione israeliana a Gaza», vedi www.historiamagistra.it Per aderire: info@historiamagistra.it precisando la collocazione professionale e la sede.

In allegato gli appelli promossi da Angelo d’Orsi:

1. Appello del mondo intellettuale italiano contro l’aggressione israeliana a Gaza
2. Appello per deferire governanti e alti comandi militari di Israele alla Corte Penale Internazionale dell’Aja

Indice.


Genocidio a Gaza e Pulizia Etnica in Cisgiordania
di Ilan Pappè3 Exeter University

(trascrizione a cura di ISM Italia non rivista dall’autore)

Voglio iniziare inviando da qui i migliori auguri a Karma Nabulsi e a suo padre ricoverato in ospedale e spero che abbiate modo di ascoltarla in un futuro prossimo perchè è una persona straordinaria, una persona eccezionale, una voce animata da una grande umanità in un mondo sempre più disumanizzato.

Voglio cercare di spiegare che cosa manca nel modo in cui i media riferiscono del massacro palestinese a Gaza. Ci sono tre elementi, che non ritroviamo in quasi nessuno dei resoconti che ci vengono forniti dai media, nè li ritroviamo nelle reazioni da parte dei politici, degli intellettuali, nel loro atteggiamento nei confronti di quello che succede sul terreno. Non fanno riferimento alla storia, alla ideologia e alla giustizia, non c’è nessun riferimento a questi tre elementi. Mostrano delle foto, delle immagini, ci inviano delle descrizioni orrende e spaventose di bambini, di donne e uomini che vengono uccisi; parlano dell’atto terribile, spaventoso della guerra come se si trattasse di una guerra qualsiasi e se non si tiene conto della storia, dell’ideologia e della giustizia, e della storia della Palestina in generale, e di quella di Gaza in particolare, non solo non si riuscirà a capire perché è in corso il massacro e le uccisioni, ma non riusciremo neanche a prevenire un fatto del genere in futuro.

Dobbiamo studiare la storia della Palestina, dobbiamo vedere i collegamenti tra i bombardamenti e l’espulsione dei palestinesi nel 1948 e i bombardamenti e la pulizia etnica nel 2009. Il nesso tra tutto questo è la medesima strategia, la medesima metodologia, solo le armi sono diventate più letali e più moderne. Nel ’48 la maggior parte dei massacri perpetrati si sono verificati perché l’esercito israeliano non ha lasciato nessuna possibilità ai palestinesi di abbandonare i loro villaggi e le loro città. La striscia di Gaza è come un enorme villaggio palestinese del 1948 dove la gente non sa dove andare, non sa dove ripararsi, dove la gente combatte disperatamente in una lotta impari, impossibile per la sopravvivenza.

Ci sono altre analogie tra il 1948 e il 2009. Nel 1948 quell’evento è stato definito una guerra come se il popolo palestinese nel 1948 fosse un esercito e non abitanti di villaggi e di cittadine, civili che non avevano neanche potuto prevedere quello che sarebbe loro accaduto. Oggi i media e le elite politiche dell’Occidente parlano di una guerra e quindi bisogna fare un raffronto tra le due parti per cercare di equilibrare le due posizioni, come se in un massacro o in una situazione di genocidio o di pulizia etnica si debbano in qualche modo mostrare i due punti di vista. C’è anche lo stesso silenzio, o meglio il complotto del silenzio, da parte della comunità internazionale ed è certamente ancora più inaccettabile oggi nel 2009 di quanto non lo fosse già nel 1948 . Nel ’48 non c’erano mezzi come la televisione e i crimini spaventosi commessi contro il popolo palestinese sono stati perpetrati tre anni dopo l’Olocausto, quindi tutti questi pretesti non sono pretesti che possono essere fatti valere nel 2009.

Dobbiamo anche prendere in esame la storia del 1967: sappiamo oggi che dal 1967 in poi, fin dal primo giorno di occupazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza, l’elite politica, culturale e militare israeliana ha deciso che Cisgiordania e Gaza sarebbero stati sempre sotto il controllo israeliano. E nessun governo, nessun partito politico sionista si è mai discostato da questa decisione. Hanno cercato di nascondere questa decisione strategica da parte israeliana, hanno persino inventato di sana pianta un processo di pace, per coprire, mascherare questa strategia che era tesa ad un controllo duraturo dei territori con tutti i mezzi possibili. Il 20% della Palestina storica che gli israeliani non avevano occupato nel ’48, sono riusciti ad occuparla nel ’67. Volevano anche nascondere il fatto che non sanno o non hanno saputo dal ’67 cosa fare dei milioni di palestinesi che risiedono in queste zone occupate da Israele nel 1967.

Col passare degli anni la strategia israeliana è diventata chiara: mantenere un controllo diretto e indiretto sui territori e far si che la popolazione nei territori fosse mantenuta in uno stato permanente di prigionia. Se poi la gente si comporta bene, cioè non oppone resistenza a questo controllo diretto o indiretto da parte di Israele, potrà anche godere di una prigione a cielo all’aperto. Una prigione che poteva anche essere definita lo stato palestinese. Se resistono come hanno fatto nell’87 e di nuovo nel 2000 saranno sottoposti ad un regime carcerario di massima sicurezza, con punizioni collettive, pulizia etnica, uccisioni di massa e come ultima possibilità a un totale annientamento.

Ma dobbiamo anche prendere in considerazione l’ideologia.

Se noi non analizziamo i collegamenti tra l’ideologia sionista e i tipi di crimini cui abbiamo assistito a Gaza, non solo non riusciremo a spiegare perché gli israeliani stanno facendo quello che fanno, ma saremo incapaci di prevenire il prossimo caso di politica di genocidio e di massacri. L’ideologia è un fenomeno dinamico nella storia, inizia sulla base di una idea precisa su elementi fondamentali su cui si àncora; poi si modifica per adeguarsi a delle circostanze mutate. Questo è il motivo per cui l’idea iniziale del sionismo, quella relativa all’identità nazionale, all’autodeterminazione ebraica, alla sicurezza, hanno subito una evoluzione quando il progetto sionista si è trasformato in un progetto colonialista sul terreno. Il sionismo non è nato così, è diventato una ideologia razzista che disumanizza i palestinesi come singoli individui e come collettività proprio sulla base di un profondo convincimento, che è il fulcro del movimento sionista, e cioè che fino a quando ci sono palestinesi in quella che era la Palestina, non c’è nè sicurezza, nè prosperità per il popolo ebraico che ha fondato lo stato d’Israele e che risiede nello stato d’Israele.

Le elite intellettuali e accademiche israeliane hanno modi molto sofisticati, molto articolati di spiegare questo tipo di convincimento e questa formula. Ma ogni cittadino medio dello stato d’Israele conosce perfettamente questa percezione ideologica e questa è l’unica forza ideologica autentica che ispira, definisce e plasma le idee dei cittadini nei confronti dei palestinesi come essere umani.

La disumanizzazione significa che ogniqualvolta in Israele ci si sente minacciati come società o di fronte ad un minaccia esistenziale per la propria sopravvivenza, si deve abbandonare qualunque principio morale, qualunque inibizione, per praticare l’espulsione o il genocidio o per imprigionarli in un enorme ghetto.

Sfortunatamente parte di questa percezione disumanizzata dei palestinesi è stata adottata dall’Occidente come una nuova ondata di islamofobia.

Non c’è un collegamento tra l’esperienza degli ebrei in Europa, che fa parte della storia dell’Europa e dovrà sempre essere parte dell’agenda europea, e sicuramente dell’agenda italiana e tedesca, e la colonizzazione sionista della Palestina. Solo se scindiamo il piano di discussione tra questi due elementi, cioè il dibattito sulla questione ebraica in Europa e il progetto sionista in Palestina, riusciremo ad arrivare ad una pace e alla riconciliazione tra Israele e la Palestina.

E dovremmo anche parlare di giustizia. Come possiamo modificare una realtà in cui storia ed ideologia ci insegnano che un movimento politico e ideologico che aveva creato uno stato nel ’48 non si fermerà finché non avrà completato il suo progetto di distruggere il popolo palestinese? Come confrontarci con questo quando le elite politiche e i media occidentali si rifiutano di descrivere la realtà sul terreno e non ci danno un quadro della realtà? Come possiamo noi confutare le menzogne, la propaganda che per sessanta anni hanno mascherato un caso molto semplice e chiaro di pulizia etnica e di genocidio? Come voi sapete, a differenza di quello che ci viene insegnato nella maggior parte della letteratura e delle narrative il male è qualcosa di molto semplice, tutt’altro che complesso. E il bene è molto difficile da realizzare. E la storia della Palestina e di Israele è la storia del male e non del bene. E tutti gli sforzi fatti dagli israeliani di descrivere questo fenomeno come una realtà complessa sono un tentativo di nascondere una storia molto semplice e infausta di colonialismo, di occupazione, di pulizia etnica e adesso di genocidio. Quindi come confrontarci con questo quando abbiamo questa cappa di propaganda a livello accademico, a livello dei media e a livello politico, qualcosa che dà impunità ai crimini israeliani e sionisti? La situazione ideale da augurarsi sarebbe quella che la società che è causa di questo male, che ha commesso questi crimini, cambiasse dal suo interno, cambiasse le sue politiche e ideologie in modo che non ci fosse spargimento di sangue e non fosse necessario usare la violenza per poter porre termine alla violenza.

Ma sfortunatamente la storia ci insegna che il problema di questa impostazione, cioè un cambiamento dall’interno, è che richiede tempi molto lunghi e visto il ritmo della devastazione che ha colpito la Palestina, non deve stupirci che molti di noi ritengono che non ci sia il tempo di aspettare che la società israeliana modifichi il proprio atteggiamento e le proprie politiche. Tre giorni fa ad Haifa, nella sala del teatro Al Maidan, 400 persone hanno ascoltato le voci di ebrei che si oppongono contro la guerra a Gaza. Alcune di queste persone sono state menzionate oggi da Alfredo e Angelo. Ma erano le uniche voci che si sono levate per dirlo, non serviva più di una sala di teatro per raccogliere le voci che si levavano contro il genocidio di Gaza. Non c’era bisogno come c’era bisogno qui di avere un’altra sala, di creare video-collegamenti, perché nessun altro ci sarebbe stato ad occupare un’altra sala.

Quindi se noi aspettiamo che ci sia questo cambiamento dall’interno, parliamo di modificare l’impostazione ideale, l’atteggiamento mentale del 99% degli ebrei, siamo di fronte a un progetto storico impossibile.

Cosa ci ha insegnato la storia quando una società si rifiuta di cambiare il suo atteggiamento razzista, la sua ideologia fascista, razzista e genocidaria? In Europa la decisione è stata quella di utilizzare una forza militare massiccia per porre termine all’esistenza di regimi razzisti. Io sono un pacifista, la mia famiglia vive ancora tutta in Israele e quindi non appoggerei mai la distruzione militare dello stato di Israele, quindi per me questa opzione non è fattibile, anche se posso capire perché molte persone disperate possano pensare o sperare che questa sia la soluzione. Il Sudafrica ci ha insegnato che c’è un’altra possibilità, quella del boicottaggio, delle sanzioni e del disinvestimento. Il vantaggio è non solo quello di evitare altri spargimenti di sangue ma di mostrare che non c’è bisogno di convincere ogni bianco o sudafricano a smettere di essere razzista. L’apartheid è caduta prima che tutti i bianchi sudafricani non fossero più razzisti. E’ finita quando l’elite politica, culturale ed economica ha cominciato a perdere i vantaggi materiali, i vantaggi in termini di prestigio all’estero che aveva ottenuto dal sistema razzista dell’apartheid. E questa deve essere la via giusta da seguire per porre termine alla politica violenta e genocidaria di Israele, per poter rendere giustizia alle vittime del passato.

Ma io non sono ingenuo e so che l’Europa e l’America non sono pronte ad adottare questo modello, preferiscono il tipo di modello adottato nel 1948, nel 1967 e adesso nel 2009.

Una delle cose più spaventose che si sono verificate è che alcuni palestinesi ed europei, insieme ad alcuni americani, mossi dalle migliori intenzioni, hanno contribuito al successo della propaganda e della mitologia di parte israeliana che non ci consente di creare un movimento di massa e efficace di boicottaggio e di sanzioni che possano essere foriere di pace e riconciliazione per Israele e per la Palestina.

Avendo adottato da Oslo il modello della soluzione basata sui due stati, abbiamo direttamente contribuito a rendere gli israeliani immuni da qualunque pressione importante esercitata dalla comunità internazionale affinché ponessero termine a questa politica criminale che perpetravano sul terreno. Non importa che voi crediate più o meno fermamente nella soluzione dei due stati o pensiate che non ci siano altre soluzioni: il discorso dei due stati è quello che garantisce che Israele attacchi dei palestinesi innocenti impunemente e ne ucciderà altri, bambini, donne e uomini, la prossima volta proprio per questo discorso dei due stati.

L’elite politica occidentale con il nuovo leader Barack Obama non farà nulla.

Quindi in conclusione io direi, noi dobbiamo garantire che quello che l’elite politica, economica e culturale dell’occidente non è disposta a fare, noi siamo disposti a farlo in quanto società civile. Non lasceremo la storia agli storici: in qualunque momento, in qualunque occasione noi dobbiamo ricordare alla gente che ci ascolta che dal 1948 in poi, senza neanche un giorno di interruzione, la pulizia etnica della Palestina è andata avanti e la pulizia etnica è un crimine contro l’umanità, è il peggior crimine contro l’umanità. Da sessanta anni il mondo ha consentito ad Israele di commettere questo crimine, compresa l’ultima pagina che ha scritto nel 2009. Dobbiamo ricordare a chi ci ascolta, dovunque essi si trovino, che l’ideologia dello stato di Israele è una ideologia razzista, immorale, inaccettabile nel 2009 ed è vergognoso che l’Unione Europea sia disposta a consentire ad Israele di avere uno status particolare, anche se i politici europei sanno benissimo quale sia la natura dell’ideologia e delle politiche che si ispirano a questa ideologia e noi non accetteremo Barack Obama e la nuova amministrazione americana come una evoluzione nuova e positiva fintanto che Barack Obama e la sua amministrazione non contesteranno questa ideologia immorale e razzista e le politiche collegate a questa ideologia.

Nessun essere umano degno può veramente accettare quello che lo stato di Israele rappresenta nel 2009. Infine diremo a chi ci ascolta che l’attuale opera diplomatica in corso aiuta gli israeliani a portare a compimento il progetto criminoso che avevano iniziato nel 1948. Se questo progetto non viene fermato lascerà i palestinesi fuori dalla Palestina e fuori dalla storia. Non è troppo tardi e ci sono delle forze valide all’interno di Israele e all’interno della Palestina, certo non sono numerose, ma esistono e possono agire per realizzare qualche cosa di molto diverso sul terreno, una situazione in cui tutti siano eguali, dove chiunque, sia esso stato espulso o sia immigrato in quella terra, goda degli stessi diritti e possa condividere con gli altri un pezzo di terra molto piccolo che consenta soprattutto al mondo arabo, al mondo musulmano, di affrontare altre questioni importanti al loro ordine del giorno, piuttosto che essere di fronte a questa continua ingiustizia, un’ingiustizia nei confronti della quale la maggioranza dei popoli del mondo restano in silenzio, non fanno nulla e spero che il primo segnale del fatto che si sia riusciti per lo meno a modificare l’opinione pubblica di questo paese sia rappresentato dal fatto che la prossima riunione possa tenersi nella grande sala dell’università di Roma e il rettore dell’università possa essere la persona che inaugura democraticamente la seduta.

3Ilan Pappé è professore all’Università di Exeter dopo essere stato costretto a lasciare il Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Haifa per i suoi scritti storici e per le sue posizioni politiche. Ha sostenuto tra i primi, con Tanya Reinhart, il boicottaggio accademico delle università israeliane. E’ presidente dell’Emil Touma Institute for Palestinian Studies, Haifa. Autore di numerose pubblicazioni tra le quali “Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli”. Einaudi 2005 e “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi Editore 2008. Suoi saggi sono stati pubblicati in due lavori collettanei, curato il primo insieme a Jamil Hilal, “Parlare con il nemico Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto ‘Ç Bollati Boringhieri 2004 e “Palestina quale futuro? La fine della soluzione dei due stati”. Jacabook 2007. Articoli e informazioni si possono trovare sul sito www.ilanpappe.org. Torna al testo.

In allegato alcuni articoli di Ilan Pappé:

GENOCIDIO A GAZA

What May Come After the Evacuation of Jewish Settlers from the Gaza Strip A Warning from Israel by Un Davis, Ilan Pappe and Tamar Yaron, July 15, 2005

Genocidio a Gaza di Ilan Pappe, The Electronic Intifada, 2 Settembre 2006

Palestina 2007: Genocidio a Gaza, pulizia etnica in Cisgiordania, di Ilan Pappe, The Electronic Intifada, 11 gennaio 2007

Tempo scaduto di Ilan Pappé, seconda conferenza annuale a Bil’in, 18 aprile 2007

La furia sacrificale di Israele e le sue vittime a Gaza di Ilan Pappe The Electronic Intifada, 2 gennaio 2009

Indice.



La politica italiana ed europea in Medio Oriente
di
Giulietto Chiesa4,
europarlamentare

(trascrizione a cura di ISM Italia rivista dall’autore)

L’intervento di Pappé sgombra il terreno da molte delle questioni che io volevo proporvi. La mia posizione, la nostra posizione, è quella di persone che vivono lontano dalla Palestina, in altri contesti. Noi non siamo là e dobbiamo chiederci cosa possiamo fare qui. E prima di tutto capire ciò che è accaduto e se esso ha o no cambiato il nostro modo di valutare la situazione.

Concordo intanto, pienamente, con l’analisi di Pappé. Gli eventi di Gaza hanno messo di fronte a tutti noi la verità, e cioè che Israele è guidata da un gruppo criminale che non intende rinunciare a un centimetro quadrato di quella che loro chiamano la Galilea. Un gruppo di criminali che hanno l’appoggio anche qui concordo pienamente con Pappé della grande maggioranza della popolazione israeliana. Questi sono i punti da cui dobbiamo partire anche noi.

Il massacro di Gaza ha un solo significato: se costoro vincono non ci sarà alcuno stato palestinese, né oggi né domani né mai. A meno che Israele non sia costretta ad accettarlo sotto una forte pressione internazionale esterna. Questa ipotesi, tuttavia, è altamente improbabile, per non dire inesistente. Queste, in estrema sintesi, sono le coordinate realistiche del problema. Le élite europee sono state corresponsabili e complici della strategia americana e israeliana (sostanzialmente coincidenti) e non si sposteranno da questa posizione in un periodo di tempo prevedibile. Lo dico da osservatore ravvicinato dei comportamenti europei a Bruxelles. Israele continuerà dunque a martoriare il popolo palestinese occupandone il territorio, aumentando gli insediamenti, trasformando le zone occupate come è stato qui descritto crudamente in una prigione a cielo aperto. E dove la popolazione palestinese sarà costretta a misurare sulla sua pelle il livello di repressione cui sarà sottoposta, in proporzione diretta con la quantità di resistenza che sarà in grado di opporre alla violenza e al sopruso degli occupanti.

E’ il ritratto di una pulizia etnica esercitata in modo sistematico.

Qui Ilan Pappé ci ha detto cose dalle quali è impossibile prescindere e senza le quali non si potrà definire un programma politico di sostegno al popolo palestinese. Tra queste una mi pare cruciale: non riusciremo ad aprire una breccia nella coscienza collettiva europea se non riusciremo a separare l’idea dell’olocausto dal problema palestinese. Cioè se non riusciremo a smontare la più mostruosa delle manipolazioni sioniste, secondo la quale, per riparare alle colpe dell’olocausto, l’Europa deve consentire a Israele di realizzare la pulizia etnica definitiva della Palestina. E’ questo il nocciolo dell’ideologia sionista dei tempi moderni. Un segno genocidario che concede alle vittime di allora di diventare carnefici con la benedizione del mondo occidentale.

Possiamo accettare una tale mostruosa equazione, che getta su un popolo intero le conseguenze di una responsabilità alla quale è stato comunque estraneo, ma che scarica su noi europei la responsabilità di accettare un secondo olocausto, questa volta contemporaneo, di dimensioni minori solo perché i palestinesi sono meno degli ebrei di allora. Io ricordo spesso l’aforisma di Hans Magnum Enzensberger, uno scrittore tedesco: “ai tempi del fascismo noi non sapevamo di vivere ai tempi del fascismo”. Temo proprio che stia accadendo esattamente la stessa cosa. Ai tempi di Gaza, dello sterminio di un popolo, che avviene sotto i nostri occhi, noi non sapevamo di stare ai tempi del fascismo. O meglio noi che siamo qui lo sappiamo. Fuori da qui sono in pochi a saperlo, soverchiati da messaggi mediatici falsificati. Ma forse anche noi abbiamo capito solo alcune cose, mentre altre, più profonde e più inquietanti, ancora ci sfuggono.

Ecco io credo che molti di noi non abbiamo ancora ben compreso che anche noi, qui, siamo in pericolo. E che la nostra solidarietà con il popolo palestinese è in realtà anche una forma di autodifesa. Ecco il punto fondamentale, per giungere al quale si richiede un salto intellettuale Noi parliamo di solidarietà e di giustizia con e per il popolo di Palestina, ma in realtà dovremmo renderci conto che stiamo cercando di salvare noi stessi. Perché quello che sta accadendo in Palestina – e non è retorica, è l’analisi politica, cruda e fredda – è la guerra contro di noi.

I dirigenti sionisti israeliani non sono così stupidi da pensare di poter cancellare in tempi brevi il popolo della Palestina. Non sono così stupidi, non lo sono mai stati. Dal 1948 in avanti hanno dimostrato di avere una precisa strategia. Una strategia che, con lievi variazioni, non hanno mai sostanzialmente abbandonato. Sanno, i dirigenti israeliani, che godono dell’appoggio della gran parte della loro popolazione, che c’è un limite oltre il quale nemmeno la schiera degli amici occidentali, nemmeno l’Europa, è in grado di seguirli in “condizioni normali”. In “condizioni normali” cioè le attuali condizioni, gli attuali rapporti di forza politici hanno dovuto fermarsi a Gaza, perché andare oltre avrebbe significato mettere a repentaglio le loro relazioni privilegiate con il resto del mondo occidentale, perdere il contatto. Sottolineo l’espressione: in condizioni normali.

Non è possibile realizzare la pulizia etnica totale della Palestina, in condizioni normali. In condizioni normali si può procedere solo per tappe, infliggendo colpi sempre più duri, ma senza mai poter risolvere il problema degli “scarafaggi da schiacciare”, del “formicaio da incendiare”, per usare espressioni rivelatrici dei militari israeliani. Per questo hanno fermato il massacro a un certo punto. In condizioni normali significa poter agitare in continuazione, assecondati dal mainstream mondiale, l’idea che sia Israele e la sua esistenza ad essere minacciata. Anche quando apparirebbe evidente, a chiunque non fosse accecato, che non vi è alcuna possibilità di mettere in discussione, realmente l’esistenza di Israele. Che nessuno è in condizione di minacciare realmente, neanche lo volesse, per quanto lo proclamasse, l’esistenza di Israele. Anche quando non vi è dubbio alcuno che Israele ha tutto ciò che le occorre per vincere ogni battaglia e ogni guerra. Non solo la superiorità bellica, ma anche quella politico diplomatica, ma anche quella informativa.

Il trucco consiste dunque nel continuare a gridare di essere le vittime, anche quando si è ormai da tempo diventati carnefici. E lo si può fare in condizioni normali come quelle che abbiamo vissuto e viviamo, in condizioni in cui l’opinione pubblica mondiale pensa che con Israele si possa parlare di negoziati e di una soluzione pacifica. Ma poiché l’obiettivo sionista è la conquista totale del territorio della Palestina, e poiché questo significa la pulizia etnica finale di quel territorio, e poiché questa è impossibile senza un genocidio, è evidente che i dirigenti israeliani hanno in mente un’ipotesi non “normale”.

Se essi pensano lo pensano anche se non lo dicono pubblicamente, almeno non negli ultimi tempi che “nemmeno un centimetro di terra sarà lasciato ai palestinesi”, al “formicaio palestinese”, agli “scarafaggi palestinesi”, allora restano due ipotesi materialmente percorribili: pulizia etnica totale, oppure sottomissione totale dei rimanenti, umiliazione, rinuncia, bantustanizzazione del popolo palestinese.

Ma il genocidio è inaccettabile per l’opinione pubblica occidentale, dunque resta l’ipotesi transitoria “dell’apartheid in versione araba”. L’esempio sudafricano citato da Pappé è perfettamente attinente. Esso non prevede alcuno stato palestinese realmente indipendente. Prevede l’umiliazione finale del popolo palestinese; in primo luogo la sua divisione (cosa già ottenuta); la estensione degl’insediamenti; il proseguimento sine die dell’occupazione, con l’acquiescenza in primo luogo dei leader palestinesi che hanno già accettato la sconfitta e si sono fatti comprare, in secondo luogo dei regimi arabi reazionari, e, in terzo luogo dell’Europa. Degli Stati Uniti non parlo perché essi sono i principali alleati di questa politica. Con Obama non ci saranno qui cambiamenti: la nomina della signora Hillary Clinton a segretario di stato dice già tutto ciò che occorre per prevedere quale sarà la politica di Obama nel Medio Oriente e in Palestina. È una linea che mette nel conto, per un certo periodo di tempo, anche lungo, una situazione di occupazione sempre più feroce, con assassinii mirati, risposte terroristiche, liquidazioni settoriali dei capi di Hamas, con l’uso di azioni e risposte terroristiche disperate o organizzate, o provocate, o stimolate. Tutte le varianti sono buone e, del resto, sono già state sperimentate se è vero, com’è vero che Hamas è nato da una costola del Mossad, costruita con soldi del Mossad per creare divisione e per impedire ad Arafat di proseguire una politica di raccolta dei consensi attorno all’ipotesi di pace in cambio di territori.

Ogni tipo di provocazioni sarà tentato, come è avvenuto con successo in passato, per scompaginare la resistenza palestinese. Si potrà fare anche perché il mainstream mediatico, composto in gran parte di servi imbecilli del potere, cadrà in tutte le trappole, le amplificherà, le giustificherà. Basti l’esempio, assai significativo, della notizia diffusa da Hezbollah proprio nei giorni dell’attacco contro Gaza. Notizia che rivelava il ritrovamento appunto da parte dei servizi di Hezbollah di una postazione di missili telecomandati a distanza, che avrebbero dovuto partire dal Libano del Sud e andare a schiantarsi su case israeliane. Non era stato certamente Hezbollah a piazzarli, visto che li ha scoperti. E allora chi ce li aveva messi? E come avrebbe reagito, per esempio il Corriere della Sera alla notizia di questo attacco? Avrebbe parlato di un’azione terroristica, proditoria, organizzata da Hezbollah per creare un secondo fronte in Libano, destinato a indebolire l’offensiva israeliana contro Hamas, eccetera eccetera. E l’aviazione israeliana, che non ha problemi di carburante, e di bombe, sarebbe quindi partita immediatamente per bombardare i villaggi del Libano. Ecco come si organizza la guerra e, prima della guerra, la disinformazione.

Ci saranno provocazioni di ogni genere, questo dobbiamo saperlo. Anche per una questione di consenso dell’opinione pubblica interna, che deve essere mantenuta in uno stato di paura permanente. Tutto questo è ovvio ormai anche se disumano e mostruoso. Ma tutto questo, vorrei sottolinearlo, e spero di essere ben capito, tutto questo è ancora politically correct, cioè comprensibile ai politici occidentali, all’opinione pubblica occidentale che, tutto compreso, lo considerano accettabile, come hanno considerato accettabile per tutti questi anni, l’occupazione della Palestina. Hillary Clinton, ripeto, ha già dichiarato che è pronta ad accettare questa logica. Questa è l’unica pace che Israele riesce a concepire e che può spiegare a tutto il resto del mondo.

Ma attenzione a non fermarsi a questo punto. Perché c’è un risvolto che non è affatto politicamente corretto, la cui mostruosità ancora sfugge persino a molti di noi, sicuramente a una parte della sinistra in Italia e a una larga parte, purtroppo devo dirlo, della sinistra europea, avendo partecipato ai dibattiti del gruppo socialista al parlamento europeo, avendo riscontrato che una metà del gruppo socialista è più o meno apertamente filo-israeliano. Del resto non aderiscono forse all’Internazionale Socialista Shimon Peres e Ehud Barak, quest’ultimo ministro della difesa del governo Olmert? Allora dobbiamo fare un altro passaggio concettuale, che ci aiuti a penetrare all’interno dell’ideologia sionista più estrema.

Ho parlato fino ad ora di una strategia israeliana “limitata”, strategia di conquista in “condizioni normali”, cioè psicologicamente accettabili da parte dell’opinione pubblica occidentale. Ma che cosa accadrebbe se improvvisamente le condizioni diventassero “anormali”? E che cosa significano condizioni internazionali anormali? Pongo la questione in altra forma. Chi pensa che i dirigenti israeliani possano accettare, un giorno qualsiasi, di perdere il monopolio assoluto della forza di cui dispongono, monopolio che hanno ottenuto in dono da Washington da molti anni? Qualcuno di noi pensa realisticamente che questa ipotesi sia possibile? Chi lo pensasse commetterebbe un errore fatale. Israele non accetterà mai di perdere il monopolio della forza militare atomica. Perché perdere quest’arma di ricatto potrebbe mettere Israele nella necessità di trattare. Perché loro hanno già calcolato anche l’eventualità di perdere l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti. Perché hanno perfino previsto che l’Europa potrebbe “tradirli”. Quella stessa Europa che essi disprezzano e odiano perché è in Europa che l’olocausto si è realizzato. Ecco perché il Libano del 2006, Gaza del 2008 non sono episodi chiusi in sé, per quanto mostruosi. Sono stati descritti come rappresaglie, ma sono mosse di una strategia ben precisa di carattere internazionale che avrà il suo apice con l’attacco all’Iran.

In tutti i casi sopra citati i sionisti hanno messo nel conto che si difenderanno da soli. Mai sentita la storia di “muoia Sansone con tutti i filistei”? Chi ha messo in cima ai suoi pensieri, ad ogni costo, la “terra promessa”, chi la ritiene un dono divino, anzi un ordine divino? Chi interpreta questo ordine come proveniente dal dio degli eserciti, potrebbe essere pronto ad affrontare Armageddon. Noi siamo di fronte a un gruppo di persone che, lasciato a se stesso, andrà fino in fondo, mosso da una ideologia fanatica, razzista, genocidaria. Ecco cosa intendo per “situazione anormale”: quando dal ragionamento politico si viene scaraventati fuori e si entra nell’invettiva religiosa, qualcuno si colloca “dalla parte di dio”. Avverrà quando Israele scatenerà l’attacco contro l’Iran.

Affermo questo perché non penso che l’Israele prigioniera del sionismo, cioè del fanatismo, rinuncerà al monopolio della forza. Ora anche qui i casi principali sono due: o Barak Obama avvia una politica di dialogo reale con Teheran, per esempio abbandonando esplicitamente e chiaramente l’opzione militare, offrendo all’Iran una sviluppo controllato dell’energia atomica a usi pacifici, proponendo un Medio Oriente libero dalle atomiche (probabilità molto bassa, per non dire inesistente), oppure Tel Aviv metterà in atto (da sola o con Washington, anche tirandola per i capelli con un’azione di sorpresa) un’offensiva per liquidare il potenziale armamento atomico e missilistico iraniano.

E questo momento avverrà presto, perché secondo i calcoli dei servizi segreti israeliani, l’Iran si doterà della bomba, come loro dicono, in uno spazio di tempo abbastanza veloce, due o tre anni. Cioè nel corso del primo mandato del presidente Obama.

Questo è quello che intendo per “situazione anormale”. Pochi in occidente se ne rendono conto, e, per questo, saranno colti di sorpresa. Eppure è a questo che si sta andando. Perché fermare l’Iran si può fare in uno dei due modi sopra descritto. Obama può prendere l’aereo e andare a Teheran a dire ai dirigenti iraniani che l’America ha rinunciato all’uso della forza nei loro confronti e propone una intesa per la gestione comune internazionale del programma nucleare iraniano? Se non può farlo, resterebbe solo l’opzione del bombardamento. Ma il pericolo per la pace mondiale ci sarebbe anche se lo facesse perché vorrebbe dire che Israele ha perduto l’appoggio incondizionato di Washington e deve prepararsi a trattare con i palestinesi. Cioè a rinunciare al dono del Dio di tutti gli eserciti.

Ricordo a voi che nei giorni che hanno preceduto immediatamente l’attacco di Gaza, il governo israeliano ha chiesto il permesso agli Stati Uniti di bombardare l’Iran, e lo ha chiesto con tre domande molto precise. La risposta del presidente Bush, che ha avuto paura, è stata “no”. Le richieste erano tre: dateci bombe ad alta penetrazione; dateci la possibilità di rifornire i nostri aerei in volo perché tornino alle basi di partenza senza toccare terra; dateci il permesso di passaggio dei nostri aerei sul territorio iracheno. Il portavoce di Bush ha risposto in modo singolare: “abbiamo risposto no alla prima domanda, no alla seconda domanda, e alla terza abbiamo risposto no no no”. Ma le domande sono state fatte, il che vuol dire che sono pronti. Anzi vuol dire che sono pronti loro, ma che sanno perfettamente che è pronta anche l’America, perché in caso di attacco all’Iran incomincerà la guerra di vaste proporzioni.

E’ in quella fase che la situazione sarà anormale, e sarà in quel momento che il popolo palestinese subirà il colpo decisivo senza che nessuno possa reagire. Perché saremo tutti in guerra e avremo altro cui pensare, e l’opinione pubblica europea penserà al petrolio che balzerà in alto, al riscaldamento in pericolo, agli ospedali al buio e ai negozi vuoti. Tutto questo sfugge a quasi tutti, ma fa parte del disegno. Saremmo veramente degli ingenui se pensassimo che chi ha mandato gli aerei a bombardare la gente di Gaza, con quella smisurata ferocia, pensi in altri termini. A questo scenario sono preparati. Anche perché c’è del genio in questa follia. E loro hanno sempre ragionato con grande acume e freddezza. Oggi con più freddezza di ieri. L’America è in crisi, il loro principale protettore è in crisi. E che ne sarebbe di Israele, della sua potenza militare, del suo monopolio della potenza se i i suoi protettori si trovassero improvvisamente non a cambiare idea, ma in difficoltà. Che accadrebbe se Israele si trovasse a non avere più gli alleati solidi che ha avuto in questi anni? Ecco perché gridano alla minaccia all’esistenza di Israele: sanno benissimo di non essere minacciati, ma pensano di perdere la protezione e di dover trattare. Quindi si preparano (è da decenni che si sono preparati) a giocare d’anticipo, a organizzare una guerra più grande. Ecco perché affermo che lo Stato d’Israele è diventato il pericolo principale per la pace del mondo, non solo per la sorte del popolo palestinese.

Ritorno dunque al punto di partenza. Bisogna che incominciamo a ragionare in termini di una battaglia politica per modificare non le posizioni di Israele (che può cambiarle solo se costretto dalla comunità internazionale) ma le opinioni della gente europea, italiana in primo luogo. Per fare questo consentitemi una notazione: noi facciamo le nostre assemblee, le nostre manifestazioni, quando ci riusciamo. Ma guardate che l’intera narrazione di ciò che è avvenuto in questa guerra l’hanno fatta loro. Noi abbiamo denunciato, ma le nostre voci sono piccole e flebili. Paradossalmente sono state più efficaci le immagini mostruose della gente innocente ammazzata che, in un modo o nell’altro, sono giunte nelle case italiane e che hanno parzialmente disinnescato la versione bugiarda che le accompagnava. Amici diamoci una svegliata, tutti insieme! O noi ci dotiamo di una televisione e di una radio nazionale che parli a un milione di persone al giorno, oppure dobbiamo sapere che non potremo difendere i palestinesi né difendere noi stessi. Né oggi, né mai. Quando dico tutti noi, dico tutta l’area della pace, quella che esisteva e che non esiste più, ma che potrebbe esistere di nuovo, se capissimo dove siamo.

Il che, lo ripeto, equivale a prendere atto che il racconto della storia contemporanea lo stanno facendo loro; che noi siamo stati espulsi dalla narrazione, noi non abbiamo modo di parlare a milioni di persone, non abbiamo voce. Quindi la questione dell’informazione deve diventare il punto principale della nostra attenzione. Possiamo farlo? Certo che possiamo farlo. Ma questi strumenti dobbiamo pagarceli di tasca nostra. Non ce li regalerà nessuno. Io, con parecchi altri giornalisti, ho messo insieme un progetto. Andate a vedere su PandoraTV (www.pandoratv.it). Ci consentirebbe di parlare, con pochissimo denaro, a centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Cosa aspettiamo? Ho chiesto: tirate fuori 100 euro a testa. Facciamo questa televisione per due anni. Che è il momento cruciale in cui si deciderà tutto. Volete darci una mano? Perché, se non facciamo questo, noi possiamo anche salvarci la coscienza e dire che abbiamo fatto molto, ma non avremo fatto quello che poteva farci vincere, o almeno non farci perdere ancora una volta.

Ricevo decine di mail ogni giorno, di giovani che mi chiedono spiegazioni, chiarimenti, che fanno domande. Quante migliaia ci sono, che pongono le stesse domande e che non mi scrivono? E a queste domande chi risponde? Siamo noi che dobbiamo andare da loro. Siamo noi che gli dobbiamo proporre la nostra spiegazione. Siamo noi che dobbiamo capire che non c’è più battaglia in questo momento, in questa fase della storia, se noi non capiremo che è sul terreno dell’informazione, della comunicazione, che si gioca la partita. La grande partita per evitare che altri bambini palestinesi siano bruciati, insieme ai nostri, insieme a noi.

4 Giulietto Chiesa, giornalista professionista, è stato corrispondente da Mosca per l’Unita e La Stampa, oltre che per il TG5, il TG1 e il TG3. Nel 2004 è stato eletto deputato del Parlamento europeo per la lista ‘Di Pietro Occhetto, società civile’, nella circoscrizione Nord Ovest (Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria). Nel corso del 2006, assieme a Megachip (www.megachip.info) associazione della quale è fondatore, ha promosso un gruppo di lavoro che indaga sulle vicende dellil settembre 2001, fortemente critico nei confronti delle inchieste tecniche e giudiziarie e delle interpretazioni correnti dei mass media. All’interno di questo gruppo di lavoro, Giulietto Chiesa è autore, insieme a Franco Fracassi, di Zero Inchiesta sull 11 settembre (www.zerofilm.info) un film documentario, presentato in anteprima nel 2007 nella sezione documentari al festival di Roma. Ha dato avvio, assieme a numerose altre grandi firme impegnate nel campo dell’informazione, dello spettacolo e della cultura, al progetto Pandora per una informazione libera (www.pandoratv.it) per realizzare uno strumento di comunicazione democratico e partecipato. Torna al testo.

Indice.


Il MIORSS Metodo/Modello Israeliano di Occupazione, Repressione /Rovina e Supremazia Sionista
di
Giorgio S. Frankel*


La devastante guerra che Israele ha inflitto a Gaza per tre settimane, a partire dallo scorso 27 dicembre 2008, è stata accolta, negli Stati Uniti e in Europa, da dichiarazioni politiche e da commenti editoriali largamente (e acriticamente) favorevoli alle tesi di Israele. Nondimeno, i media e l’opinione pubblica sono rimasti decisamente impressionati dall’impiego da parte di Israele di una potenza d’urto e di fuoco così massiccia contro un territorio, come Gaza, praticamente indifeso: un uso della forza davvero “spropositato” rispetto alla natura e alla portata della presunta “minaccia” posta dai rudimentali razzi Qassam, e simili, assolutamente imprecisi e di scarsa potenza, lanciati da Hamas contro Israele.

Non è, però, questa la prima volta che si rimane stupiti dal disinvolto impiego da parte di Israele di una forza “sproporzionata” contro i palestinesi o contro un paese arabo avversario. Nel 2006, questo fu proprio uno dei punti più controversi della breve guerra di Israele contro il Libano. Nel 2001-2002 persino l’amministrazione americana, con George W. Bush alla Casa Bianca, criticò apertamente Israele per la “forza eccessiva” impiegata contro l’insurrezione palestinese (intifada). Se si va indietro nel tempo ci si trova sempre di fronte questo stesso problema. Si pensi, ad esempio, ai micidiali raid israeliani contro il Libano meridionale, nel 1996, che provocarono la drammatica fuga, verso nord, di circa 250 mila civili libanese. E, ancora, l’invasione del Libano fino all’assedio di Beirut nel 1982, con un bilancio di circa ventimila morti civili.

Eppure, ogni volta, sembra che i media siano colti di sorpresa dalla forza spropositata impiegata da Israele e dalla crescente ferocia delle sue azioni militari, come se quella fosse la prima volta. E questo è un aspetto dell’immagine surreale del Medio Oriente proposta dai principali media occidentali e dalla propaganda israeliana. In realtà l’uso spropositato della forza è del tutto normale nella condotta della guerra da parte di Israele: è parte integrante della sua dottrina militare e del suo peculiare stile di guerra.

La stessa Gaza è stata più volte teatro, nel corso degli anni, di azioni militari israeliane particolarmente violente e distruttive. E negli ultimi tempi, in Israele, numerosi uomini politici, esponenti religiosi, politologi e opinionisti hanno costantemente teorizzato la necessità di infliggere a Gaza distruzioni ancora più estese e, in particolare, di colpire severamente e senza pietà la stessa popolazione civile perché “collettivamente responsabile” del “terrorismo” di Hamas e quindi meritevole di una dura “punizione collettiva”.

Lo scorso ottobre, un generale israeliano, in un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth, parlò di una nuova dottrina militare concepita per convincere il Libano a non permettere ad Hezbollah di riprendere il lancio di razzi Katiusha contro Israele. La “Dottrina Dahiya”, così chiamata dal nome di un sobborgo di Beirut raso al suolo dagli aerei israeliani durante la guerra del 2006, prevede l’uso di una forza deliberatamente “spropositata” contro località libanesi in risposta ad un lancio di razzi da parte di Hezbollah. «Useremo una forza spropositata contro ogni villaggio da cui saranno sparati colpi contro Israele e provocheremo immensi danni e distruzioni», disse il generale Cadi Eisenkot nella sua intervista. Negli stessi giorni, l’Institute for National Security Studies dell’Università di Tel Aviv, pubblicò alcuni studi che esaminavano più in dettaglio la “dottrina Dahiya”, con particolare riferimento alla distruzione massiccia di obiettivi civili ed economici. Uno di questi studi era significativamente intitolato: “Forza spropositata”. Non c’è alcun che di veramente nuovo in tutto ciò, e forse l’annuncio della “dottrina Dahiya”, presentata come una “nuova dottrina”, era poco più che un esercizio di guerra psicologica. In ogni caso, la “dottrina Dahiya”, ufficialmente teorizzata per il Libano, sembra aver avuto un’immediata applicazione a Gaza.

Eppure, nei giorni della guerra a Gaza, gli israeliani e molti commentatori filo israeliani in altri paesi hanno negato che Israele avesse davvero usato una “forza spropositata”. Allo stesso modo, le fonti israeliane, a cominciare dalla signora Tzipi Livni, ministro degli Esteri e leader del Kadima, principale partito della coalizione governativa, negavano risolutamente che a Gaza vi fosse una qualche “emergenza umanitaria”, come invece affermavano varie organizzazioni internazionali.

Insieme all’uso spropositato della forza, anche negare l’evidenza dei fatti fa parte del metodo israeliano. Nel giugno 2003, per esempio, dopo 32 mesi di intifada, quando i palestinesi avevano già subito grandi perdite umane ed estese distruzioni materiali e sociali a Gaza e in Cisgiordania, il generale Amos Gilad, coordinatore israeliano nei Territori occupati, in un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth (5 giugno 2003), se ne uscì con la raggelante dichiarazione secondo cui «rispetto agli standard mediorientali, Israele non [aveva] inflitto ai palestinesi alcuna sofferenza». In effetti, Israele nega risolutamente di aver mai commesso alcun torto ai danni dei palestinesi.

Anzi, periodicamente, la pubblicistica israeliana, e anche quella filo-israeliana in altri paesi, negano l’esistenza stessa dei palestinesi ovvero, negano che i palestinesi esistano in quanto specifica realtà sociale e nazionale, e affermano che essi sono semplicemente “arabi”. Ne deriva, tra l’altro, che essi non hanno alcun particolare diritto sulla Palestina, e quindi si può pensare, per il futuro, ad una loro espulsione e deportazione verso altri paesi arabi. Nel lessico politico israeliano la parola che viene usata per esprimere questo concetto è “transfer”, e si applica non solo all’idea di cacciare i palestinesi dei Territori occupati, ma anche ad un’eventuale, futura espulsione della minoranza araba di Israele, ormai apertamente auspicata da alcune forze politiche israeliane. Gli arabi cittadini di Israele sono ora il 20 per cento della popolazione totale.

Da noi, si usa il termine “pulizia etnica”, che però suscita aspre reazioni perché ritenuto offensivo e diffamante per Israele. In effetti, il termine “pulizia etnica”, per quanto oggettivo, può evocare altre situazioni (per esempio, la Iugoslavia di alcuni anni fa), per cui è facile polemizzare affermando che il paragone non calza.

Lo stesso vale per “apartheid”, termine che indica la politica di discriminazione e segregazione razziale condotta in Sudafrica quando il potere era in mano alla minoranza bianca, e che ora viene frequentemente usato per definire le discriminazioni di cui sono oggetto sia i palestinesi dei territori occupati sia gli arabi israeliani. L’analogia con l’apartheid è stata proposta, tra gli altri, da due premi Nobel per la Pace: l’ex presidente americano Jimmy Carter, e l’ex arcivescovo anglicano di Johannesburg, Desmond Tutu, che fu uno degli esponenti più illustri della resistenza non violenta alle segregazione razziale in Sudfarica.

Non pochi ebrei sudafricani hanno affermato che la politica seguita da Israele nei riguardi dei palestinesi dei Territori occupati ricorda effettivamente la politica di apartheid. Per il vero, altri ebrei sudafricani respingono con sdegno questa analogia. Bisogna aggiungere che, a suo tempo, la comunità ebraica sudafricana era divisa riguardo all’apartheid: numerosi ebrei combatterono nelle fila dell’ANC contro il regime di Pretoria, e altri condussero contro l’apartheid lunghe battaglie culturali, politiche e legali; ma, nel loro complesso, le comunità ebraiche sudafricane sostenevano il regime di apartheid, benchè cioè i nazionalisti afrikaner (i boeri) fossero decisamente antisemiti. Negli anni Settanta e Ottanta, quando il Sudafrica era sempre più isolato a livello internazionale proprio a causa dell’apartheid, Israele non ebbe remore a stabilire con esso una partnership strategica, che comprendeva, tra l’altro, una fitta collaborazione militare, forse anche nel settore delle armi nucleari.

Oggi, chi afferma che la politica israeliana è simile alla politica di apartheid viene subito accusato di antisemitismo. La parola “apartheid” indica però una condizione particolare, quella del Sudafrica ai tempi del regime bianco e anche se può benissimo essere impiegata per indicare, in senso lato, altre situazioni di discriminazione etnica, c’è sempre il rischio che, usandola, si possano provocare risposte indignate e polemiche che finiscono con lo spostare il focus dell’attenzione e del dibattito.

Un autore americano, per contestare l’analogia con l’apartheid ha detto: «Se davvero c’è l’apartheid, com’è che non c’è un Mandela palestinese?» Questa frase non solo dirotta il dibattito ma anche stabilisce un nuovo principio di morale politica, e cioè che le vittime di una qualche forma di oppressione (come, per l’appunto, quella subita dai palestinesi) hanno l’obbligo di sopportare ed essere santi. Detto per inciso, sembra però che gli stessi israeliani siano esentati dall’osservanza di questa norma.

Come si può ovviare?

Invece di qualificare certe politiche israeliane con parole che indicano situazioni che si sono verificate altrove e in passato, possiamo usare una terminologia focalizzata sulla condotta israeliana e sul presente. Perché paragonare Israele ad altri, usando termini come “apartheid” o “pulizia etnica” quando oggi Israele fornisce esso stesso uno standard mondiale di malvagità nella condotta verso un altro o altri popoli? Quale altro paese tiene sotto occupazione militare un altro popolo, privandolo dei suoi diritti e di gran parte delle sue terre e delle sue risorse, e questo da più di quarant’anni? Quale altro paese applaude regolarmente alle periodiche e cruente repressioni contro le popolazioni sotto occupazione? In quale altro paese si discute apertamente dell’opportunità o meno di deportare un’intera popolazione, assassinare i suoi leader, e annettersi il suo territorio? In quale altro paese si discute apertamente dell’opportunità o meno di privare della cittadinanza una minoranza etnica che costituisce il 20 per cento della popolazione residente?

Allo stesso modo, invece di parlare di “pulizia etnica”, e offrire il pretesto per polemiche e diversioni, si potrebbe usare la parola “transfer”, che vuol dire esattamente la stessa cosa e in più è assolutamente appropriata al caso, essendo una parola del lessico politico israeliano, largamente usata da molti decenni. Per esempio, pochi anni fa, l’allora premier israeliano Ariel Sharon accennò alla possibilità di revocare agli arabi israeliani la loro cittadinanza e “trasferirli” al futuro Stato palestinese, allora (come oggi) ancora del tutto ipotetico anzi, fantomatico. Nessuna capitale del mondo occidentale osò stigmatizzare tali propositi, benché fosse ormai largamente accettato, nel mondo, il principio della cittadinanza quale diritto inalienabile. E nessuno disse alcunché quando, nell’autunno del 2007, il ministro degli Esteri di Israele, signora Tzipi Livni, che tanto piaceva ai giornali occidentali, ribadì la stessa minaccia, sia pure in termini criptici, e per di più nel corso di una conferenza stampa internazionale insieme al suo omologo francese il tutto quasi alla vigilia della conferenza di Annapolis che avrebbe dovuto rilanciare il “processo di pace” israelo palestinese. La signora Livni tornò sulla questione, e in termini che questa volta non lasciavano adito ad alcun dubbio, nel 2008, dopo l’estate. Nel frattempo, la Livni aveva conquistato la leadership del Kadima (il principale partito della coalizione governativa) e aspirava a formare un nuovo governo al posto di quello guidato da Ehud Olmert, nel quale restava quale ministro degli Esteri. Immaginiamo che il paese A, in cui vive una numerosa comunità di ebrei, discuta di privarli della cittadinanza per poi “trasferirli” in Israele: l’indomani si riunirebbe, d’urgenza, il Consiglio di Sicurezze delle Nazioni Unite. E quel paese sarebbe oggetto di dure sanzioni internazionali.

Si può aggiungere che nel gennaio 2009 la Commissione elettorale israeliana decise di escludere dalle prossime elezioni legislative del 10 febbraio due dei tre partiti arabi presenti alla Knesset, il Parlamento unicamerale. L’unico partito “sionista” che votò contro questa esclusione fu il Meretz, una piccola formazione di centro sinistra. Tutti gli altri partiti “sionisti” votarono a favore, compresi il Kadima della signora Livni e il partito laburista guidato da Ehud Barak, ministro della Difesa. Quella decisione venne poi annullata dalla Corte Suprema.

Dunque, invece di usare la parola “apartheid”, che sembra turbare molta gente cui sembra impossibile paragonare Israele al Sudafrica bianco, si potrebbe usare un termine più lungo ma assai più appropriato: “Metodo/Modello Israeliano di Occupazione, Repressione/Rovina e Supremazia Sionista”, abbreviabile in MIORSS, che ha il vantaggio di mantenere il focus del discorso sull’evidenza delle azioni israeliane e sul loro carattere sistematico e anche sulla loro peculiarità.

Si può discutere all’infinito se certi aspetti della politica israeliana nei Territori occupati e nei confronti degli stessi arabi israeliani siano davvero paragonabile all’apartheid. E’ però innegabile che Israele occupa Gaza e la Cisgiordania (oltre al Golan siriano) da più di quarant’anni. E’ innegabile che questa occupazione è brutale e viola costantemente le più rilevanti Convenzioni internazionali. E’ innegabile che questa politica viene giustificata in nome del sionismo. Come è innegabile che le rivolte delle popolazioni sotto dominio israeliano vengono represse con metodi cruenti e devastanti che comportano la rovina umana, sociale, economica e fisica della Palestina. Ed è altresì innegabile che gli arabi israeliani sono vittime di sistematiche discriminazioni. Tra gli altri, lo hanno riconosciuto, pochi mesi fa, il premier Ehud Olmert, e pochi anni or sono anche l’allora Capo dello stato, Moshe Katsav, mentre da tempo alcuni leader della destra, a cominciare da Avigdor Lieberman, chiedono apertamente e chiassosamente di prendere nei confronti degli arabi israeliani misure decisamente persecutorie.

Parlando di MIORSS, bisogna avere cura di specificare che questo “metodo/modello” comprende una vasta gamma di azioni: esproprio, colonizzazione, cantonizzazione, arbitrio, distruzione di infrastrutture e proprietà, umiliazione, punizioni collettive, esecuzioni extra-giudiziarie, tortura, uccisioni di civili e, in particolare, di minori, e progressivo annientamento della società palestinese. L’elenco non è completo. L’importante è sottolineare che tutti questi termini corrispondono a situazioni reali, oggettive, regolarmente documentate dalla stessa stampa israeliana e da organismi internazionali, e che configurano una politica sistematica.

A ciò si aggiunge l’estrema sofisticazione dei metodi propagandistici israeliana, e quindi la capacità di Israele di manipolare, controllare, e comunque influenzare profondamente le informazioni sul Medio Oriente e il relativo dibattito politico. La supremazia di Israele a livello non solo regionale ma anche globale si basa in larga misura sulla sua presunta forza nucleare, compresa la capacità di proiettare tale forza molto al di là dei confini del Medio Oriente, col che Israele può esercitare una “deterrenza atomica” a livello quasi globale, con tutto ciò che ne consegue.

Il riferimento al “sionismo”, nella denominazione MIORSS, è dovuto a numerosi fattori. Per prima cosa, l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania e la “redenzione” di quelle terre cioè la politica di espropriazione dei palestinesi e di creazione di colonie ebraiche nei territori occupati, attivamente e sistematicamente condotta per quarant’anni da tutti i governi israeliani sono giustificate, in Israele (e anche in varie comunità ebraiche fuori Israele), come una realizzazione degli obiettivi del sionismo. Nell’ambito della World Zionist Organization, l’organizzazione sionistica mondiale, opera una “Settlement Division”, cioè un’apposita divisione che coordina la raccolta di fondi e altre attività relative agli insediamenti ebraici (“settlement”, in inglese) nei territori palestinesi occupati.

Inoltre, il sionismo è l’ideologia di fondo dello Stato di Israele e della sua politica di discriminazione nei confronti dei palestinesi dei Territori occupati e della minoranza araba di Israele. Il sionismo è anche un criterio di legittimità politica com’è il caso quando si distingue tra partiti sionisti e partiti non sionisti, i quali ultimi (in virtù di una legge non scritta ma comunque rispettata) non possono far parte di coalizioni governative. Un leader della destra israeliana dice che Israele deve essere riconosciuto come “Stato ebraico e sionista”.

Nella denominazione MIORSS si fa riferimento al concetto di “supremazia sionista” per due motivi principali. Il primo è che il sionismo cerca di acquisire la totale supremazia nell’ebraismo mondiale, anche se ancora esistono numerosi gruppi di ebrei non sionisti e anche organizzazioni ebraiche attivamente anti-sioniste. La propaganda sionista identifica il sionismo con l’ebraismo, per cui la critica al sionismo viene definita come una sorta di antisemitismo. Se la critica viene da un ebreo, quell’ebreo, non potendo essere definito antisemita, viene accusato di “odio ebraico di sé”, una nuova malattia mentale inventata dai vertici sionisti per eliminare qualsiasi forma di critica e di opposizione. Le organizzazioni ebraiche nel mondo sono sempre più focalizzate a sostegno della politica di Israele. In molte sinagoghe americane viene esposta, insieme alla bandiera americana, anche quella israeliana. D’altra parte, negli Stati Uniti la maggioranza degli ebrei non sembra condividere del tutto la politica assolutamente filo-israeliana e di estrema destra seguita dalle principali organizzazioni ebraiche nazionali.

Un secondo aspetto della “supremazia sionista” è che, nel Medio Oriente, Israele non vuole in realtà una situazione di pace e coesistenza, ma vuole imporre la sua superiorità ed il suo predominio, cioè la sua supremazia, a livello regionale. La politica della “guerra permanente” è funzionale con questo obiettivo e consente altresì la costante mobilitazione dell’ebraismo mondiale a sostegno di Israele. Si parla di “modello israeliano di occupazione e repressione ecc. ecc.” perché i metodi sviluppati da Israele nei Territori occupati vengono applicati in altre zone del mondo da regimi repressivi (in passato, ad esempio, da alcune dittature latino-americane) e soprattutto dalle forze americane (e, forse, di paesi alleati) in Iraq e altrove, nel quadro della cosiddetta “guerra globale al terrorismo”.

Valga a tal proposito questa citazione tratta da un articolo scritto nel 2003 dal politologo israeliano, docente universitario e giornalista, Vittorio Dan Segre, di origine italiana, che per molti anni è stato corrispondente da Israele prima per il Corriere della Sera e poi per Il Giornale:
“Occorre guardare e difendersi [dal terrorismo internazionale] con mezzi e strategie differenti dal passato. [...] A seguito dell’intifada, Israele è diventato il principale laboratorio di tecniche e strategie anti-terroriste militari, psicologiche, di intelligence. [...] Lo ha fatto con mezzi considerati normali e giustificati per un regime autoritario [...] ma fortemente criticati per un paese democratico: eliminazione di capi terroristi, costruzione di muri di separazione per centinaia di chilometri; rete di posti di blocco che impediscono i movimenti della popolazione civile palestinese; punizioni collettive con lunghi coprifuochi e distruzioni di case, piantagioni, infrastrutture ecc.” ()
Nel frattempo, nel Libano (2006) e a Gaza sono state messe a punto varie tecniche di bombardamento aereo, nuovi mezzi (come i minuscoli aerei senza pilota che tengono i palestinesi sotto costante) e nuove armi anti-uomo come le bombe DIME.

Bisogna qui ricordare che, come appare chiaro dal testo di Segre, secondo l’odierna ideologia politica di Israele, e per buona parte della pubblicistica israeliana e filo-israeliana, l’insurrezione dei palestinesi contro l’occupazione israeliana nulla ha a che fare con l’occupazione ma è solo un aspetto locale del cosiddetto “terrorismo internazionale”. Le tesi israeliane sul terrorismo hanno dato notevole consistenza ad alcune argomentazioni dei neocon americani consentendo l’uso indiscriminato del termine “terrorista” per indicare qualsiasi possibile nemico, e giustificando altresì eventuali politiche volte all’annientamento fisico e sociale di qualsiasi paese o forza politica qualificati come “terroristi”, e la negazione di qualsiasi diritto a persone e gruppi sociali marchiati con tale accusa.

Il MIORSS in quanto “modello” applicato o applicabile ad altre situazioni conflittuali potrebbe presto comportare la definizione e l’adozione, da parte di alcune potenze occidentali, di “nuove regole della guerra” che consentiranno l’impiego massiccio e indiscriminato della forza contro popolazioni civili, giustificando stermini di massa in nome della “guerra al terrorismo”.

Durante e dopo la guerra in Libano del 2006, e con l’aggravarsi della crisi di Gaza, dapprima nel 2007 e poi nel 2008, fino alla guerra vera e propria iniziata da Israele il 27 dicembre 2008, un tema fondamentale della propaganda israeliana, e delle elaborazioni teoriche di alcuni politologi israeliani o filo-israeliani, e anche di non pochi esponenti religiosi, è stato quello della liceità e della necessità di condurre attacchi devastanti contro la popolazione civile se in mezzo ad essa si annidano i “terroristi”, che per questo fatto vengono indicati come i veri responsabili delle vittime civili.

In breve, nella versione più diffusa di queste teorie, i civili avversari possono essere sterminati se fanno (anche involontariamente) da “scudo umano” ai “terroristi”. In altre versioni, con speciale riferimento al caso di Gaza, si parla esplicitamente di “responsabilità collettiva” della popolazione, in quanto essa ha votato volontariamente e sostiene Hamas, e per questo può essere “legittimamente” oggetto di attacchi indiscriminati. Questo argomento non è un occasionale exploit della “propaganda” di guerra dovuto alle circostanze. In realtà, la teoria della liceità degli attacchi, anche massicci, contro la popolazione civile è in costante elaborazione e sviluppo, e fa ormai parte della corrente ideologia politica israeliana e della sua dottrina militare.

Dopo la guerra in Libano (2006), alcuni accademici israeliani e americani hanno costituito un gruppo di ricerca volto all’elaborazione di “nuove regole della guerra” per combattere il “terrorismo”. Poiché ad evidenza non si tratta della ricerca di nuove “regole” tattiche di combattimento, è molto probabile che questo gruppo di studiosi, sulla base dell’esperienza acquisita in Libano e nei Territori palestinesi occupati, cerchi il modo di teorizzare una giustificazione morale, politica e giuridica di futuri stermini di massa in nome della sacrosanta “guerra al terrorismo”. Ciò significa che, domani, intere popolazioni (probabilmente musulmane) rischieranno di essere spazzate via, e nessuno oserà dire alcun che.

Una compiuta analisi e discussione del “Modello Israeliano di Occupazione, Repressione e Supremazia Sionista” richiederebbe, qui, troppo tempo. Per brevità, selezioniamo qui nove caratteristiche principali sotto la formula “Supremazia in G D7 P”, trattandosi di sette parole che iniziano per “D”, una per “G” e una per “P”.

La parola in “G” è “Globalizzazione”, che però poco ha a che fare con la globalizzazione economica e che qui indica tre diversi fenomeni.

Il primo è l’operazione propagandistica con la quale Israele è riuscito a far apparire l’insurrezione palestinese come una manifestazione del presunto “terrorismo globale” che minaccerebbe l’Occidente. Quindi, la guerra israeliana ai palestinesi diventa un “aspetto locale” della “guerra globale al terrorismo”. Questa operazione propagandistica è stata resa possibile dall’11 settembre. Le sue conseguenze, per i palestinesi e altri popoli mediorientali, rischiano di essere catastrofiche.

L’11 settembre segnò una svolta forse irreversibile nel conflitto israelo-palestinese e, in generale, nella questione arabo-israeliana. La seconda intifada palestinese era in corso da quasi un anno, e la repressione israeliana era particolarmente dura.

Subito dopo l’11 settembre, G. W. Bush propose una sorta di grande alleanza anti-terrorismo tra gli Stati Uniti, i paesi arabi “moderati” e possibilmente anche Israele. Come prima risposta, Ariel Sharon, allora Primo ministro di Israele, minacciò di far fallire il progetto affermando che a farne le spese sarebbe stato Israele, che si sarebbe poi trovato costretto ad una normalizzazione con gli arabi.

Sharon lanciò all’opinione pubblica americana un messaggio articolato su tre concetti chiave:
• “Il terrorismo palestinese è un aspetto locale dell’offensiva globale del terrorismo”; •“Israele e gli Stati Uniti combattono la stessa guerra contro lo stesso nemico”;
•“Yasser Arafat è il nostro Bin Laden”.
Queste argomentazioni, per quanto grossolane e false, hanno avuto in breve tempo un immenso successo propagandistico, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Esse ormai condizionano le dichiarazioni di molti uomini politici occidentali ed il modo in cui i media trattano la questione israelo palestinese.
Si può ben dire che il successo della “dottrina Sharon” abbia segnato la condanna a morte dei palestinesi. E comunque essa consente di disgiungere la lotta armata palestinese, ovvero il “terrorismo” palestinese, dall’occupazione israeliana. Ne deriva che i palestinesi sono “terroristi” per loro innata malvagità o, come ha suggerito (retoricamente) il ministro israeliano Ze’ev Boim, per una loro malformazione genetica!

In un documento italiano di sostegno a Israele pubblicato nel novembre 2001 e sottoscritto da alcuni intellettuali, si legge tra l’altro:
“I terroristi fondamentalisti, che da anni compiono stragi tra la popolazione civile israeliana e che l’11 settembre hanno dimostrato a tutto il mondo di quali orrori sono capaci [...]”**
Dunque, il concetto proposto è la piena connessione politica, operativa, e financo personale, tra i combattenti o “terroristi” palestinesi dell’intifada e gli esecutori e mandanti degli attentati dell’11 settembre. Gli uni e gli altri sono le stesse persone. Così, le operazioni militari condotte da Israele contro i palestinesi diventano un aspetto della “Guerra globale al terrorismo”.

E’ importante sottolineare che questo documento, e altri dello stesso periodo, riguardo alla questione palestinese definiscono “terroristi fondamentalisti” non gli uomini di Hamas, ma Yasser Arafat e la sua Autorità Nazionale Palestinese, che a quell’epoca, in realtà, erano odiati e combattuti dalle organizzazioni islamiche palestinesi.

Inoltre, nel documento del novembre 2001 si definisce la repressione dell’intifada come una guerra di sopravvivenza. Il documento afferma, infatti:
“Israele difende il proprio diritto a esistere come stato indipendente e sovrano entro confini sicuri e riconosciuti, nel rispetto dei principi di democrazia, di libertà e di riconoscimento reciproco ...”
Pochi giorni più tardi, nel dicembre 2001, il Consiglio Direttivo delle Associazioni Italia-Israele, in un comunicato ancor più duro, sottolineò quello che, a suo dire, era un dato di fatto, e cioè che:
“Il terrorismo islamico, come l’11 settembre ha tragicamente dimostrato, non è una minaccia rivolta solo contro Israele, ma contro l’intero Occidente e l’intera civiltà umana: esso non desidera solo la distruzione di Israele, ma dell’intero mondo moderno [...]”
Anche in questo documento, nella categoria del “terrorismo islamico” viene inclusa in toto l’Autorità Nazionale Palestinese, con un’ulteriore aggravante: poiché il terrorismo islamico vuole distruggere il mondo intero, e poiché l’Autorità azionale Palestinese è parte integrante del “terrorismo islamico”, ne possiamo trarre la logica conseguenza, e cioè che i palestinesi sono nemici dell’umanità, e in quanto tali possono essere sterminati senza pietà.

Il documento conclude affermando:
“La risposta armata che il governo israeliano deciderà di dare contro i terroristi sarà, in ogni caso, eticamente e politicamente legittima, anzi dovut[a].”
Su questo punto, non occorrono forse ulteriori commenti. Sempre nell’ambito della formula “Supremazia in G D7 P”, altri aspetti della “Globalizzazione” sono, come si è visto sopra, lo sviluppo, da parte di Israele, di “dottrine di guerra” applicabili alla cosiddetta “guerra al terrorismo”.

A ciò va aggiunto il fatto che, nella sua politica estera, Israele persegue interessi “globali”. Si veda, ad esempio, il coinvolgimento di Israele nello scacchiere strategicamente cruciale del mar Caspio, e in particolare il suo ruolo in Georgia e in Azerbaigian, due paesi chiave nella nuova strategia e della competizione globale per il controllo delle risorse petrolifere. Inoltre, negli Stati Uniti e in Europa vi sono forti istanze (che però si manifestano con scarsa pubblicità) a favore dell’ingresso di Israele nella NATO. In breve, Israele è diventato un elemento strutturale (strategico, economico e tecnologico) del “nuovo ordine mondiale” basato sulla globalizzazione economica e sulla potenza degli Stati Uniti. Questo spiega, in parte, il crescente consenso che in Occidente viene manifestato a Israele, almeno sul piano retorico. Affermazioni come “bisogna garantire a Israele il suo diritto all’esistenza” (che peraltro nessuno, in Medio Oriente, è davvero in grado di minacciare) e altre formule filo-israeliane che vengono ripetute in modo ormai quasi rituale, sono probabilmente solo parole d’ordine della neo-lingua espressa dal super potere globale.

Allo stesso modo, l’accusa di “antisemtismo”, quando viene usata in modo indiscriminato e relativamente ad una gamma sempre più ampia di opinioni e atteggiamenti che nulla hanno a che fare col vero antisemitismo, sembra ormai l’equivalente delle accuse di “filo-comunismo” o “filo-sovietismo” usate in Occidente ai tempi della Guerra fredda e del maccarthismo (e delle simmetriche accuse inventate nei paesi del blocco sovietico ai tempi dello stalinismo), per screditare e delegittimare singole persone e gruppi e, in linea generale, per focalizzare l’opinione pubblica verso il pericolo di un nemico interno. Bernard Heny Lévy, filosofo à la page del nuovo super potere globale (potere peraltro già in declino) ha teorizzato, ai tempi della disastrose guerre di George W. Bush jr., che “l’antiamericanismo” è una forma di “antisemitismo”, e ha poi successivamente allargato il significato del suo peculiare concetto di antisemitismo per includervi persino “l’antisarkozismo”, cioè la critica alla politica del presidente francese Nicolas Sarkozy. La nuova retorica filo-israeliana continua ad allargare il significato della parola “antisemitismo” nel suo uso quale invettiva politica. Nel 2005, Emanuele Ottolenghi, allora docente al St. Antony’s College di Oxford, scrisse che «l’odio quasi irrazionale [degli europei] per [il premier israeliano Ariel] Sharon [stava] portando l’antisionismo a nuovi livelli». L’articolo di Ottolenghi era una lunga requisitoria contro la presunta «ossessione» e l’altrettanto presunta «critica maniacale» degli europei nei confronti di Sharon, col che questa «crescente legittimazione dell’antisionismo [aveva] contribuito ad una ripresa dell’antisemitismo europeo»(). In breve, anche l’anti-sharonismo, cioè la critica alla politica di Sharon, sarebbe una forma di antisemitismo.

Bisogna anche tener conto di un elemento sin qui largamente ignorato, o quasi, dai media occidentali, e cioè che (secondo valutazioni non confermate ma largamente condivise a livello internazionale) Israele dispone di una notevole potenza nucleare, di gran lunga superiore, quanto a numero di testate e capacità di “proiezione” della forza, a quanto gli servirebbe ai fini di una difesa da possibili minacce mediotrientali. Si può supporre che, in virtù di questa notevole potenza, Israele può esercitare una “deterrenza” nuclearepraticamente su scala globale. In altre parole, le potenze del mondo, grandi e piccole, sono anche probabilmente condizionate da una possibile larvata minaccia nucleare israeliana: “Se dovessimo soccombere, vi trascineremo con noi!” Negli anni Ottanta si cominciò a definire l’ipotetica strategia nucleare israeliana col significativo termine di “Dottrina Sansone”.

La sette “D” stanno per: depredazione, distruzione, degradazione, deportazione, demonizzazione, demografia e, infine, determinazione.

Vediamo, brevemente, cosa vogliano dire.

Depredazione indica la confisca di terre e proprietà arabe condotta dopo il 1948, ai danni non solo degli arabi fuggiti durante la guerra (e ai quali venne poi impedito di tornare) ma anche di molti arabi rimasti in Israele. Lo stesso è accaduto in Cisgiordania dopo la guerra del giugno 1967. Le terre espropriate ai palestinesi e assegnate ai coloni ebrei, o comunque destinate all’uso di Israele, si estendono per più del 40 per cento della superficie totale della Cisgiordania. Sono anche le terre migliori e con le più importanti risorse idriche.

Distruzione è quella non solo di centinaia di villaggi palestinesi, ma anche della storia e del tessuto sociale di un popolo. La distruzione è iniziata nel 1948 e prosegue ai giorni nostri. Israele ha probabilmente avuto un ruolo molto importante nell’istigare gli Stati Uniti ad attaccare e distruggere l’Iraq. Distruzioni su vasta scala sono state minacciate (e auspicate) anche per l’Iran, col pretesto della sua ipotetica (e ancora fantomatica) bomba atomica. A ciò si aggiunge il potenziale distruttivo della forza nucleare israeliana e il fatto che Israele può esercitare un’effettiva minaccia nucleare su scala quasi globale, grazie alla sua capacità di colpire obiettivi molto lontani dai confini del Medio oriente.

Degradazione indica come i palestinesi sono visti e trattati dagli israeliani. Nel lessico politico israeliano, e nella prassi dell’occupazione, i palestinesi sono quasi esseri sub umani, che si possono trattare con arbitrio e ai quali si possono negare diritti elementari. Essi possono essere uccisi e torturati con impunità, possono essere sottoposti a punizioni collettive, umiliati ai posti di blocco, affamati (come a Gaza) da un assedio economico, privati di assistenza medica e lasciati senza speranze per il futuro. E anche derisi. La derisione da parte di una certa pubblicistica israeliana e/o filo israeliana consiste nell’additare i palestinesi come “vittimisti” che si piangono addosso.

Deportazione. Nel lessico europeo, è una parola agghiacciante che evoca molti orrori della Seconda guerra mondiale. Nel lessico politico israeliano si usa la parola “transfer”, che vuol dire la stessa cosa. Un tempo era un concetto tabù, sostenuto da pochi gruppi estremisti. Oggi si può parlare senza tanti problemi e senza tanti complessi del futuro “transfer”, cioè della deportazione dei palestinesi dei territori occupati e degli arabi israeliani.

Demonizzazione: non solo dei palestinesi ma anche degli arabi e, più in generale, dei musulmani, tutti dipinti come “nuovi nazisti” il cui unico scopo sarebbe la distruzione di Israele. La demonizzazione riguarda anche coloro che in vario grado osano crtiticare la politica di Israele e sui quali incombe l’accusa automatica di antisemitismo.

Demografia. Da noi la parola “demografia” indica una disciplina scientifica. Nel lessico politico israeliano, “demografia” indica le stime e le proiezioni delle dimensioni della popolazione ebraica di Israele in rapporto alla popolazione arabo israeliana e a quella palestinese. In breve, la demografia ha a che fare con la politica razziale. Sempre nel lessico politico israeliano, la crescita della popolazione araba, in Israele e nei Territori occupati, viene generalmente indicata come una “bomba demografica” o una “minaccia demografica”. Questo per dire, con un linguaggio apparentemente asettico, che gli arabi, sia quelli israeliani sia quelli


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dei Territori, sono una vera “minaccia esistenziale” a Israele in quanto Stato ebraico. E molti ideologi affermano che Israele deve reagire a questa “minaccia” con mezzi sempre più estremi. Alcuni critici israeliani hanno affermato, ironicamente, che «Israele non è uno stato democratico bensì uno stato demografico», cioè razzista. Qualcun altro, però, ha scritto, seriamente, che in Israele la «demografia deve avere la priorità sulla democrazia».

Determinazione. Gli israeliani hanno sin qui dimostrato di essere assolutamente risoluti, cioè determinati, a non cambiare politica, a proseguire nella loro guerra perpetua. Il controllo dei Territori va mantenuto ad ogni costo, cioè costi quel costi, anche se ciò comporta un allargamento del conflitto. Per mantenere il controllo di Gaza e della Cisgiordania (oltre al Golan), gli israeliani hanno rinunciato all’opzione della pace in Medio Oriente e alla possibilità di convivere e cooperare coi paesi arabi. Non solo hanno quasi distrutto il popolo palestinese, e in parte anche quello libanese, e gravemente colpito altri paesi vicini, oltre ad aver spinto gli Stati Uniti a distruggere l’Iraq e poi cercato di provocare una guerra con l’Iran, ma hanno anche sacrificato la pace interna, il benessere del loro paese, la vita e le prospettive dei loro figli, hanno compromesso i loro rapporti internazionali e la futura posizione di Israele nel mondo, e dimostrato di essere disposti ad entrare in conflitto con chiunque.

Per concludere, infine, la “P” come Propaganda. Questa “voce” comprende una vasta gamma di concetti e fenomeni. Di molti punti si è già fatto cenno. Nella Propaganda rientra, in primo luogo, la costante riscrittura della storia e del presente per adeguarli alla “narrativa” israeliana. Un altro aspetto cruciale della Propaganda è la palese mancanza di remore ad usare l’Olocausto, e le sue vittime, come legittimazione di Israele, e soprattutto come giustificazione della politica condotta da Israele nei confronti dei palestinesi, in particolare, e degli arabi, in generale. L’Olocausto, e il ricordo delle ingiustizie e delle persecuzioni del passato, alimentano un perdurante rancore ideologico verso il mondo in generale e, quando occorre, verso l’Europa in particolare.

Un terzo aspetto cruciale della Propaganda è il formidabile sviluppo, soprattutto negli Stati Uniti, di un formidabile apparato di organizzazioni filo israeliane attive in vari ambienti socio professionali allo scopo di mobilitare il mondo ebraico, condizionare l’opinione pubblica e influenzare i media ed il mondo politico.

L’insieme di queste organizzazioni è quella che viene chiamata la “Lobby filo israeliana”.

Tutto ciò ha contribuito, tra l’altro, alla formazione, crescita e articolazione di una vera e propria “neo lingua” orwelliana capace di influenzare i commenti, le analisi e persino la descrizione degli eventi mediorientali.

Lo sviluppo ed il potenziamento di questa macchina propagandistica possono portare, in Israele, alla formazione di un regime quasi totalitario e ad una crescente “omogeneizzazione” culturale e politica dell’ebraismo mondiale che, se prolungata nel tempo, può avere effetti quasi irreversibili. Il successo della macchina propagandistica può alimentare nella leadership sionista un illusorio senso di potenza.

D’altra parte sembra ormai evidente che la propaganda e l’ideologia israeliane e filo¬israeliane sono sempre più cristallizzate e fossilizzate, e ormai sulla via di ridursi alla produzione di slogan e rozze invettive. A ciò bisogna aggiungere il palese declino, forse irreversibile, della potenza americana, principale pilastro del potere israeliano in Medio Oriente. Quindi non è inverosimile che nel prossimo futuro la potenza israeliana possa subire un drastico ridimensionamento, reso inevitabile anche dalla crescente mediocrità della sua leadership politica. Vi è tuttavia il pericolo che quella stessa leadership intenda infiammare il Medio Oriente prima che la potenza israeliana venga messa in dubbio.


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(*) Giorgio S. Frankel si occupa di Medio Oriente, petrolio e industria aerospaziale. Giornalista professionista, collabora a “Il Sole 24 Ore”, “Il Mulino”, il “Corriere del Ticino” e altri periodici.

(**) Vittorio Dan Segre, “Guerra imperiale o guerra epocale? Riflessioni a margine della nuova fase della lotta contro il terrorismo”, Corriere del Ticino, Lugano, 28 novembre 2003; l’articolo è tratto dal testo di una conferenza tenuta da Segre in ambito accademico.


(***)Suzanne Gershowitz, Emanuele Ottolenghi, “Europe’s Problem with Ariel Sharon”, Middle East

Quarterly, Fall 2005, The Middle East Forum, Philadelphia (PA, Usa).

Indice.



Panel 2: Responsabilità e complicità dell’Europa


La catastrofe dell’informazione occidentale La fabbrica del falso nella guerra contro Gaza di Vladimiro Giacché*

“La tortura dei corpi è meno efficace della manipolazione delle menti”

M. Castells, Sapere e poteri. Informazione e cultura nella network society, Milano, Università Bocconi Editore, 2008, p. 11

“So quello che leggerò domani sui vostri giornali. Ma nessuna autodifesa, nessuna esigenza di sicurezza. Tutto questo si chiama solo apartheid e genocidio”

Mustafa Barghouthi, “Le menzogne di pace e la verità dei raid”, il manifesto, 31 dicembre 2008

“Se lasciamo stare la tv italiana, che è di fatto un bollettino israeliano, e si guarda Al Jazeera e Cnn la guerra ha un impatto enorme”

M. D’Alema, dichiarazioni riportate su la Repubblica, 13 gennaio 2009

L’attacco israeliano contro Gaza iniziato il 27 dicembre 2008 e (provvisoriamente) conclusosi il 17 gennaio 2009 costituisce uno dei migliori esempi di una verità più generale: nel mondo contemporaneo la propaganda, la guerra delle parole è ormai parte della guerra stessa. La quasi generalità dei mezzi d’informazione del nostro Paese ha combattuto in prima persona questa guerra, schierandosi con decisione dalla parte di Israele. È importante prendere atto di questo. Ma a mio avviso è ancora più importante esaminare quali meccanismi sono entrati in gioco nella disinformazione su questa guerra.

In un libro pubblicato qualche mese fa, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella

politica contemporanea, esaminavo le tecniche di negazione, distorsione e neutralizzazione della verità oggi più praticate.’ Nel porre a confronto quelle tecniche con i resoconti giornalistici e televisivi sugli eventi di Gaza, ho dovuto constatare come di quelle tecniche si sia fatto un uso pressoché completo: nessuna tipologia manca all’appello. Vediamo.


1. La verità mutilata

“Basta tacere su quel che è avvenuto ‘prima’ perché la reazione degli offesi sembri una barbarie”

Murid al Barghouti, “Testimone di rovine”, intervista di G. Colotti, il manifesto, 6 gennaio 2007

La verità viene mutilata quando nel trattare di un evento non si fa menzione del contesto in cui si colloca, delle circostanze, di ciò che l’ha preceduto. In questo modo si racconta una mezza verità. E, come ammoniva il banchiere Enrico Cuccia, “una mezza verità è una bugia intera”.

Nel caso della guerra contro Gaza, la storia si è fatta iniziare con il lancio dei missili Qassam da parte di Hamas. Le cose però non stanno affatto così. Per diversi motivi.

A) La storia recente inizia con il blocco totale della Striscia di Gaza da parte di Israele, che da 18 mesi ha trasformato Gaza in una prigione a cielo aperto. 2 Il blocco economico israeliano risale in verità alle elezioni del 2006, allorché Hamas vinse le elezioni conquistando oltre il 75% dei seggi nel parlamento palestinese, ma è divenuto totale nel giugno 2007. A questo proposito va ricordato che, secondo le leggi internazionali,


‘V. Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Roma, DeriveApprodi, 2008. Si veda in particolare il cap. 1, “Fenomenologia della menzogna “, pp. 9 37.

2 La storia più lontana inizia nel 1967: da quell’anno infatti la Striscia di Gaza è sotto occupazione diretta o indiretta.
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“imporre un assedio e un blocco a una popolazione civile è un atto di guerra, che mira a sottomettere la volontà degli assediati”.3 Per quanto riguarda le conseguenze economiche di questo blocco, si può credere a quanto scrive il Financial Times: “la chiusura continuata della Striscia di Gaza da parte di Israele ha strangolato le imprese che commerciavano in materie prime, privandole della possibilità di inviare beni e prodotti agricoli all’estero. Le conseguenze sono state catastrofiche: il 98 per cento delle imprese erano chiuse già prima dell’inizio dell’attacco, secondo la Banca Mondiale”.4 Va notato che il blocco non è stato alleggerito da Israele neppure dopo la sigla della tregua con Hamas nel giugno 2008. Al contrario, a partire da novembre il blocco è stato ulteriormente inasprito, riducendo drasticamente l’approvvigionamento di cibo e combustibili.5

B) Si è detto che la “tregua” era stata rotta da Hamas con il lancio dei suoi razzi. Non è vero. La tregua è stata rotta da un attacco aereo israeliano avvenuto il 4 novembre 2008 (la notte delle elezioni negli Stati Uniti d’America), in seguito al quale sono stati uccisi sette palestinesi.6 Da allora sono stati intensificati anche i lanci di razzi da parte dei palestinesi, che erano pressoché cessati. Secondo un grafico del ministero degli esteri israeliano, i lanci erano stati: 87 a giugno, prima della tregua iniziata il 19 di quel mese; 1 a luglio, 8 ad agosto, 1 a settembre, 2 in ottobre. Dopo l’attacco del 4 novembre si sono avuti 126 lanci.7

C) La tregua non è stata rotta dai palestinesi neppure da un punto di vista formale: semplicemente, non è stata confermata dai palestinesi (da tutte le fazioni palestinesi, non soltanto da Hamas) quando, il 19 dicembre, è scaduta. La ragione della mancata riconferma è semplice: era stata rispettata solo da loro. In proposito, vale la pena di ricordare che durante la tregua Israele ha ammazzato 25 palestinesi, senza che nessun israeliano venisse ucciso. Di più: l’accordo di tregua prevedeva l’apertura di tutti i punti di passaggio da Israele a Gaza, condizione mai rispettata da Israele.’ Anche la disponibilità di Hamas a prolungare la tregua per 10 anni, e più in generale a una soluzione politica basata sull’accettazione dei confini di Israele del 1967, è stata semplicemente ignorata da parte israeliana.’


È quindi chiaro che se si fa iniziare la storia con il lancio dei missili Qassam si mette il primo

tassello di una narrazione falsa: l’attacco israeliano è una risposta al lancio di missili da parte di Hamas; gli israeliani si difendono, i palestinesi sono gli aggressori.


Purtroppo, questa è precisamente la versione dei fatti che nei primi giorni dell’attacco israeliano è passata nell’opinione pubblica. Anche molti di coloro che si dichiaravano contrari all’aggressione militare di Israele parlavano di “eccesso di difesa”, di “reazione sproporzionata”. O, come ha fatto Michele Serra in un corsivo pur critico nei confronti di Israele (per la “sproporzione”), di “ottime ragioni da mettere in campo” per gli israeliani.’0 Più in generale, quasi tutte le dichiarazioni politiche


J. Huai, “Mattatoio Gaza “, il manifesto, 16 gennaio 2009; corsivo mio.

T. Buck, “Attacks devastate basic infrastructure”, Financial Times, 9 gennaio 2009.

G. Rachman, “Israel’s self defeating Gaza offensive”, Financial Times, 5 gennaio 2009. 6 R. Khalaf, Financial Times, 29 dicembre 2008.

Grafico del ministero degli esteri israeliano cit. in A. Gresh, “Vittime del piombo fuso”, le monde diplomatique, gennaio 2009. 8 A. Gresh, “Vittime del piombo fuso”, cit.

R. Falk, “Understanding the Gaza Catastrophe”, the Huffington Post, 2 gennaio 2009:

http:fiwww.huffingtonpost.comlrichard falk!understanding the gaza cabl 54777.html

‘° M. Serra, la Repubblica, 2 gennaio 2009.

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sull’argomento iniziavano con il mantra della “colpa di Hamas”. Così Piero Fassino, che come sempre esprime al meglio i luoghi comuni dominanti: “Le responsabilità di Hamas sono evidenti. Così come non si può negare ad Israele il diritto di difendersi”.”


Ora, va notato che questa lettura del conflitto israelo palestinese non è una novità: già nel 2004 il Glasgow Media Group, una rete di accademici e ricercatori britannici che effettua da decenni ricerche e monitoraggi sui media, aveva prodotto una ricerca sulla copertura del conflitto (allora si trattava della seconda Intifada) da parte della BBC, da cui emergeva che la stragrande maggioranza dei telespettatori intervistati concepiva qualunque incidente o scontro come iniziato dai palestinesi con successiva risposta israeliana. 12 I motivi di questa singolare prospettiva di lettura venivano rinvenuti precisamente in una trattazione non corretta della materia da parte degli organi di informazione.


Ad ogni modo, per quanto riguarda l’attacco contro Gaza, un punto di vista del genere rappresenta un vero e proprio rovesciamento della realtà. Per i motivi visti sopra e per un altro ancora: il fatto che l’attacco è stato preparato per mesi, dopo essere stato pianificato nella prima metà del 2008 dal ministro della difesa Barak. Secondo una fonte diplomatica francese, l’attacco sarebbe stato deciso addirittura nel marzo 2008.13 Non solo. Lo stesso portavoce militare israeliano ha reso noto che da 18 mesi le truppe israeliane si allenavano in una finta Striscia costruita nel deserto del Negev (e costata a quanto pare 45 milioni di dollari). 14 I nostri giornali hanno fedelmente riportato l’affermazione del portavoce israeliano, ma inserendola in un contesto che valorizzava la preparazione militare di Israele, e guardandosi bene dal sottolineare che quell’ammissione costituiva la definitiva riprova del fatto che la spedizione era stata preparata sin dall’inizio del blocco della Striscia da parte di Israele. 15 Lo stesso irrigidimento del blocco di Gaza da novembre in poi era certamente uno degli elementi di preparazione dell’attacco. 16

A dispetto di tutto ciò, i grandi media, i loro opinionisti e i politici le cui dichiarazioni sono ospitate sui giornali hanno nella quasi totalità fatto proprio quel primo tassello di narrazione che abbiamo riportato più sopra. Traendone poi la conclusione che quindi le vittime civili palestinesi sono vittime di Hamas.

Così Piero Ostellino sul Corriere della sera: “se i Palestinesi di Gaza cadono sotto le bombe israeliane, la responsabilità prima di quelle distruzioni... è di Hamas”.17 Così il presidente francese Sarkozy, su cui Repubblica lo stesso giorno fa un titolo a sei colonne in quarta: “Sarkozy: Colpa di Hamas le sofferenze dei civili”. Nello stesso senso vanno anche le dichiarazioni del presidente della repubblica italiana, Napolitano, sia pure indirettamente. Così indirettamente da suonare francamente bizzarre: “La situazione di Gaza è caratterizzata da una presenza come quella di Hamas, che ha segnato la spaccatura del mondo palestinese”. Parole su cui si è subito buttato a pesce il capogruppo pdl all Camera, Fabrizio Cicchitto ex socialista e piduista , che le ha interpretate come una conferma della linea totalmente appiattita su Israele adottata dal governo italiano: “il Presidente della Repubblica ha delineato il senso della posizione italiana su Gaza. È evidente che la tregua è possibile solo se finisce la causa principale che ha determinato la situazione in atto, cioè i persistenti lanci di missili con i quali da molti mesi Hamas colpisce Israele”.”



11 Dichiarazioni riportate su la Repubblica, 6 gennaio 2009.

12 G. Philo, M. Berry, Bad News From Israel, Glasgow University Media Group, London, Pluto Press, 2004. In argomento vedi l’articolo “Stragi a Gaza, la verità manipolata da modelli comunicativi articolati”, www.senzasoste it 28 dicembre.

13 “Aveux tres convenable d’un colonel israélien “, Le Canard Enchainé, 28 gennaio 2009.
14 j Bremer, “Vertrauensperson “, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 9 gennaio 2009.
15 Vedi ad es. F. Scuto, “E guerra nelle strade. A Gaza decine di morti “, la Repubblica, 5 gennaio 2009.

16 Vedi le testimonianze raccolte da G. Rampoldi, “Gaza tra rabbia e distruzione. ‘Una catastrofe come Hiroshima”, la

Repubblica, 19 gennaio 2009.

17 P. Ostellino, “Chi sono i veri responsabili”, Corriere della Sera, 5 gennaio 2009.

18 G. Vitale, “Napolitano: Hamas ha diviso ipalestinesi “, la Repubblica, 6 gennaio 2009.

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2. La verità dimenticata


Ora, la mutilazione che ha subito la verità in questo caso è soltanto un dettaglio, un episodio di una mutilazione più grande e sistematica. Dietro la verità mutilata di oggi, c’è infatti una verità più essenziale che viene dimenticata: la storia della “pulizia etnica della Palestina”, dell’esproprio delle terre palestinesi e dell’occupazione militare di quella terra. 19 Di questa storia l’attacco del dicembre scorso contro Gaza è soltanto l’ennesima tappa. E il fatto che di questa storia non vi sia traccia nelle cronache che hanno accompagnato l’attacco di Israele contro la Striscia di Gaza è un ulteriore affronto alla verità. In effetti, come è stato osservato, “il solo modo per dare un senso all’insensata guerra di Israele a Gaza è capire il contesto storico”. Che muove dalla creazione dello stato di Israele nel maggio del 1948, che “ha comportato un’enorme ingiustizia nei confronti dei Palestinesi”, e a cui ha tenuto dietro l’occupazione del 1967 della Striscia di Gaza e della West Bank. Nel quarantennio successivo all’occupazione, Gaza non ha rappresentato semplicemente un caso di sottosviluppo economico, bensì un caso di “deliberato de sviluppo”, attaverso la distruzione dell’industria locale e la trasformazione dei suoi abitanti in manodopera a basso costo per Israele. 20 Di questa verità non ci è stato dato trovar traccia nei resoconti di televisioni e giornali italiani (con pochissime eccezioni, rappresentate per lo più da organi di stampa a diffusione molto limitata). Ed è un vero guaio, perché l’ignoranza di questo sfondo storico consente la penetrazione di pregiudizi anti palestinesi a sfondo razzistico, come quello secondo cui il sottosviluppo di Gaza sarebbe colpa di chi ci abita, ossia delle sue vittime. E per un altro motivo, forse ancora più sostanziale. La verità dei decenni di occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele ne reca con sé un’altra. Quella espressa a chiare lettere in un articolo del Financial Times: “se Israele vuole la pace deve affrontare la decisione che ha evitato per 40 anni: ritirarsi dai territori palestinesi occupati .


Il problema è che sulla rimozione di questa necessità si basano tutti i discorsi sulla presunta “ineluttabilità” di questa guerra (e di quelle che l’hanno preceduta e che la seguiranno). Ovviamente, in questo modo si presuppone come necessario ed inevitabile quello che non lo è (ossia che Israele non si ritiri dai Territori occupati) e di conseguenza si falsa il ragionamento. Esemplare, da questo punto di vista, un articolo di Sandro Viola uscito su la Repubblica del 7 gennaio. In esso si suggerisce prioritariamente di “rinviare” il “giudizio sulle responsabilità dei governi d’Israele per non aver mai voluto veramente restituire ai palestinesi quel che la giustizia imponeva che fosse restituito ai palestinesi”. Pur dichiarando che questa, assieme all’ “agghiacciante sproporzione dell’offensiva israeliana su Gaza”, sono “questioni fondamentali”, il commentatore ritiene che entrambe debbano essere messe da parte “per rendere più chiara possibile la descrizione del momento politico che sta vivendo lo Stato degli ebrei”. La conclusione, muovendo da questo presupposto che esclude l’unico esito conforme a verità e giustizia, è obbligata: “il solo esito favorevole che Israele può attendersi è che il suo esercito riesca a frantumare, se non interamente, i due terzi o quattro quinti del potenziale bellico di Hamas”, al fine di conseguire una lunga tregua effettiva e riavviare il negoziato su posizioni di forza, ristabilendo una “capacità di detenenza” tale da indurre a miti consigli non soltanto i palestinesi, ma anche Hezbollah, i siriani e Ahmadinejad. L’alternativa è peggiore: “se questo non avverrà, i vertici politico militari israeliani dovranno guardare ad un altro obiettivo che consenta di dimostrare, fosse pure con rischi altissimi, che Israele è ancora la massima potenza militare del Medio Oriente. Per esempio, le centrali nucleari iraniane”. 22

È questa verità dimenticata la menzogna fondamentale sottesa ai falsi discorsi sulla “riconciliazione”, che i “terroristi” di Hamas (come prima quelli di Al Fatali) renderebbero impossibile. Ed è facile constatare come questi discorsi sull”inesponsabilità” dei palestinesi vengano ciclicamente ripetuti, ad ogni nuova tappa in cui la pulizia etnica della Palestina procede (con gli insediamenti illegali, con il muro che ruba ulteriori terre ai palestinesi, lo strangolamento economico dei territori residui, ecc.). Essi servono infatti egregiamente, oggi come ieri, a coprire le responsabilità reali del conflitto.



19 La pulizia etnica della Palestina è il titolo di un importantissimo libro di TIan Pappe da poco tradotto in italiano (Roma, Fazi, 2008). la Repubblica, 6 gennaio 2009

20 A. Shlaim, “How Israel brought Gaza to the brink of humanitarian catastrophe “, the Guardian, 7 gennaio 2009. 21 P. Stephens, “The peace has been lost to Israel ‘s military victories “, Financial Times, 9 gennaio 2009.

22 S. Viola, “La posta in gioco per Israele “, la Repubblica, 7 gennaio 2009.
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3. La verità messa in scena


L’informazione sulla guerra contro Gaza è proceduta impedendo l’accesso ai giornalisti nelle zone di guerra, e invitando i più “affidabili” a briefing tenuti dallo stato maggiore israeliano. Di questo dubbio privilegio un giornalista della televisione pubblica si è persino vantato in diretta. In un suo servizio andato in onda sul Tg 1 delle 13.30 di domenica 28 dicembre egli ha infatti affermato: “cito direttamente le conclusioni del briefing riservato delle forze militari israeliane al quale ho avuto l’onore [sic!] di partecipare”. Strana concezione dell’informazione, e contestuale rovesciamento della realtà: erano state le forze militari israeliane ad avere l’indubbio vantaggio di poter dare la loro versione dei fatti a un giornalista (sit venia verbo) che l’avrebbe riferita “direttamente” (ossia senza verificame la veridicità) ai suoi telespettatori. Perdipiù vantandosi di tale “onore”. È attraverso questi meccanismi (e questi comportamenti assai discutibili sul piano della deontologia professionale) gli organi di informazione internazionali hanno letteralmente ripreso in più occasioni le affermazioni di Tzipi Livni, facendole proprie senza alcun dubbio o esitazione.


Non si tratta, purtroppo, di un caso limite. Perché la verità messa in scena si è affacciata tutte le sere sui nostri schermi televisivi. In particolare attraverso la voce di Claudio Pagliara, che in uno dei primi giorni del massacro ci ha mostrato per diversi minuti le immagini di un cittadino israeliano di origini italiane che sbarrava le finestre della sua casa contro i missili di Hamas. E che ancora il 17 gennaio, nel giorno in cui le vittime palestinesi erano salite a 1200 e veniva bombardata una scuola dell’ONU, dedicava un accorato servizio.., al militare israeliano rapito due anni fa. Nessuna parola, ovviamente, sugli oltre 10 mila palestinesi nelle carceri israeliane (tra cui 40 membri eletti del Consiglio legislativo palestinese).


Un’altra forma di verità messa in scena, che in realtà altro non è che supina acquiescenza alla propaganda di guerra israeliana, è la leggenda della “fuga” dei dirigenti di Hamas. Tale “notizia” viene fatta propria da la Repubblica del 12 gennaio fin dal titolo del pezzo firmato da Alberto Stabile (in genere autore di resoconti piuttosto equilibrati): “Gaza, dirigenti di Hamas in fuga. Israele: ‘Vicini ai nostri obiettivi”. Nel testo: “Il gruppo dirigente braccato, disperso e costretto a rifugiarsi nei nascondigli più impensati”. La verità, come è poi emerso (e come già allora era chiaro ai pochi giornalisti presenti sul campo, cioè a Gaza), era del tutto diversa: molto semplicemente, i dirigenti militari di Hamas avevano rifiutato lo scontro diretto e i capi dell’organizzazione si erano nascosti. Abbiamo quindi a che fare con una falsa notizia che rappresenta un classico esempio di ristrutturazione di una situazione sgradevole: nel caso specifico, l’inafferrabilità dei dirigenti di Hamas, che privava di senso l’intervento militare e minimizzava il numero dei trofei che T’sahal avrebbe potuto esibire all’opinione pubblica per giustificarlo a posteriori. E in effetti, appena tre giorni dopo Rampoldi sullo stesso quotidiano doveva ammettere che “Hamas non sembra affatto allo sbando”.


Una diversa messa in scena, caratteristica da sempre della propaganda di guerra, è quella della “follia omicida”, dell”odio” attribuiti al nemico di turno. In questo caso, ovviamente, ai palestinesi ed in particolare a Hamas. Di questa impostazione esistono innumerevoli testimonianze sui giornali dei Paesi occidentali. 23 Per restare a casa nostra, in questo esercizio si sono distinti in particolare gli editorialisti del Corriere della Sera. Lo schema è il seguente: Hamas odia e vuole distruggere Israele, quindi Israele ha il diritto di difendersi come sta facendo. Va detto che tra coloro che lo hanno adoperato, qualcuno si è fatto prendere la mano e si è, molto semplicemente, prodotto in affermazioni false. Come ha fatto Piero Ostellino sul Corriere della Sera del 29 dicembre: “l’articolo 7 della Carta di Hamas non propugna solo la distruzione di Israele, ma lo sterminio degli ebrei, così come sostiene il presidente iraniano Ahmadinejad”. Concetto poi ribadito da Ernesto Galli della Loggia il 3 gennaio sullo stesso quotidiano: “Hamas auspica l’eliminazione di tutti gli ebrei dalla faccia della terra”. 24 La conseguenza pratica di tutto questo l’ha tratta Enzo Bettiza su la Stampa del 5 gennaio: “E’ una drastica e violentissima operazione di gendarmeria [!] di un Paese minacciato di sterminio da una setta che ha giurato di




23 Un esempio caratteristico in R.B. Goldmann, “Hass ais Poiitik”, Frankfurter Aiigemeine Zeitung, 22 gennaio.

24 In merito si veda D. Losurdo, “Gaza, distorsioni mediatiche “, la Rinascita della sinistra, 22 gennaio 2009. E’ sufficiente leggere l’art. 31 dello Statuto di Hamas per intendere la falsità di quanto riportato da Ostellino e Della Loggia.

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estirparlo dalla faccia della terra”. 25 Il meccanismo a questo punto è semplice: il presunto odio nei confronti di Israele serve a giustificare qualsiasi reale malefatta compiuta da questo Paese. Se poi il concetto di “odio nei confronti dello Stato di Israele” non basta alla bisogna, bisogna inventarsi un “odio nei confronti degli ebrei in quanto tali”. A questo punto nell’opinione pubblica scatta l’identificazione simpatetica con lo Stato di Israele, grazie all’assimilazione di questo presunto odio attuale all’effettivo sterminio degli ebrei posto in essere dai nazisti. E a questo proposito non si può fare a meno di rilevare una di quelle singolari ironie che la storia a volte ci pone di fronte: la giustificazione di aggressioni e massacri reali con la presunta minaccia proveniente da un odio altrettanto presunto è precisamente uno dei meccanismi retorici più usati dai nazisti nei confronti degli ebrei. Questo schema, già ben visibile nel Mein Kampf di Hitler, fu sistematicamente adoperato per giustificare tutte le guerre del Terzo Reich. In proposito ricorda Victor Klemperer, in quel documento straordinario di un’epoca che è La lingua del Terzo Reich: “qualsiasi cosa si intraprenda [da parte della Germania hitleriana], sin dal primo momento, è sempre una misura difensiva in quella che è una guerra ‘imposta’, la guerra ebraica”; e lo stesso Klemperer reca eloquenti testimonianze di come sino alla fine questo stereotipo fosse stato interiorizzato e fatto proprio dall’intero popolo tedesco. 26

4. La verità rimossa


Speculare alla verità messa in scena è la verità rimossa. La verità messa in scena ha tra le altre sue finalità per l’appunto quella di nascondere verità scomode che si intende rimuovere, sottrarre al pubblico sguardo e alla pubblica opinione.


Nel caso di Gaza la verità da rimuovere n. 1 è stata quella delle stragi israeliane di civili.


Il governo israeliano ha cercato innanzitutto di farle vedere il meno possibile: anche grazie al divieto ai giornalisti di passare la frontiera per Gaza (mentre in Israele venivano indirizzati a Sderot, così da poter scrivere in abbondanza dei lanci dei razzi di Hamas). Questo divieto è stato una mossa così smaccata da attirare su Israele le critiche anche di giornalisti tutt’altro che pregiudizialmente ostili alla sua politica. Ecco cosa si chiedeva ad esempio Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore del 6 gennaio 2009: “può una democrazia come Israele trasformare il silenzio stampa, qualsiasi cosa taccia, in un’arma di questa guerra?’.27 La risposta: sì, può. Tant’è vero che lo ha fatto. Però la cosa non ha funzionato più di tanto. Una rimozione assoluta non ha infatti potuto avere luogo, grazie alle troupe televisive comunque presenti sul terreno. Anche se va detto che i nostri telegiornali hanno fatto il possibile per mostrare ben poco del materiale che esisteva, ed era largamente accessibile a chiunque seguisse un canale internazionale o si collegasse a siti di informazione su internet.


In ogni caso, fallita la rimozione totale, si è passati alla minimizzazione. Questa strategia ha conosciuto diversi passi:


A) Considerare le stragi di civili “effetti collaterali “, cioè non intenzionali, della guerra. Impresa piuttosto ardua, quando si scatena un attacco aereo di quelle proporzioni sul territorio più densamente abitato dell’intero pianeta, per di più dopo averlo blindato in modo che nessuno ne possa uscire. Qualche ardimentoso ha comunque provato a dare avallo a questa versione dei fatti. Ecco ad esempio la risposta di Ian Buruma ad un intervistatore del Corriere della Sera: “A Gaza, per quanto uno voglia criticare Israele, e io lo critico, l’esercito non punta a uccidere civili”. Peccato che lo stesso scrittore, nella stessa intervista, avesse così risposto ad una precedente domanda: “Questa guerra per me non ha granché senso. L’idea di usare la forza per indurre le




25 E. Bettiza, “L’Europa sbandata “, la Stampa, 5 gennaio 2009.

26 V. Kiemperer, LTL La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, 1947; tr. it. Firenze, Giuntina, 1998, p. 223 e p.

228 229 (ma vedi l’intero capitolo 26. La guerra ebraica, pp. 218 229).

27 U.T., “Se la censura diventa un’arma “, Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2009.

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popolazioni a rivoltarsi contro i loro stessi governi non ha mai funzionato”. 28 Buruma non se ne rende conto, ma in questa risposta è inconsapevolmente contenuta una duplice ammissione: che l’attacco era rivolto contro i civili, e che esso ha natura terroristica. Almeno se si vuole dare retta alla definizione di terrorismo contenuta nella Convenzione Onu sulla repressione del finanziamento del terrorismo del 1999, all’art. 2, lb: “ogni atto destinato alla morte, o ad infliggere lesioni gravi, a qualsiasi civile, o ad altra persona che non partecipi direttamente alle ostilità, in una situazione di conflitto armato, quando, per la sua natura e il contesto in cui ha luogo, il suddetto atto sia volto a intimidire una popolazione, ovvero a costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere, o astenersi dal compiere, un atto qualsiasi”.29 Oltretutto, è evidente nella risposta di Buruma il riferimento ai bombardamenti terroristici sulla Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, che avevano per l’appunto lo scopo non conseguito di demoralizzare la popolazione e spingerla a rivoltarsi contro il governo nazista. Ce n’è abbastanza per giustificare le parole del generale Fabio Mini: “le vittime civili, in barba a tutte le norme del diritto internazionale, dei codici militari e dei costumi di guerra, sono tornate ad essere il vero obiettivo delle guerre... Gli imbonitori che indulgono nella giustificazione militare dei danni collaterali sono analfabeti di ritorno... Con i nuovi avversari, arcaici e disperati, non ci sono strutture militari e produttive da distruggere per piegare la volontà di resistenza. Ci sono solo case, chiese, moschee e persone, donne, bambini. Tutte cose facili da colpire... In Cecenia, Afghanistan, Libano e, oggi, a Gaza la strategia deliberata di colpire i civili per far mancare il sostegno agli insorti, ribelli e cosiddetti terroristi è un’altra regressione. Riporta alla guerra controrivoluzionaria, che invece ha fatto sempre vincere i ribelli, e alle nefandezze delle occupazioni coloniali’.


B) Ripetere le cifre date dai comandi israeliani sulla proporzione civili/militari uccisi. Il giorno dell’attacco è stata data la cifra del 25% (45 su 200). Si trattava di una cifra totalmente implausibile, oltretutto perché erano state arbitrariamente considerate come “perdite militari” i morti in una caserma della polizia palestinese. Ad ogni modo, questa stima all’inizio della guerra è stata fatta propria anche da funzionari dell’ Onu.3’ Ancora il 4 gennaio Il Sole 24 Ore parlava di 500 morti palestinesi, “per quattro quinti miliziani”. Ovviamente anche questa sarebbe stata una proporzione inaccettabile. Ma era semplicemente falsa, come è gradatamente emerso. Già il 9 gennaio l’Onu doveva rettificare il tiro e dichiarare che un terzo delle vittime erano bambini. Il 18 gennaio i miliziani morti sul totale delle vittime erano scesi ad un terzo del totale. E a consuntivo si parla di un 85% di vittime civili: una proporzione più che rovesciata rispetto a quella della propaganda di guerra dei primi giorni.32


C) Addebitare le vittime civili agli stessi palestinesi. Questo è stato fatto in due modi. In termini generali, sostenendo che la colpa di tutto quanto accadeva era comunque di Hamas. Abbiamo visto sopra per quale motivo questo ragionamento è fattualmente falso. Possiamo aggiungere qui che si tratta esattamente dello stesso argomento usato dai nazifascisti (e dai loro giustificatori postumi) contro i partigiani. Ma c’è un’altra versione di questa asserzione, così incredibile da far dubitare che essa abbia trovato ospitalità su quotidiani di qualche nome e diffusione. Eppure è successo. Leggiamo ancora Buruma sul Corriere della Sera: “gli islamisti di Gaza sono talmente determinati ... da non esitare a sacrificare i civili, bambini compresi, esponendoli ai pericoli nella speranza di accaparrarsi le simpatie degli spettatori”. Nello stesso giorno lo stesso quotidiano



28 • Buruma, intervista rilasciata a S. Montefiori, “Le foto dei bimbi e la propaganda dei miliziani. Così Gerusalemme ha

perso la guerra media tica “, Corriere della Sera, 18 gennaio 2009. Corsivi miei.

29 Corsivi miei. Per un esame approfondito del concetto di terrorismo rinvio a V. Giacché, La fabbrica del falso, cit., cap. 7.

Dialettica del Terrorismo, pp. 108 123.

° F. Mini, “La barbarie strategica “, la Repubblica, 20 gennaio 2009. Corsivo mio.

31 Vedi art. di O. Barghouti in The Electronic Intfada, 10 gennaio 2009.

32 F. Scuto, Israele e Hamas rifiutano la tregua. L’Onu: Bambini un terzo delle vittime”, la Repubblica, 10 gennaio 2009;

A. Stabile, “Hamas: ‘Sette giorni di tregua”. Israele: Cominciamo il ritiro”, la Repubblica, 19 gennaio 2009; V. Arrigoni,

“Pacifisti tra le case gruviera di Jabal “, il manifesto, 21 gennaio 2009.

33 Così I. Buruma nella già citata intervista a S. Montefiori, “Le foto dei bimbi e la propaganda dei miliziani. Così Gerusalemme ha perso la guerra mediatica “, Corriere della Sera, 18 gennaio 2009.

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ospita un editoriale di Angelo Panebianco in cui tale circostanza non viene neppure messa in dubbio: “usare i civili come scudi era per Hamas uan necessità di guerra, il solo modo per tentare di ottenere uan pressione internazionale tale da fermare Israele”. 34 E, siccome al peggio non c’è fine, ecco una pseudo inchiesta pubblicata pochi giorni ancora sul Corriere: “Così i guerriglieri di Hamas ci hanno usati come bersagli” (e nel richiamo in prima si dice: “Noi usati come scudi ,).35 Si potrebbe obiettare che non abbia granché senso occuparsi delle prodezze giornalistiche di un signore che è riuscito a scrivere che le vittime complessive erano 500/600 anziché 1300, facendosi smentire dallo stesso esercito israeliano. 36 Vale invece la pena di contrapporre a queste falsità l’accorata invocazione di Stefano Sarfati Nahmad a Israele: “hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi”. 37 E il più pacato riferimento storico di Fabio Mini: “anche le giustificazioni e il mascheramento di queste regressioni [ossia gli attacchi contro i civili] con strumenti di propaganda sono dejà vu. Sono cambiati i nomi e alcuni strumenti, ma gli effetti sono sempre gli stessi. La guerra psicologica che tenta di mostrare che i civili non sono i nostri obiettivi ma le vittime dell’avversario che li usa come scudo non è cambiata da millenni”. 38 Insomma, anche i Cremonesi sono sempre esistiti, e non sono un’esclusiva della nostra epoca.

Ad ogni modo, è chiaro che con il concetto di “scudi umani” si aggiunge un ulteriore tassello alla narrazione su Gaza dalla parte degli aggressori. Unita al tassello già visto in precedenza suona così:

“Ottomila razzi sono caduti in centri israeliani mirando obiettivi civili, e quando Israele ha

deciso di difendersi Hamas ha utilizzato i civili palestinesi come scudo”. Ho messo doverosamente tra virgolette queste frasi, in quanto si tratta di una dichiarazione pubblica del signor Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche in Italia. 39


In verità l’elenco delle verità rimosse o mistificate in relazione all’attacco a Gaza sarebbe lungo. Esso può essere rubricato sotto il titolo: sistematica violazione delle convenzioni internazionali. Uccisione di civili a sangue freddo, assassinio di feriti, uso di ospedali e ambulanze come bersagli, distruzione di case, moschee, scuole, fabbriche, sedi dell’Onu, sedi delle tv straniere, infrastrutture essenziali.40 E uso di armi proibite dalle convenzioni internazionali.


Sul fatto che siano state usate armi proibite (al fosforo bianco) e armi sperimentali e non convenzionali (come le Dense Inert Metal Explosive, che non sono ancora state proibite semplicemente perché ancora in fase di sperimentazione) non sussiste ormai alcun dubbio. Del resto, le foto del bombardamento della scuola di Beit Lahia hanno fatto il giro del mondo e non richiedono alcun supplemento di indagine. 41 Vale invece la pena di spendere due parole sul processo che potremmo definire come il retrocedere della menzogna. In questo caso i generali israeliani prima hanno detto di aver usato bombe al fosforo bianco solo per illuminare i target, poi hanno ammesso come è stato




34 A. Panebianco, “I media come arma”, Corriere della Sera, 18 gennaio 2009. 35 L. Cremonesi, sul Corriere della Sera, 22 gennaio 2009.

36 A completare il catalogo delle menzogne di guerra propalate dal nostro, non poteva mancare quella secondo cui le ambulanze divenute bersaglio dei tiri israeliani sarebbero state piene zeppe di militanti di Hamas. Se ne veda una pacata e argomentata confutazione in V. Arrigoni, “Cattivo giornalismo. Sulle ambulanze Hamas non c’era, io sì”, il manifesto, 28 gennaio 2009.

37 S. Sarfati Nahmad, “Ascolta, ascolta Israele!”, il manifesto, 9 gennaio 2009.

38 F. Mini, “La barbarie strategica “, cit., corsivo mio.

39 R. Gattegna, dichiarazioni riportate su la Repubblica, 22 gennaio 2009.

° Per gli omicidi a sangue freddo vedi G. Rampoldi, la Repubblica, 20 gennaio 2009. Secondo dati forniti dall’Ufficio

Centrale di Statistica Palestinese riportati sul Financial Times del 19 gennaio sono stati distrutti i seguenti edifici: Case: 4 100

(17.000 danneggiate); Moschee: 20; Scuole e ospedali: 25; Caserme di polizia: 31; Ministeri: 16; Fabbriche, negozi,

laboratori artigiani: 1.500. I danni complessivi ammontano a 1,4 miliardi di dollari. Le sedi dell’ONU bombardate sono 45

(soprattutto scuole): cfr. la Repubblica, 7 gennaio 2009. In qualche caso sono andati bruciati gli aiuti che contenevano: cfr. A. Stabile, “Bombe sui depositi Onu, bruciati gli aiuti”, la Repubblica, 16 gennaio 2009. Sono state colpite anche sedi delle tv straniere: cfr. Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2009. Circa la distruzione delle infrastrutture essenziali cfr. T. Buck, “Attacks devastate basic infrastructure “, Financial Times, 9 gennaio 2009.

41 Si veda ad es. Il Sole 24 Ore del 18gennaio 2009.
41
scritto su Maariv il 20 gennaio che in effetti bombe al fosforo bianco erano state lanciate, “ma in aree aperte e lontane dagli abitati”. Legittima l’incredulità del giornalista del Corriere della Sera Giorgio Battistini, che si è domandato: “in una zona densamente popolata come Gaza?”. 42 Tra poco ci diranno che in qualche caso sono effettivamente finite tra la gente, ma per errore. La migliore risposta a questa ennesima mistificazione è già stata data da un ex artigliere dell’esercito israeliano: “usare artiglieria pesante e fosforo bianco in un’area urbana densamente popolata e sostenere poi che i civili sono stati uccisi per errore è oltraggioso e immorale”. 43 In ogni caso, c’è un elemento importante della scoperta dell’uso di armi proibite da parte dell’esercito israeliano che merita di essere messo in luce. In realtà, sin dal primo giorno dell’attacco era chiaro che erano state usate armi DIME, e già nei giorni immeditamente successivi si era fatto uso di fosforo bianco. 44 Ma sulla stampa se ne è cominciato a parlare soltanto molto più tardi. Soltanto il 12 gennaio, ad esempio, la Repubblica dà evidenza alla denuncia al riguardo di Human Rights Watch, in un articolo dal titolo: “‘Stanno sperimentando qualcosa . Accuse sugli ordigni israeliani”. 45 Sono passate oltre due settimane dall’inizio dell’attacco a Gaza. La lentezza nell’emergere della verità sulle armi proibite ha senz’altro agito nel senso di ritardare l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale nei confronti dell’aggressione israeliana. Quando il dibattito si infiamma la tregua è già iniziata. La verità sulle armi proibite a questo punto è una verità postuma.

Ovviamente è comunque importante che tutte queste verità che si tenta di rimuovere vengano a galla. Ma attenzione: perché anche in questo caso sono in agguato tentativi di neutralizzazione. Degno di nota in particolare un sofisma che trasforma le nefandezze compiute in un titolo di merito. È un meccanismo autoapologetico già sperimentato da Blair in Iraq. Funziona così: i misfatti di Israele emergono perché Israele è una democrazia; e qui si dimostra la sua superiorità. Ascoltiamo ancora Ian Buruma il 18 gennaio sul Corriere: “Gerusalemme ha un’immagine controversa nei media prima di tutto perché è una democrazia”.46 A proposito di democrazia: un giorno prima i lettori di “Liberazione” (ma non quelli del Corriere della Sera) avevano appreso dell’esclusione dei due partiti arabi dalle prossime elezioni, decisa dal comitato elettorale della Knesset, il Parlamento israeliano.47


5. La verità capovolta

Un metodo caratteristico di distorcere la verità sino a capovolgerla è quello della sineddoche

indebita. Di cosa si tratta? La sineddoche è una figura retorica ben nota già ai maestri di eloquenza dell’antichità. Nella sua variante più usata, essa consiste nell’adoperare la parte di una cosa per designare la cosa nella sua interezza (pars pro toto). Così, nell’espressione “accolse sotto il suo tetto”, il termine “tetto” indica la casa nel suo insieme. Si tratta di un modo di esprimersi che può essere letterariamente efficace, e che comunque nel caso specifico non è improprio: infatti il tetto è una parte essenziale della casa. Spostiamoci adesso dal mondo delle belle lettere e passiamo a quello della cattiva informazione. È qui che ci imbattiamo nella sineddoche indebita. Che consiste nel trascegliere, all’interno di un fenomeno complesso, un elemento irrilevante (e comunque non caratterizzante) ed utilizzarlo quale elemento qualificante per descrivere e definire tutto quel fenomeno. Sembra un procedimento astruso, invece è concretissimo. È il metodo che la stampa italiana, nella sua quasi totalità,




42 Corriere della Sera, 21 gennaio 2009.
43 S. Leventhal, “Io artigliere ho usato fosforo bianco”, il manifesto, 22 gennaio 2009.
44 L’uso di armi DIME era evidente dalla foto pubblicata in prima pagina dal manifesto già il 28 dicembre.

45 Per altri articoli degni di nota in merito vedi: A. Fagioli, “A Gaza armi non convenzionali”, il manifesto, 10 gennaio 2009;

M. Giorgio, “Bombe proibite, Israele sotto accusa “, il manifesto, 13 gennaio 2009; e M. Zucchetti, il manifesto, 16 gennaio

2009. Alcune testimonianze in J. Cook, “Is Gaza a testing ground for experimental weapons? “, The Electronic Intifada, 13 gennaio 2009 e A. Fifield, “Injuries put focus on prohibited weapons fears “, Financial Times, 23 gennaio 2009.

46 I. Buruma, intervista citata.
47 F. Marretta, intervista a J. Zahalka, “Arabifuori dalle elezioni. Questa è politica razzista”, Liberazione, 17 gennaio 2009.

42
ha adoperato a proposito di diverse manifestazioni di protesta degli ultimi anni. 48 Le manifestazioni avvenute il 3, il 10 e il 17 gennaio in diverse città italiane contro l’aggressione israeliana a Gaza hanno consentito a buona parte dell’informazione del nostro Paese di offrire ulteriori esempi di questo metodo.

Sulle manifestazioni del 3 gennaio, ad esempio, Il Sole 24 Ore del giorno successivo titola: “Bandiere israeliane bruciate a Milano “. Della manifestazione avvenuta a Roma lo stesso giornale dice soltanto: “A Roma sono state sventolate bandiere americane con disegnate una svastica e una stella di David. Israele e gli Stati Uniti sono stati bollati come ‘assassini”. Lieve variatio linguistica per il titolo de la Repubblica: “Bruciate le bandiere con la stella di David. Da Milano a Roma bufera sui cortei”. Sotto due box con altrettante interviste sul fatto: cioè non sulla manifestazione, ma sul rogo delle bandiere (oltretutto avvenuto soltanto a Milano). E il Corriere della Sera come titola? Non lo credereste: “Islamici in piazza, bruciate bandiere israeliane “. Anche qui due box con commento del fatto: l’impaginazione è la fotocopia di quella di Repubblica. Su televideo rai compare una fantomatica bandiera bruciata a Roma, su cui Alemanno prontamente dichiara. Poi la bugia scompare, ma la dichiarazione resta.

Sulle manifestazioni del 10 gennaio Repubblica non dà prova di migliore fantasia: “Bandiere

bruciate nei cortei. Nuova preghiera islamica a Milano “. Ecco introdotto un nuovo elemento: le preghiere pubbliche degli islamici. Questo elemento consente di suggerire un’incipiente guerra di religione anche da noi, ma soprattutto di riaffermare il carattere religioso (cioè “fanatico” e “fondamentalista”, non trattandosi né della religione cattolica, né di quella ebraica) delle proteste che si sono svolte. Un’effettivo aspetto di novità delle manifestazioni (la folta partecipazione degli immigrati) viene così distorto e letto in chiave di “scontro di civiltà”. Quando le manifestazioni erano più concretamente rivolte contro l’inciviltà della guerra condotta da Israele.

Poi c’è stata la grande manifestazione del 17 gennaio a Roma: nel corso della quale, forse con dispiacere di molti giornalisti, non viene bruciata alcuna bandiera israeliana. Niente paura: è già pronto un valido sostituto. E infatti ecco il titolo del Corriere della Sera: “Corteo a Roma, svastiche sulle bandiere israeliane”. Di interesse anche il sottotitolo: “Bambole insanguinate e preghiera islamica al Colosseo “. Sotto questo articolo però ce n’è un altro: un taglio basso firmato da Gian Antonio Stella (chi scrive lo ricorda, sul finire del 2001, quale fautore entusiasta dei bombardamenti sull’Afghanistan). Il titolo è: “Antisemitismo, quell’equivoco a sinistra “. Si tratta di un articolo fondato letteralmente sul nulla (per molti giornalisti, almeno dalle nostre parti, Max Stirner in questo senso fa decisamente scuola), ma che serve ad esporre due assunti: il primo è che esista un antisemitismo di sinistra; il secondo è che l’antisionismo sia un astuto travestimento contemporaneo dell’antisemitismo. Ovviamente, il secondo assunto una plateale sciocchezza, per chiunque conosca la storia del sionismo e di chi ad esso a suo tempo si oppose: gente tipo Einstein, per capirsi serve a dimostrare il primo. Completa questa pagina da antologia un trafiletto su una “dura polemica” tra Sansonetti e lo storico d’Orsi sulla Shoah. Purtroppo il quotidiano ci consente di leggere soltanto le opinioni di Sansonetti e non quelle di d’Orsi, per cui riesce un po’ difficile farsi un’idea della cosa, ma tant’è: la sensazione è comunque quella di pericolosi antisemiti che a sinistra si nascondono dietro il dito della critica ad Israele per poter poi, alla prima occasione, emulare le gesta di Himmler e Eichmann.


6. La verità imbellettata

Ho avuto modo di osservare altrove come la politica israeliana rappresenti uno dei più fertili terreni di ispirazione degli eufemismi contemporanei ossia di quel processo di mistificazione della verità dei fatti che consiste nel ridefinire realtà sgradevoli in modo da renderle più accettabili.

Pensiamo all’espressione di “Territori”, sempre più spesso adoperata al posto di “Territori occupati” (ossia territori palestinesi occupati da Israele). Si tratta di un nonsenso linguistico, in quanto la denominazione di “Territori” è tautologica (ogni paese insiste su dei territori!): ma serve ad impedire di ricordare, nella definizione stessa di “Territori occupati”, che cosa è realmente accaduto in Palestina. Nel 2001 il segretario di Stato americano Colin Powell tentò




48 Alcuni esempi si trovano ne La fabbrica del falso, cit., pp. 26 29. In due dei casi esaminati si trattava di manifestazioni per la Palestina.

49 V. Giacché, La fabbrica del falso, cit., p. 34.
43
di far passare il concetto di “Territori contesi”, anziché “occupati”, dando istruzioni in tal senso alle ambasciate americane in Medio Oriente. Ma la proposta cozzò, oltreché con la verità storica, con svariate risoluzioni dell’ONU al riguardo. Ovviamente, eliminando l’aggettivo il problema è risolto e sia pure a spese della lingua.

Gli eventi più recenti hanno confermato questa capacità della politica israeliana di ispirare eufemismi. Ad esempio, sul televideo Rai la mattina del 4 gennaio abbiamo letto: “Gaza, in azione forze di terra israeliane”; e questo al fine di non parlare di “invasione”, termine che avrebbe potuto indurre qualcuno a ritenere eccessiva l’iniziativa israeliana e, soprattutto, a riflettere sul fatto che quei territori non sono parte dello Stato israeliano.

Il giorno dopo il presidente israeliano Peres ci ha detto che quella in corso era una “guerra

giusta “. 50 In questo modo per un verso ha adoperato uno dei classici meccanismi di costruzione degli eufemismi contemporanei: quello che consiste nell’accostare ad un sostantivo ripugnante (come la “guerra”) un aggettivo che dovrebbe nobilitarlo e renderlo quindi più accettabile. In altre occasioni si è parlato da parte israeliana di “guerra contro Hamas”. In questo caso però è un eufemismo lo stesso concetto di “guerra”. Infatti, come ha fatto notare Massimo D’Alema, “guerra contro Hamas è un’espressione partigiana dell’esercito israeliano. Si tratta di una vera e propria spedizione punitiva dove sono stati uccisi già circa 300 bambini”. 5’ Ma in altri casi lo stesso termine “guerra” è stato coperto da altri più eufemistici: ad esempio sul Financial Times del 7 gennaio è comparso un articolo dal titolo “Children pay a high price for turmoil”, con il termine “turmoil” che significa “tumulto”, “confusione” usato in maniera del tutto impropria, evidentemente al solo scopo di evitare il termine war

Ma l’attacco israeliano a Gaza ci ha regalato anche eufemismi di nuovo conio decisamente interessanti: come quello adoperato da Mark Regev, portavoce del governo israeliano, il quale in risposta alle critiche circa l’uso di armi proibite da parte dell’esercito israeliano ha detto che che Israele usa solo “armi democratiche”. 52 Forse intendeva riferirsi al fatto che tali armi vengono rivolte contro l’intero popolo palestinese.


7. La verità elusa


Dietro a tutte le mistificazioni degli avvenimenti, dietro a ogni occultamento e capovolgimento della verità dei fatti che abbiamo visto in opera dietro a tutto questo c’è una verità elusa. È il dato di fatto dell’occupazione militare di una terra e l’oppressione di un popolo che dura da 60 anni. Ed è l’esigenza che questa “enorme ingiustizia” abbia termine.


La guerra delle parole serve ad eludere quel dato di fatto e questa esigenza. A questo fine cospirano tutti i cliché (spesso di sapore direttamente razzista) che sono stati mobilitati in questi anni.


A partire da quello di Israele come “unica democrazia dell’area”. Salvo sottoporre quello che resta della Palestina ad un feroce blocco economico se in elezioni democratiche (e certificate come tali da tutti gli osservatori internazionali) vince un’organizzazione politica sgradita all”unica democrazia”. Ha detto bene Mustafa Barghouti in una lettera aperta scritta il giorno stesso dell’inizio dell’aggressione a Gaza: “arrivate a bordo dei caccia a esportare la retorica della democrazia, a bordo dei caccia tornate poi a strangolare l’esercizio della democrazia”. 53 Abbiamo poi il feticcio della “sicurezza di Israele”, che continua è così da decenni ad essere adoperato per legittimare azioni offensive e lesive del più basilari diritti dei Palestinesi. Allo stesso fine sono serviti lo spauracchio del “terrorismo” e del “totalitarismo islamista”.


° Cit. ne la Repubblica del 5 gennaio 2009. ‘ D ‘Alema: “Contro Hamas azione punitiva. Dalla stampa italiana solo propaganda “, la Repubblica, 13 gennaio 2009. 52 Cit. in R. Dovrat, “Bestie feroci”, il manifesto, 17 gennaio 2009. 53 M. Barghouthi, “Le menzogne di pace e la verità dei raid”, il manifesto, 31 dicembre 2008.

44
Il risultato di questa propaganda di guerra di stile neo coloniale è stato ed è quello di offrire una descrizione a parti invertite degli avvenimenti: per cui l’aggressore diventa colui che si difende, la vittima diventa il carnefice. 54

Le stesse vicende di queste settimane ci hanno mostrato come sia difficile affermare un punto di vista più giusto e equilibrato al riguardo. Le cose da fare per ottenere questo risultato sono ovviamente molte. La nostra strategia deve essere complessa e diversificata. Non c’è un unico punto di attacco.


Ritengo però che per conseguire risultati apprezzabili la nostra azione debba rivolgersi almeno in queste direzioni:


A) Capire che la guerra delle parole è decisiva. Questo significa che ogni termine è essenziale, e che ogni mistificazione su questo terreno va contrastata con estrema energia.


B) Lavorare sulla contraddizione propaganda/realtà. L’affermazione di Olmert “ribadisco che tratteremo la popolazione [di Gaza] con il guanto di velluto”, al pari della dichiarazione di Tzipi Livni secondo cui “non c’è alcuna crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, e quindi non c’è alcuna necessità di una tregua umanitaria”, non sono soltanto degli enunciati smaccatamente falsi. 55 Sono anche episodi rivelatori, sintomatici della necessità di mentire. La contraddizione propaganda/realtà va evidenziata e adoperata come un grimaldello con cui scardinare le ricostruzioni ideologiche e di comodo del conflitto israelo palestinese.


C) Sfruttare il potenziale della comunicazione iconica, come pure dell’ironia e della satira. A questo proposito credo che la cosa migliore da fare sia spiegarsi per mezzo di alcuni esempi. Con essi terminerò il mio contributo.


Per controbattere la propaganda sulla presunta “responsabilità di Hamas” qualcuno ha scelto di ricorrere a precedenti storici illustri:


“Quasi settant’anni fa, nel corso della seconda guerra mondiale, nella città di Leningrado fu commesso un crimine efferato. Per più di 70 giorni, una banda di estremisti chiamata “Armata Rossa” tenne in ostaggio milioni di abitanti di quella città e, così facendo, provocò la rappresaglia della Wehrmarcht tedesca dall’interno. I tedeschi non ebbero altra alternativa, se non bombardare la popolazione e imporre un blocco totale causando la morte di centinaia di migliaia di persone. Un po’ di tempo prima, un crimine simile era stato commesso in Inghilterra. La banda di Churchill si era nascosta tra la popolazione londinese, sfruttando milioni di cittadini come scudi umani. I tedeschi furono costretti a inviare la Luftwaffe e, sebbene con riluttanza, a ridurre la città in rovine. Lo chiamarono il Blitz.” 56

Emblematico 54 al riguardo l’editoriale di Piero Ostellino, dal titolo “Chi sono i veri responsabili”, pubblicato sul Corriere

della Sera del 5 gennaio 2009, in cui tutta ma proprio tutta la vicenda degli ultimi 60 anni è vista a parti rovesciate.
55 Ehud Olmert, cit. in J.Hilal, cit., 16 gennaio 2009; Tzipi Livni, dichiarazioni rese a Parigi il 10 gennaio 2009.
56 U. Avnery, “Distrutta ma non sconfitta, così Hamas riuscirà a vincere “, il manifesto, martedì 13 gennaio 2009.

45
Quanto alle menzogne di guerra sui civili “scudi umani di Hamas”, Vauro ha infine scelto di confutarle così:

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D)
(il manifesto, 16 gennaio 2009)



(*) Viadimiro Giacché si è laureato e perfezionato in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa. Lavora nel

settore finanziario. È autore di volumi e saggi di argomento filosofico ed economico, fra i quali Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel (Pantograf 1990), La filosofia. Storia e testi (con G. Tognini, La Nuova Italia 1996) e Storia del Mediocredito Centrale (con P. Peluffo, Laterza 1997). Ha pubblicato nel 2005 per Deriveapprodi “Escalation. Anatomia della guerra infinita (con A. Burgio e M. Dinucci) e nel 2008 “La fabbrica del falso Strategie della menzogna nella politica contemporanea”. Suoi articoli e saggi sono stati pubblicati in volumi collettanei e su numerose riviste italiane e straniere.

Indice.



Medio Oriente, Escalation Militare, Rischi di Guerra Nucleare di Angelo Baracca*
Università di Firenze
(trascrizione a cura di ISM Italia rivista dall’autore)



Comincio con una chiosa all’intervento che Angelo d’Orsi ha fatto questa mattina. Perché credo che sia un po’ limitativo dal mio punto di vista, che so essere abbastanza radicale e può darsi che molti dei colleghi presenti dell’università non lo condividano, sul tradimento dei chierici. Il mio parere è che ci sia stato, e non da oggi, un fallimento storico del ruolo degli intellettuali: o almeno rispetto al ruolo che gli intellettuali stessi hanno definito per se stessi! Gli intellettuali sono sempre stati nella stragrande maggioranza servi del potere, dei regimi in cui operavano, per cui non c’è stato nessun tradimento, semplicemente un’ulteriore conferma! Le eccezioni a questo tradimento sono certo state significative (Gramsci, Pasolini, Chomsky, per limitarmi ad alcuni esempi), ma eccezioni che confermano la regola. E vorrei dire anche che nel caso presente il rifiuto, che so che alla fine prevarrà, degli scienziati a interrompere la collaborazione con le università israeliane va in quella direzione, è la stessa cosa, in nome della libertà, della scienza, e della ricerca, ma a mio parere è una grande mistificazione (anche la tesi che la scienza fondamentale sia neutra lo hanno inventato gli scienziati).

Ma veniamo al tema che voglio sviluppare, che s’innesta nelle analisi che sono state fatte.

Riprenderò anche alcune cose e cercherò di dare il mio modesto contributo ad analizzare perché Israele ha questo ruolo e questo appoggio incondizionato. Frankel diceva stamattina, e io lo riprendo semplicemente perché ha detto cose che anch’io avrei voluto dire, che Israele ha un ruolo ben preciso in quella regione Il ruolo di collaudare, di sperimentare delle strade, delle soluzioni, dei metodi.

Direi che con l’avvio della decolonizzazione, Israele in quella regione ha supplito al ruolo che prima le potenze coloniali svolgevano direttamente, per cui funge da gendarme, che controlla, e fa agente che sperimenta nuove soluzioni per l’assetto della regione, il suo controllo e la sua trasformazione. È stato più volte osservato come gli USA in Iraq abbiano adottato metodi già sperimentati da Israele nelle proprie guerre e nei territori che controlla militarmente. In questo ruolo di Israele, la questione palestinese è cruciale, fa parte di una strategia tesa a mantenere le masse arabe sotto il controllo di regimi moderati. Qual è infatti il gioco in questo momento? L’ANP al posto di Hamas: prima il grande nemico era Arafat, poi l’ANP è diventato invece collaboratore e Hamas il nemico, sempre in modo da non arrivare a una soluzione del problema, ma di proseguire sempre in questa strada.

Del resto questo ruolo viene da lontano. Io ho conservato un articolo de Le Monde Diplomatique del giugno 2007 sulla guerra del 1967, l’articolo era di Henri Laurent, un cattedratico della Sorbona, e mi sono appuntato due cose. Gli israeliani attaccarono, distrussero l’aviazione egiziana il 5 giugno 1967, ma cinque giorni prima, il 31 maggio, il capo del Mossad arriva a Washington dove incontra McNamara e il direttore della CIA e, scrive il giornalista, sa come parlare agli americani. “Miei amici” li chiamava e adotta la loro teoria del “dominio” che viene dalla storia americana e la applica al Medio Oriente: “Se Nasser vincesse la partita, tutta la regione fino alla frontiera sovietica ricadrebbe sotto dominazione araba. Israele ha bisogno di un impegno americano a lungo termine e di protezione immediata nell’eventualità di un intervento sovietico.”

Quindi è un ruolo ad ampio raggio che ricopre in quella regione. Il giorno prima dell’attacco, il 4 giugno, uscì un’analisi del consigliere americano del presidente, che si chiamava Walter Rostow, che faceva previsioni sul futuro in un memorandum, ipotizzando che ci fosse la guerra che scoppiò il giorno dopo: secondo il memorandum “gli arabi moderati che temono l’espansione dell’Egitto di Nasser, preferiscono vederlo sconfitto da Israele piuttosto che da forze esterne. In questo caso nuove potenzialità si aprirebbero per la regione, la moderazione prevarrebbe in Medio Oriente”. Ecco il ruolo di mantenere tutte le popolazioni del Medio Oriente soggette a regimi moderati. Questo ruolo più recentemente, come ricordato stamattina, si è svolto con l’attacco al Libano dell’agosto 2006, e anche qui ricordo una affermazione di Condoleeza Rice che disse che quell’attacco era «un passo verso un nuovo Medio Oriente». Era veramente una sperimentazione di tipo nuovo. E io sono convinto che se in quella guerra Israele non fosse stato sconfitto, l’attacco all’Iran sarebbe avvenuto. Io credo che il disco rosso


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all’attacco di Israele all’Iran, da parte dell’Amministrazione Bush, sia venuto anche da una scarsa affidabilità mostrata da Israele in quella sperimentazione.

Ma nel settembre del 2007 Israele ci ha riprovato: l’attacco alla Siria, di cui si è parlato molto poco, è stato un altro di quei passi che facevano parte di una sperimentazione, passo che è stato coperto dagli Stati Uniti e dalle altre potenze, ma è stato un attacco molto grave. Tra l’altro Israele ha nascosto le prove, e questo lo dichiara il direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, El Baradei: per cui ormai è impossibile sapere che cosa ci fosse nel luogo dell’attacco.

A questo ruolo di Israele è legata la complicità delle potenze occidentali nel favorire la costruzione del suo arsenale nucleare che venne facilitata fin dagli anni ‘60 dalla collaborazione diretta della Francia, e doveva garantire la sua supremazia assoluta e inattaccabile nella regione e nel coprire poila sua esistenza, al di fuori del Trattato di Non Proliferazione. Si dice che Israele non ha mai fatto test delle proprie testate nucleari, non è vero, Israele ha sperimentato le bombe che ha fatto con i francesi nei test francesi nel Sahara dal 1960. Israele ha collaborato all’arsenale nucleare del Sud Africa quando c’era l’apartheid alla fine degli anni ‘90, è la punta di diamante in tutte queste sperimentazioni. Io tra l’altro credo che oggi si possa leggere la scelta di consentire e di legittimare questo arsenale di Israele, occultato, mai dichiarato, sempre coperto a posteriori, come una incrinatura inferta fin dal suo nascere al regime di non proliferazione, come una sorta di precedente per ulteriori violazioni che si rendessero necessarie, o per inficiare il regime quando divenga necessario: perché se c’è un paese che di nascosto e senza mai dichiararlo può realizzare delle bombe il regime di non proliferazione è incrinato dalle fondamenta.

Oggi giorno la Corea del Nord, il Pakistan, l’India vengono come conseguenza, credo che sia una reazione a catena che si possa rapportare a quel vulnus originario.

Ma non c’è solo l’arsenale nucleare, molti hanno ricordato le nuove armi che Israele sperimenta: anche in questo caso si tratta di una sperimentazione per conto dell’industria bellica statunitense, e del Pentagono, che queste armi le forniscono a volontà. Le armi di tipo nuovo vanno sperimentate, non si possono usare senza sapere come funzionano, e qui c’è la funzione di Israele.

E non oggi è la prima volta, ricordo che quando ci fu l’attacco al Libano nel 1982 vennero sperimentate nuove armi da Israele. Ricordo un dossier di Le Monde Diplomatique tipico di quei tempi che discuteva le armi nuove che Israele sperimentava contrarie al diritto internazionale: sono armi in molti casi nemmeno rientrano nel diritto internazionale, perché le regolamentazioni internazionali possono solo proibire le armi che si conoscono, quelle che non si conoscono non si possono proibire. Si esperimenta qualche cosa che va al di là, che incrina il regime internazionale,

come l’arsenale nucleare di Israele ha incrinato il regime di non proliferazione nucleare.

Questi aspetti si collegano a mio parere anche ad aspetti strategici più generali ai quali ora accennerò. Non solo c’è il compito di fare da cane da guardia all’Iran in questa zona: per inciso, concordo molto con quello che Frankel diceva questa mattina sul ruolo di Tehran. Non vorrei essere frainteso, in nessun modo vorrei che l’Iran si faccia la bomba, deve essergli impedito (all’Iran come a qualunque altro Stato), ma per questo non è certo necessario bombardarlo. Però concordo con quanto diceva Frankel. Se anche l’Iran si dotasse della bomba, cosa potrebbe fare, la potrebbe usare?

Mi è rimasto impresso che, quando la Corea del Nord nell’ottobre del 2006 ha esploso la sua bomba nucleare, uscì un commento proprio su un giornale israeliano, come era riportato dal manifesto, che diceva «ora che se la Corea del Nord ha la bomba non può più essere attaccata». Questo è il ruolo di deterrenza delle armi nucleari. Se anche l’Iran radesse al suolo il territorio israeliano, poniamo con dieci bombe, Israele ha cinque sommergibili armati con missili nucleari, praticamente indistruttibili, e quindi potrebbe sempre reagire cancellando dalla carta geografica l’Iran. Quindi l’Iran non potrebbe mai usare questa arma, ma il punto è che Israele perderebbe questa supremazia incontrastata che gli permette eventualmente di poter attaccare chiunque nella regione.

C’è un altro punto che secondo me è importante discutere e tenere presente, dagli anni ‘90 si è stabilito un asse militare sempre più importante tra Israele e India: questo asse passa per l’Afghanistan e ha il Pakistan come un punto di snodo. In Afghanistan l’India collabora con il regime di Kabul,

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collabora con le potenze occidentali. Mentre il Pakistan si trova i talebani in casa, deve in qualche modo gestire questa situazione, e si trova tra l’altro soggetto agli sconfinamenti degli USA che vanno a bombardare violando il territorio pakistano impunemente: anche qui Israele insegna.

Ovviamente il Pakistan, benché abbia il regime che sappiamo, non gradisce molto questi sconfinamenti. Il Pakistan è una potenza nucleare ed è l’unica al mondo che ha le armi nucleari in mano ai militari, quindi il giorno che ci sia una reazione di qualche tipo rischiamo di avere una guerra nucleare. Questi collegamenti, queste alleanze, confermano e aggravano il ruolo di Israele in tutta la regione asiatica sud occidentale: in tutta questa regione asiatica che è cruciale per le strategie future Israele è un perno fondamentale.

A questo punto vorrei allargare, sia pur brevemente, l’analisi per introdurre un altro elemento di estrema gravità e importanza, che a prima vista potrebbe sembrare non direttamente legato al Medio Oriente. Sta avvenendo a livello mondiale, soprattutto ad opera degli Stati Uniti, un salto mostruoso nel sistema degli armamenti, che aumenta drammaticamente i rischi di guerra nucleare.

Tutti sappiamo che c’è il progetto di installazione di parti del sistema di difese missilistiche, lo chiamiamo comunemente lo “Scudo” missilistico, in Europa in Polonia e nella Repubblica Ceca, che in parte è una forma di ulteriore pressione militare e politica verso la Russia. Quello che però comunemente non si sa, perché non viene detto, è che questa difesa missilistica di cui parliamo è solo una tra un numero molto grande di difese missilistiche che gli Stati Uniti, e non solo loro, stanno sviluppando.

Gli Stati Uniti parlano di una difesa a molti strati (multi layered) che ha molte componenti, di ogni tipo, livello e obiettivo: difese strategiche, tattiche, di teatro; per intercettare i missili in tutte le fasi di volo. Vi è un numero molto grande di tali sistemi: la marina ha un paio di progetti, l’aviazione un paio di progetti, l’esercito un paio di progetti. Si tratta un programma colossale, che si lega in modo naturale anche nel progetto di installazione delle armi nello spazio esterno alla terra. La militarizzazione dello spazio è la nuova frontiera delle guerre future, un salto estremamente pericoloso: sia gli Stati Uniti che la Cina hanno già sperimentato armi antisatellite (ASAT), anche se hanno detto che lo hanno fatto per abbattere satelliti che erano diventati pericolosi, ma queste capacità sono state sperimentate, diventano disponibili. Si sta sviluppando un salto nel sistema di armamenti che è mostruoso, io lo paragono solo al salto che ci fu quando negli anni ‘60 vennero introdotti i missili balistici intercontinentali: prima le armi nucleari venivano trasportate dai bombardieri strategici, i missili intercontinentali rivoluzionarono completamente le strategie militari nucleari. Siamo di fronte a un salto di questo tipo, la costruzione di un mostruoso sistema militare offensivo, perché chiaramente non ha nulla di difensivo: ci si difende dalle reazioni che vengono provocate proprio da questi sviluppi, ma il loro scopo è offensivo. Un sistema sempre più complesso, diviene sempre più incontrollabile, soggetto ad errori, che in questo caso hanno conseguenze catastrofiche, l’olocausto nucleare!

In questo quadro il processo di disarmo nucleare che in qualche modo si era avviato dopo la fine della guerra fredda si è fermato alla fine del secolo scorso, e oggi va molto a rilento: ma non per caso, credo che ormai sia cambiato completamente il vento e il disarmo nucleare non è più nei programmi delle potenze nucleari, le quali hanno deciso che manterranno per sempre le armi nucleari; anche se molto lentamente ne riducono il numero, le stanno ammodernando e integrando in questo sistema mostruoso, per il quale non ne servono 70.000 come ai tempi della guerra fredda, ne bastano poche migliaia, o anche centinaia. Non è un disarmo nucleare, è soltanto un adeguamento a una nuova strategia e a un nuovo sistema più efficiente e molto più pericoloso.

Anche in questo campo Israele gioca un ruolo di punta. Nel ‘91, se vi ricordate, sperimentò il sistema dei missili Patriot per abbattere i missili Scud iracheni, che non si dimostrò molto efficiente ma fu collaudato. Attualmente ha sviluppato il sistema Arrow di difesa contro i missili balistici,

costruito dalle Israel Aerospace Industries con la Boeing. Due anni fa Olmert e l’allora ministro della difesa Peretz approvarono i sistemi anti missili Iron Dome e Magic Wand, tra i più avanzati del mondo. Ma circa un anno fa Olmert ha dichiarato il suo appoggio alle Rafael Advanced Industries per l’ulteriore sviluppo di un sistema di difesa multi layered.

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I rischi di guerra nucleare secondo me sono oggi veramente molto concreti. L’arsenale nucleare israeliano, che non è stato mai ammesso, è un macigno sul cammino del disarmo nucleare: finché ci sarà l’arsenale nucleare israeliano nessun altro paese disarmerà.

Chiudo solo ripartendo dal punto dal quale avevo iniziato. Credo che oggi giorno l’interruzione delle collaborazione scientifiche con le università e i centri di ricerca israeliani sia un tema che va rilanciato. In Israele c’è un complesso militare industriale universitario di ricerca che è ancora più compatto di quello degli Stati Uniti, non si può andare a distinguere chi fa ricerche civili e chi fa ricerche militari perché tutto è strettamente integrato, bisogna dare un segnale forte, non sarà raccolto dalla maggioranza dei colleghi, ma il segnale va dato, bisogna chiedere con forza che vengano interrotte tutte le collaborazioni.


(*) Angelo Baracca (1939) è professore di fisica presso l’Università di Firenze. Al lavoro di ricerca e di insegnamento ha sempre affiancato l’impegno su temi di carattere sociale. Fino dagli anni Settanta è stato attivo nel movimento antinucleare ed eco pacifista. Si è occupato specificamente di armamenti nucleari e disarmo, su cui ha pubblicato recentemente per la Jaca Book A Volte Ritornano. Il Nucleare (2005), aggiornamenti annuali sugli armamenti nucleari per l’«Annuario Armi Disarmo Giorgio La Pira», e L’Italia Torna al Nucleare? (2008). È tra i fondatori del «Comitato Scienziate e Scienziati Contro la Guerra». Ha contribuito al volume collettivo L’Alternativa Mediterranea (2007), curato da Franco Cassano e Danilo Zolo, con un capitolo su «L’Assedio Militare».


In allegato:

URGENTE su Mobilitazione Palestina, di Angelo Baracca, 05 012009

Ilmanifesto2009Ol22 POLEMICA Scienza e guerra, non c’è neutralità Boicottare le università di Israele?, di Angelo Baracca

Indice.



ISM Italia Forumpalestina Sguardo sul Medio Oriente

"La guerra israelo occidentale contro Gaza"

Atti del seminario Parte prima*Sezione 2** bozza n. 2 in corso di ulteriore revisione



Roma, 24 gennaio 2009
Centro Congressi Cavour








in memoria di Hikmat Nabulsi in memoria di tutte le vittime delle ... "vittime" in memoria di Stefano Chiarini



"Verrà il tempo in cui i responsabili dei crimini contro l'umanità che hanno accompagnato il conflitto israelo palestinese e altri conflitti in questo passaggio d'epoca, saranno chiamati a rispondere davanti ai tribunali degli uomini o della storia, accompagnati dai loro complici e da quanti in Occidente hanno scelto il silenzio, la viltà e l'opportunismo."


* seguirà una parte seconda con le domande dei partecipanti e le risposte dei relatori

Indice.



Palestina e Israele. Le impossibili simmetrie di Sergio Cararo» (Forum Palestina)

La lotta di liberazione del popolo palestinese sembra aver perduto molti amici negli ultimi sette/otto anni. In parte può essere come prevedevamo con Stefano Chiarini l'effetto più immediato dell'il settembre (valutazione questa che ci convinse a fondare il Forum Palestina nell'ottobre del 2001), ma in parte e forse quella più rilevante questo nuovo tradimento dei chierici verso i palestinesi è dovuto alla capitolazione politica, culturale e morale che ha conformato gran parte della sinistra italiana e che l'ha portata al dissolvimento. Questo passaggio di campo è avvenuto quasi repentinamente, in meno di otto anni.

Fino a quando il mondo è stato diviso in due dal bipolarismo USA/URSS, i partiti della sinistra, i sindacati e le associazioni erano schierate con nettezza contro l'occupazione militare e coloniale israeliana dei territori palestinesi. Alcuni manomettono questo dato affermando che fino agli anni Ottanta l'Intifada palestinese era pacifica e utilizzava al massimo solo i sassi creando cioè una asimmetria evidente tra le truppe israeliane armate di tutto punto e i giovani shebab che usavano fionde, sassi, disobbedienza civile e morivano a grappoli sotto il fuoco dei soldati israeliani e dei coloni. Era una asimmetria accettabile per la coscienza civile della sinistra europea. Nessuno si è chiesto se lo fosse anche per i giovani palestinesi che subivano quella repressione senza potervi rispondere adeguatamente.

Con gli anni Novanta e gli accordi di Oslo, la coscienza politica della sinistra europea ha smobilitato e si è in qualche modo affrettata a correggere questa asimmetria evidente e legittima tra occupanti e occupati, impugnando la nascita dell'Autorità Nazionale Palestinese come se l'obiettivo della causa palestinese fosse stato raggiunto e i fattori asimmetrici fossero dissolti.

Israele e ANP acquisivano così lo stesso peso, gli stessi diritti, il rispetto delle medesime aspettative e quindi irrompeva nella scena politica diventando egemone la posizione dell'equidistanza tra palestinesi e israeliani riassumibile nel mantra dei due popoli per due stati. Ma dal 2001 in poi questa equidistanza, questa impossibile simmetria ha assunto via via come dominante il carattere della complicità con il progetto israeliano e dell'abbandono del sostegno alla causa palestinese.

Il passaggio alla complicità con Israele che abbiamo visto all'opera in questi giorni di carneficina a Gaza e con l'intero schieramento politico a sostegno della versione di Tel Aviv, ha avuto come snodo proprio quella equidistanza contro cui ci siamo battuti fin dall'inizio e che si regge su una simmetria artificiale tra i diritti dei palestinesi e il progetto israeliano.

La sintesi di questa equidistanza è stata proprio la parola d'ordine due popoli due stati. Eppure anche ad occhio in questa simmetria quasi perfetta c'erano delle discrepanze ben visibili:

Lo stato israeliano esiste da sessanta anni e quello palestinese No;

Le mappe dimostrano che lo stato palestinese così come sono andate le cose non può esistere; Tutti quando parlano dei diritti di ambedue, parlano sempre di diritto alla sicurezza di Israele ma mai di diritto alla sicurezza anche per i palestinesi.

"Noi auspichiamo mobilitazioni unitarie a sostegno del popolo palestinese e dei suoi diritti, primo fra tutti quello ad una patria libera e dello Stato di Israele, ad una piena integrità e sicurezza" scriveva un documento dei DS nell'aprile del 2002, concetto confermato da una intervista a Fassino su La Repubblica del 7 aprile che però aggiungeva "Rappresentare Israele come uno Stato militarista, aggressore o come qualcuno dice fascista è una sciocchezza" per avanzare poi le sue proposte di soluzione: "Primo mettere fine ad ogni attività terroristica


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contro Israele, secondo fermare l'intervento militare e riannodare i fili del negoziato, terzo una iniziativa internazionale nel ricostruire il percorso di pace".

Ma anche il PRC di Bertinotti proprio in quei giorni maturava posizioni non troppo dissimili da quelle di Fassino. Nel documento per il congresso che si sarebbe svolto tra marzo e aprile 2002 con la Cisgiordania messa a fuoco e fiamme dall'offensiva israeliana ci si limitava ad una frase che auspicava la necessità di "accompagnare la composizione del conflitto israelo palestinese". Un anno dopo nel documento per il CPN del maggio 2003, la questione palestinese veniva liquidata nelle seguenti sette parole "Il conflitto tra Palestina e Israele continua." Punto, tutto qua..

La questione palestinese cioè una lotta di liberazione dall'occupazione militare e coloniale che dura dal '48, veniva ridotta ad un conflitto simmetrico, tra due parti di uguale potenza e diritti da rivendicare, che andava ricomposto.

Da allora l'intero arco della sinistra non è mai più andato oltre il mantra "Pace in medio oriente, due popoli, due stati". La questione della sicurezza di Israele è diventata lo snodo irrinunciabile intorno a cui tutte le altre questioni a cominciare dal Muro dell'apartheid condannato dalla Corte Internazionale dell'Aja andavano subordinate.

Ma come può reggere una simmetria sul tema della sicurezza tra una potenza nucleare e con armamenti enormi e sofisticati, che dovrebbe essere garantita da un popolo senza esercito e dotato di armi leggere o al massimo di qualche missile artigianale o dei corpi dei propri martiri?

Come è possibile che uno stato che non esiste debba e possa assicurare la sicurezza ad uno che esiste ed è tra le maggiori potenze militari del mondo?

Eppure questa evidente sproporzione ha prodotto anche nelle file dei movimenti, della sinistra, della solidarietà, una sorta di simmetria del dolore e delle forme di lotta. Particolarmente dannosa è stata la chiave di lettura sulla spirale guerra terrorismo come aspetti complementari del problema ed anche quella semplificazione eurocentrica che liquida il tutto come risultato di un conflitto tra opposti fondamentalismi. Neanche Fanfani sarebbe mai stato così banale.

Ci siamo dilaniati in questi anni su piattaforme che mettevano sullo stesso piano le truppe israeliane e gli attentati suicidi, e in questi giorni abbiamo visto lo stesso sui bombardamenti israeliani su Gaza messi sullo stesso piano dei razzi Qassam sparati dai palestinesi. I primi hanno causato 1315 morti e 6ooo feriti, i secondi hanno causato 13 morti di cui dieci militari. Creare una simmetria di dolore tra queste cose e farne una discriminante politica è francamente inaccettabile. Per questo la gente è venuta a manifestare a Roma e non è andata ad Assisi.

Questa spasmodica ricerca di una posizione equidistante (quel né né che ci rimbalza nelle orecchie dalla vergognosa guerra umanitaria in Jugoslavia ed anche prima) ha depotenziato qualsiasi azione efficace contro l'occupazione e l'offensiva israeliana sia sul piano mediatico che su quello diplomatico.

Dietro quella categoria comune di "Pace in Medio Oriente, due popoli, due stati" inteso come massimo contenuto possibile di mobilitazione si è cancellata la storia, la complessità, la verità e il senso di giustizia verso i palestinesi. In qualche modo si è introiettata quella logica dei due pesi e due misure che tanta rabbia provoca nelle popolazioni di tutta l'altra sponda del Mediterraneo.

Sotto questa cornice inossidabile e rassicurante si è infatti applicato un vergognoso embargo a Gaza nel 2006 quando la popolazione già era in emergenza umanitaria ma ci si è


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ben guardati dal sospendere l'accordo di cooperazione militare tra Italia e Israele. Si continua a negare il diritto al ritorno dei profughi palestinesi ma nessuno mette in discussione il diritto di un cittadino ebreo del Canada di insediarsi in Israele o in una colonia israeliana in Cisgiordania. Si applicano sanzioni all'Iran che ancora non ha le armi nucleari e accetta le ispezioni dell'AIEA ma non si applicano sanzioni ad Israele che già dispone di un arsenale nucleare e non accetta le ispezioni dell'AIEA.

Soprattutto si è accettato quel dogma della sicurezza che i palestinesi dovrebbero assicurare a Israele ma non viceversa il quale è un fattore che annulla tutti gli altri. La sicurezza è diventata come una fede che non ha bisogno e non dà spiegazioni. Va accettata senza discutere. Questo è valido da un capo di stato fino ad un bigliettaio della metropolitana di Roma che invoca la sicurezza per non dare spiegazioni e che solo davanti ad un tesserino da giornalista non ha potuto commettere un abuso di potere. Accettare il terreno della sicurezza significa voler rendere simmetrica una situazione che non lo è e non lo sarà mai.

Quando sentiamo che la parola d'ordine "Pace in Medio Oriente, due popoli due stati" è regolarmente alla base delle dichiarazioni di Bush e di chi marcia ad Assisi, di Olmert e della sinistra europea, di Mubarak e della destra europea, non possiamo non chiederci se c'è qualcosa che non quadra. Come mai un progetto così definito e con un consenso così unanime non ha fatto un passo in avanti (anzi) negli ultimi quindici anni? Prima l'ostacolo era Arafat, ma Abu Ammar è stato prima isolato, assediato e poi forse ucciso. Poi l'ostacolo è diventato Hamas che ha vinto le elezioni. Domani sarà il contenuto delle preghiere del venerdì alla moschea di Al Aqsa a Gerusalemme e dopodomani il contenuto dei libri di testo degli alunni palestinesi e così via...

Noi dobbiamo rovesciare la logica ed anche rovesciare il tavolo dove ci vorrebbero costringere a ragionare ed agire.

Se in Medio Oriente il problema sono i rapporti di forza con Israele e la solitudine dei palestinesi traditi dai regimi arabi reazionari e filoimperialisti, il problema qui da noi nei nostri dibattiti e nella nostra azione politica è liberarsi dalla cultura e dalla logica eurocentrica e rompere il tabù del dibattito sul sionismo per affrontarlo in quanto ideologia e progetto politico coloniale perfettamente aderente alla logica colonialista nata proprio qui in Europa.

Tant'è che volevano dedicare la Fiera del Libro di Torino a Israele senza parlare della Palestina. Pensavano di poterlo fare senza problemi e con grande normalità, consumando così un vero e proprio politicidio della cultura, della identità e della storia dei palestinesi come se non esistessero, come se i popoli colonizzati fossero un dettaglio irrilevante della storia contemporanea. (e fortunatamente glielo abbiamo impedito).

Anche su questo è scattata un'altra impossibile simmetria contro cui dobbiamo batterci apertamente e cioè che chi è antisionista è anche antiebraico (non uso la categoria antisemitismo perché è sbagliata in tutti i sensi). Questa impossibile e inaccettabile simmetria ha trovato espressione anche nelle parole della più alta carica istituzionale della nostra repubblica: il Presidente Napolitano.

Una domanda. Ma chi si oppone alla destra al governo e alla sua ideologia xenofoba, razzista, prevaricatrice è forse anti italiano? O chi ha lottato contro i neoconservatori statunitensi è antiamericano? Oppure la politica, le ideologie, il posizionamento politico, la storia, hanno una loro logica e un loro ruolo negli sviluppo degli avvenimenti?


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I sionisti italiani (che non sono necessariamente ebrei ma sono coloro che aderiscono appunto ad un progetto politico) sostengono che il sionismo è come il Risorgimento italiano. Vogliamo discutere di almeno un paio di questioni?

La prima è che va detto che non tutti gli ebrei europei erano o sono sionisti. C'erano infatti anche i Bundisti (che avevano l'egemonia fino agli anni Trenta essendo legati alle correnti ideologiche del movimento operaio in crescita in tutta Europa). Vogliamo dirlo che i sionisti hanno collaborato con le forze più reazionarie europee per indebolire e annientare i bundisti? Vogliamo dirlo che l'insurrezione del Ghetto di Varsavia è stata guidata dai bundisti e dai comunisti anche contro quei sionisti che collaboravano con l'occupazione nazista?

Secondo. Se il Risorgimento italiano ha portato ad una delicata (e oggi vediamo ancora quanto fragile) unità nazionale del paese, possiamo negare che quella del Tirolo e di alcuni parti della Slovenia e della Croazia è stata una annessione colonialista prima e fascista poi? Che il Risorgimento e il nazionalismo di stampo liberale ha prodotto anche il colonialismo italiano in Africa, l'ideologia della Quarta Sponda e della Grande Proletaria che si è mossa?

Dentro la storia, le forze in campo si dividono per classi sociali, per ideologia, per interessi materiali e ambizioni politiche. L'unicità dell'ebraismo intorno al sionismo e dunque intorno al progetto di uno stato ebraico in Israele, è una menzogna smentita dalla storia e dall'attualità.

Ci sono stati nella storia e ci sono oggi migliaia di ebrei in Israele e nel mondo che non sono affatto sionisti e al contrario si battono in quanto soggetti politici contro il progetto sionista.

Il peso dello sterminio degli ebrei in Europa da un lato ha trasformato un orrore indiscutibile in uno standard acritico che devia e condiziona continuamente il dibattito sulla questione palestinese, dall'altro ha innescato un blocco nel dibattito e nell'analisi storica che ha privato la sinistra di ogni supporto intellettualmente attivo che l'ha inchiodata alla ritirata culturale e politica davanti alla spregiudicatezza degli apparati ideologici dello stato israeliano.

Avendo accettato senza reagire che gli storici, i giornalisti, gli intellettuali, i registi italiani, europei, israeliani e palestinesi venissero ostracizzati o ridotti al silenzio dagli anatemi dei gruppi sionisti (vedi Asor Rosa o Santoro, Costanzo e tanti altri), la sinistra da dove poteva attingere le idee per rinnovare una identità internazionalista adeguata alle sfide del XXI' secolo?

La riuscita della grande manifestazione di sabato scorso e la campagna per il boicottaggio della Fiera del Libro dedicata a Israele a maggio, hanno dimostrato che se c'è ed agisce concretamente una soggettività attiva, una rete di associazioni, attivisti, intellettuali con una logica internazionalista e che non abbassa la testa e non capitola davanti agli assalti del blocco sionista in Italia, può accadere che gli intellettuali, i giornalisti, il popolo della sinistra e finanche qualche dirigente politico prenda coraggio e che i palestinesi si sentano finalmente meno soli nella loro lotta di liberazione che in qualche modo contribuisce a liberare anche noi stessi dai tabù culturali e dall'opportunismo. Come abbiamo promesso anni fa ad una donna palestinese nei campi profughi in Libano "Noi non molleremo" fino a quando non sarà assicurata una pace ma con giustizia per il popolo palestinese e nel Medio Oriente. Come ha detto Gino Strada due anni fa "Oggi è come ti schieri contro guerra e non sulla pace la vera discriminante". Siamo convinti che nessuna pace sia possibile o accettabile in Medio Oriente senza rendere giustizia al popolo palestinese.


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(*) Sergio Cararo, giornalista, è direttore di Radio Città Aperta e del periodico «Contropiano». Ha

pubblicato: No/made Italy (et al., Mediaprint, 2001); La coscienza di Cipputi (et al., ivi, 2002); L'impossibile

simmetria. Palestina e Israele nell'epoca della guerra infinita (Contropiano, 2002); e Cuba. Orgoglio e pregiudizi (con Mario Baldassarri, Achab, 2005). Collabora a diverse riviste, tra le quali «La Rinascita della Sinistra», «L'Ernesto», «Proteo», e al progetto televisivo «Pandora».


Indice.



La Risposta Italiana all'Appello Palestinese al Boicottaggio (BDS) del 9 LUGLIO 2005

di Diana Carminati, storica, già Univ. di Torino


Avvertenza

Questo intervento, deciso a metà novembre del 2008, intende esporre il percorso storico di risposta della società civile europea ed italiana all'Appello per il BDS (Boycott, Divestment and Sanctions) che 172 Ong della società civile palestinese sottoscrissero il 9 luglio 2005, di come si svolsero le discussioni, gli incontri europei, e i documenti che ne uscirono.

Non vuole assolutamente suscitare polemiche, soprattutto dopo l'invasione e il massacro di popolazione, operato dall'esercito israeliano a inizio gennaio 200, a Gaza.

Vuole essere un documento di testimonianza sugli esiti delle discussioni e delle iniziative che seguirono tra il 2005 e 2008 organizzate dai gruppi dei movimenti pacifisti e di solidarietà europei e in Italia. Vuole offrire un contributo per ora parziale su questo tema per riflettere su quanto è stato fatto, come, con quale efficacia o meno, esporre alcuni nodi cruciali, le critiche.


Che cos'è il BDS

Nel gennaio 2005 una ong palestinese Occupied Palestine and Syrian Golan Heights Advocacy Iniziative (OPGAI) presentò un appello per il BDS contro Israele al V° Forum Sociale di Porto Alegre. Un'altra associazione PACBI (The Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel) lavorava congiuntamente, già dal 2004, con il BRICUP (British Committee for Universities of Palestine e con AUT (Association of University Teachers), per adottare un boicottaggio accademico di alcune università israeliane (www.pacbi.org)

Il 9 luglio 2005, nel primo anniversario del Parere consultivo della Corte internazionale di giustizia di Ginevra contro la costruzione del Muro in Cisgiordania, i rappresentanti di 172 organizzazioni della società civile palestinese, che rappresentavano le tre parti integranti del popolo di Palestina: i profughi palestinesi in altri paesi, i palestinesi sotto occupazione e i palestinesi cittadini di Israele, sottoscrivevano il seguente appello:

"( .... ) Noi, rappresentanti della società civile palestinese, chiediamo alle organizzazioni internazionali della società civile e agli uomini di buona volontà di tutto il mondo di imporre ampi boicottaggi e realizzare iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sud Africa nel periodo dell'apartheid.

Noi facciamo appello a voi perchè facciate pressione sui vostri rispettivi stati per imporre embargo e sanzioni contro Israele.

Noi invitiamo anche gli israeliani di buona volontà a sostenere questa richiesta, nell'interesse della giustizia e di una pace effettiva.

Queste misure punitive non violente dovrebbero essere mantenute fino al momento in cui Israele fa fronte ai suoi obblighi di riconoscere il diritto inalienabile del popolo Palestinese all'autodeterminazione e di rispettare completamente le indicazioni del diritto internazionale:

TI. Ponendo termine alla occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellando il

Muro

2. Riconoscendo i diritti fondamentali dei cittadini Arabo Palestinesi di Israele alla piena

uguaglianza

3. Rispettando, proteggendo e promuovendo i diritti dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro

case e nelle loro proprietà come stabilito nella risoluzione 194 dell'ONU


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Nel suo significato più politico, l'Appello non proponeva soltanto di porre fine all'occupazione, ma, nei punti 2 e 3 aveva come obiettivo di "sfidare" l'ideologia sionista dello stato israeliano come stato ebraico.'

All'Appello aderirono successivamente, nell'arco degli ultimi 3 anni, molte organizzazioni in Gran Bretagna, Canada (ong di Quebec), Belgio, ISM France, Veterans for Peace, studenti e aderenti di facoltà dei campus americani, alcune municipalità in Norvegia, il partito socialista norvegese, la sinistra socialista norvegese, il partito di centro norvegese, il Partito dei Verdi negli USA.

Venne iniziato in particolare il boicottaggio contro la Caterpillar, usato per la demolizione delle case sul tracciato del Muro o sul 'confine' di Rafah (e con cui fu schiacciata nel marzo 2003 la giovane attivista americana Rachele Corne) e INTEL.

A questo appello risposero anche associazioni israeliane come AIC (Alternative Information Center), come ICADH (The Israeli Committee Against House Demolitions) che proposero un boicottaggio selettivo (contro i prodotti delle colonie), il disinvestimento e le sanzioni. Altre campagne per il boicottaggio dei prodotti israeliani delle colonie, per sanzioni e per disinvestimenti selettivi furono proposti da Gush Shalom e New Profile.

Il Consiglio mondiale delle Chiese incoraggiò l'uso di pressioni economiche per influenzare una risoluzione della questione israelo palestinese, così molte chiese protestanti inglesi, canadesi e nordamericane decisero di operare disinvestimenti nei confronti di imprese israeliane per fare pressioni contro l'occupazione dei Territori palestinesi.

Così pure risposero gruppi ebraici nel mondo come Not in my name, Jewish Voice for Peace, Jewish Alliance against Occupation, European Jews for a Just Peace e Jewish against Occupation, New York, che decisero di operare il BDS anche se in modo selettivo. Seguirono le dichiarazioni di appoggio al BDS del gruppo di più recente costituzione(v. Carta dell'ottobre 2008) dell' IJAN (Rete Internazionale Ebraica Antisionista) (www.ijsn.net).

Lo storico Ilan Pappé, in una conferenza a Friburgo, il 4 giugno 2005, si era già

pronunciato per una forte campagna di BDS e aveva affermato "Non esiste un movimento per la pace in Israele":

[nel 2006] Sono 250.000 i palestinesi direttamente minacciati di pulizia etnica dalla prossima tappa di costruzione del Muro, nel quadro della prossima fase di annessione della Cis giordania a Israele.

Se il progetto di pace continua ad essere sostenuto dagli europei, dagli americani, dai russi e dall'Onu, vorrà dire che Israele avrà il via libera per proseguire la sua politica di pulizia etnica. Bisogna anche sapere che gli israeliani si stanno già preparando ad affrontare la prossima insurrezione (palestinese); questa volta, essi non esiteranno più ad utilizzare i peggiori mezzi di repressione, in confronto alle armi utilizzate nel corso della prima e della seconda Intifada.

Inoltre, in questo momento non stiamo parlando semplicemente di pulizia etnica, bensì del reale pericolo di una politica di genocidio.

Non è sufficiente dire che conoscete esattamente il progetto di pace nei minimi dettagli. Penso che noi tutti, i militanti dentro e fuori Israele, dovremmo comprendere che esiste un grave pericolo, urgente, quello di una pulizia etnica di palestinesi in soprannumero e che esiste un solo modo di fermare Israele. E che questo non può essere né il dialogo né i negoziati diplomatici, con i quali




'V. anche art. di Omar Barghouti , uno degli organizzatori palestinesi del BDS, "Civil resistance, Israeli
Apartheid: Time for the South African Treatment", 26 gennaio 2006

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stiamo provando da trentasette anni. [...1 Un movimento contro l'occupazione all'interno di Israele, non ha alcuna possibilità di successo. Nessuna.

Esiste un solo modo di bloccare lo scenario che vi ho appena descritto: tramite le pressioni, le sanzioni, l'embargo, equiparando lo stato di Israele al Sudafrica durante il regime di apartheid .... Non esiste altro mezzo. (...) Ma il conflitto tra Israele e Palestina non è un conflitto basato sull'occupazione; si tratta della pulizia etnica perpetrata da Israele nel 1948 e che non si è mai arrestata un solo giorno da allora.

Così le strategie di pace non sono strategie che mirano alla fine dell'occupazione. Ecco come ci hanno riempito lo spirito di chimere, dal 1967.

Quello che ha detto il movimento "Peace, Now!" è quello che hanno detto gli Americani, è ciò che sta dicendo il governo svizzero: l'importante è che gli Israeliani si ritirino dalla Cisgiordania e dalla striscia di Gaza. Ebbene no! Questo, non è la pace: un ritiro israeliano dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania costituisce semplicemente la fine dei crimini d'Israele contro l'umanità. Questo non ha nulla a che fare con una vera pace.'


Gli incontri europei sul BSD

L'8 ottobre del 2005, a Bruxelles si incontravano i rappresentanti di decine di Ong europee che lavorano nei Territori Palestinesi occupati e nella Striscia di Gaza, riuniti nel coordinamento ECCP. Per discutere le iniziative da prendere. Vi furono interventi di Pierre Galand, presidente dell'ECCP, di Jamal Jumah palestinese di Stop the Wall, di rappresentanti di ong inglesi, scozzesi, irlandesi, francesi, della rappresentante italiana della Fiom CGIL, rapporti internazionali, Alessandra Mecozzi.

Dopo la presentazione della situazione generale, delle risoluzioni ONU, mai poste in essere dallo stato di Israele, vi fu la discussione della situazione sul terreno in Cisgiordania. Dopo interventi e discussioni contrastanti fra i delegati inglesi e scozzesi e delegati francesi (che rifiutavano il boicottaggio, perché avrebbe ricordato il boicottaggio contro gli ebrei europei negli anni '30), nel pomeriggio venne deciso dai vertici del coordinamento, il comunicato finale in cui si optava per la per il primo punto, la richiesta ai propri governi di sanzioni contro Israele. Venne così ufficialmente lanciata la "Campagna per le sanzioni contro l'occupazione israeliana"


29 ottobre 2005

Incontro per il BDS svoltosi a Montpellier, Università III: "Per il diritto di sanzioni contro l'occupazione israeliana"

Nel discorso introduttivo Michèle Sibony (UJFP) insieme a rappresentanti dei sindacati dell'insegnamento francese SNESUP, SNU, FSU, AFPS, APF, e del Mouvement pour la paix, affermava che l'appello, fra i tanti, era importante perché superava le differenze religiose e politiche, rappresentava le tre componenti del popolo palestinese e le tre correnti politiche dei vari gruppi palestinesi. Essi si presentavano al mondo, nel contesto dei movimenti alter mondialisti, come società civile palestinese. L'appello rappresentava il lavoro svolto, e già iniziato da tempo, ma emerso nella dichiarazione finale dell'Assemblea generale dei movimenti sociali di Porto Alegre del gennaio del 2005 (V Forum sociale mondiale). Veniva così presentata la "Campagna europea per "Sanzioni contro l'occupazione israeliana".



2 han Pappé, conferenza a Friburgo 4 giugno 2005 "Non esiste un movimento per la pace in Israele"
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I cittadini dovevano esigere dai loro governi l'applicazione di sanzioni e sospensione degli accordi di associazione UE Israele (com'era stato deciso dal Parlamento europeo nell'aprile del 2002). Non "per punire Israele", ma "come mezzo di pressione per costringere Israele a rispettare il diritto internazionale, bloccare la costruzione del Muro e ritornare al tavolo dei negoziati politici".

Si richiedeva inoltre ai propri governi: il blocco degli accordi militari tra Israele e i governi del mondo; il disinvestimento di tutte le società europee e internazionali che lavoravano per Israele, come Caterpillar, come CHR, società cementifera irlandese, la società CONNEX (tramvie); sanzioni dei prodotti delle colonie che non mettono etichette precise.

Sibony infine parlava delle difficoltà di passare al livello pratico, contro la propaganda, le menzogne e disinformazione. Ma riconosceva anche altre "difficoltà" e citava Pappé nel suo discorso di giugno a Friburgo "Non c'è un movimento di pace in Israele" e con esso concordava.

Era quindi responsabilità soltanto della società civile internazionale di costruire una possibilità di cambiamento. Ricordava ancora le molte riunioni precedenti (Porto Alegre, Parigi, Bruxelles del maggio 2005. e cita tutte le organizzazioni ebraiche che approvavano l'idea di un boicottaggio selettivo (prodotti delle colonie). Annunciava per il 2006 una "Campagna generale per il BDS ..." (ma solo un boicottaggio selettivo e non totale dei prodotti di Israele). E richiedeva la sospensione dei privilegi commerciali e di cooperazione scientifica.


31 ottobre 2005, Riunione del TEPT (Juifs Européens pour une Paix Juste) a cui è collegata la Rete ECO (Ebrei contro l'occupazione italiana

Nella sintesi, come cittadini europei convinti che i diritti dell'uomo sono la base fondamentale politica della società civile europea condividono le responsabilità della lotta per la pace e la giustizia. Non vogliono che Israele parli a nome degli ebrei del mondo e pretenda di agire per tutte le vittime dell'antisemitismo e razzismo. Contro l'occupazione dura e violenta nei Territori palestinesi occupati chiedono la fine dell'occupazione con una pressione internazionale non violenta ma efficace.


2 3.dicembre2005 Seminario Internazionale a Betlemme

I partecipanti aderenti dell'AIC (Alternative Information Center) israeliano approvano il sostegno alla campagna del BDS . Si afferma, che il "boicottaggio si riferisce a iniziative contro l'acquisto o vendita di prodotti israeliani. La forza di questa azione sta nella decisione autonoma presa da individui e gruppi per iniziative che possono far crescere e dare impulso alla campagna" e si fa ampio riferimento alle campagne che furono messe in atto contro l'apartheid del governo del Sud Africa.


7 marzo 2006 Documento BADIL (Resource Center for Palestinian Residency and Refugee Rights). Il documento riferisce che nel 60 Forum Sociale Mondiale svoltosi a Caracas 1' Assemblea dei Movimenti riunita ha approvato il BDS.


y. "News from Within" on line dell'AIC, paper presentato da AIC dal dott. Majed Nassar Executive Director del Health Work Committee e nel Consiglio direttivo dell'AIC


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Atene 4 7 maggio 2006, European Social Forum


La relazione di Alessandra Mecozzi sulle giornate di discussione informava che vi erano stati 7 seminari di analisi sulla situazione in Palestina (OPT) fra cui uno sulla Campagna per le sanzioni contro l'occupazione israeliana e 3 sessioni di lavoro. Nell'Assemblea conclusiva veniva rilevata la "difficoltà dei movimenti per identificare una strategia comune".

Dopo l'analisi della situazione sul terreno, si presentava la prossima Conferenza internazionale di Ginevra del 26 27 28 maggio 2006 e nel comunicato finale si faceva appello ad una mobilitazione generale di tutti i movimenti.

Nel Comunicato finale del lavoro del coordinamento al Social Forum di Atene in sintesi, si constatava la strategia israeliana di portare a compimento una soluzione unilaterale, con più insediamenti e apartheid in Cisgiordania e il totale isolamento di Gaza, soluzione unilaterale che di fatto aveva l'obiettivo di "ridisegnare i suoi confini con la costruzione del Muro annettendo territori e creando nuovi rifugiati", negando così la realtà della Linea verde della risoluzione 242 di Ginevra. Si condannava la politica UE e USA e il taglio dei fondi che delegittimava il governo (di Hamas) democraticamente eletto. Si condannava la politica di Israele di fomentare il caos per dividere e governare. Si condannava la politica di "coordinamento della sicurezza" della NATO, dei governi europei e Israele nell'area mediterranea, politica che non incrementava certo il dialogo con il Medio Oriente. Si faceva appello contro il taglio di fondi dell'ANP [e quindi del governo democraticamente eletto, cioè del partito Ch'ange and Reform di Hamas] e si chiedeva il ripristino degli stessi.

Si lanciavano pertanto le seguenti campagne:

1) Conferenza internazionale di Ginevra "Per una pace giusta... diamo forza al diritto internazionale"

2) Campagna europea contro il taglio dei fondi alle autorità palestinesi. Giornate di mobilitazione (7 9 luglio) contro il taglio dei fondi ANP

3) Rilancio della campagna ECCP "Sanzioni per Israele"

4) 9 16 novembre. Settimana contro il Muro e l'annessione di nuovi territori in Cisgiordania

5) Campagna per i prigionieri politici e per il rispetto della Convenzione di Ginevra

6) Rafforzare le missioni civili europee con maggiore presenza organizzazioni sindacali

Vi erano state nella discussione alcune critiche poste dal rappresentante di ISM Italia sulle dichiarazioni finali e le iniziative per il BDS: in un documento si rilevavano "ripetizioni acritiche di vecchi rituali", posizioni deboli di equidistanza invece che di solidarietà forte con la popolazione occupata e iniziative di scarsa rilevanza poiché proponendo solo "sanzioni contro l'occupazione" in pratica si delegava ai propri governi l'iniziativa di censurare la politica del governo israeliano.


Ginevra 26 28 maggio 2006, Conferenza internazionale "Per una pace giusta in Palestina e

Israele" organizzata da ECCP e Comité Palestine Urgence CPU


' Nella traduzione di Mariangela Casalucci
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Vi parteciparono oltre 200 rappresentanti di 30 organizzazioni nazionali dei paesi europei, di Israele, di Palestina, Libano, India e rappresentanti del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

La Dichiarazione finale del 1° giugno 2006 presentava le conclusioni, le richieste e le iniziative:

Condanna del taglio dei fondi della UE e USA e della politica di sanzioni contro il governo dell'ANP palestinese eletto democraticamente

Richiamo al rispetto del Parere consultivo della Corte internazionale di Giustizia (2004) sul blocco della costruzione del Muro

Mobilitazione per sanzioni politiche ed economiche, come la sospensione vendita armi e accordi associativi UE Israele

Sostegno al BDS (ma solo come appoggio a mobilitazioni cittadine che promuovano azioni tendenti ad obbligare i governi e la comunità internazionale per obbligare Israele...

Altre iniziative che concordavano con il comunicato del Social Forum Europeo di Atene

Negli stessi giorni una lettera del coordinamento del PACBI presentava le critiche. In essa si criticava aspramente la dichiarazione finale di Ginevra perché essa "ignora le dimensioni fondamentali dell'oppressione israeliana e non indica chiaramente in quale maniera i cittadini europei che vogliano sostenere questa lotta possano parteciparvi. Il disinvestimento e le sanzioni riguardano gli stati e i governi e non i semplici cittadini."5

Si aggiungeva inoltre che il boicottaggio è una forma di resistenza all'ingiustizia perfettamente fondata dal punto di vista morale e politico; e i movimenti di solidarietà devono metterla in opera, ma nei termini più efficaci. Non sono d'accordo sulle critiche che si fanno in Europa sul fatto che il boicottaggio sarebbe una forma di "antisemitismo". Viene citato anche Etienne Balibar (discorso del 3 4 luglio 2005, all'Università Libera di Bruxelles, riunione del FFIPP (Faculty For Israeli Palestinian Peace) che afferma: "Israele non deve essere autorizzato a servirsi del genocidio degli ebrei d'Europa per porsi al di sopra dei diritti delle nazioni".

Nell'analisi dei documenti l'impressione generale è che le molte 'campagne' sovrapposte indeboliscano l'iniziativa richiesta dai palestinesi per il BDS.


Come prosegue in Italia la risposta all'Appello del BDS

A fine 2005 i responsabili del gruppo Action for Peace (collegato con Assopace e Donne in nero) compivano un'analisi dettagliata della "dimensione generale della questione palestinese" come "parte integrante della guerra globale permanente nel progetto USA di ricolonizzazione del Medio Oriente". Ponevano sullo stesso piano, senza approfondimento critico e le necessarie distinzioni, alcuni dei leader di questo 'progetto' (coloniale contro cui lottare), Bush, Sharon con il gruppo di Hamas e consideravano in questo contesto ormai impossibile la costituzione di uno stato palestinese "omogeneo e indipendente":

"La dimensione generale della questione palestinese perché parte integrante della guerra globale permanente e non secondaria nel progetto USA di ricolonizzazione del Medio Oriente di cui ha assunto tutte le caratteristiche peculiari assommandole a quelle originarie: violazione del diritto e


y. Lettera aperta PACBI (Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel) alla Conferenza di Ginevra, 26 maggio 2006


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dei diritti, uso strumentale ed effettivo del terrorismo e del fondamentalismo ideologico/religioso (Bush/Sharon/Hamas), negazione della politica per la guerra, unilateralismo contro il negoziato, divergenza di posizioni con l'Europa. Il nuovo Medio Oriente di Sharon e Bush che prevede controllo militare e ferreo su aree a frammentazione territoriale e politica, insieme alla disarticolazione del mondo arabo non contempla più la realizzazione di uno Stato palestinese omogeneo e indipendente ma semplicemente la ratifica di una entità politico/amministrativa frantumata, governata da notabili e totalmente controllata da Israele. Il processo sarà tortuoso, contraddittorio e camuffato ma getterà le sua basi nei prossimi quattro anni, chiudendo per sempre le possibilità di un negoziato reale tra israeliani e palestinesi. Le dichiarazioni esplicite del vice di Sharon e la rinuncia USA ai confini del 1967, insieme alla legittimazione accordata alle colonie come fatti incancellabili sul terreno, sono una modificazione sostanziale della tradizionale posizione USA e vanno in quella direzione. (...) In Palestina le forze fondamentaliste "aderiscono oggettivamente" alla prospettiva dello stato unico e agiscono di conseguenza sia sul terreno politico che su quello sociale/religioso, e in qualche modo prendono parte alla guerra globale. Le forze democratiche pongono con forza, ancor più dopo la scomparsa di Arafat, la riorganizzazione democratica della società come passaggio strategico per il rilancio di una resistenza di massa e indicano le elezioni come tappa costituente. Per la maggioranza dell'arco politico la prospettiva dei due stati è ancora l'obiettivo da raggiungere, anche se la situazione sul terreno e l'isolamento internazionale rende sempre più difficile la dialettica interna e la formulazione di una strategia convincente." 6

Quale possibilità allora per un negoziato reale? Il documento proseguiva ponendosi la domanda 'che fare?'.

Nonostante l'analisi dettagliata compiuta nel paragrafo precedente, si poneva come prioritario l'obiettivo della nascita di "uno stato palestinese all'interno del quale possa crescere la democrazia e la partecipazione". E perché la democrazia si sviluppi "dobbiamo sostenere il processo elettorale e il rafforzamento delle organizzazioni della società civile". Anche perché il mese seguente (26 gennaio 2006) si sarebbero svolte, nei Territori palestinesi occupati e nella striscia di Gaza, le elezioni politiche.

Inoltre occorreva favorire le relazioni fra i due campi, sostenendo le organizzazioni israeliane che si battono per la fine dell'occupazione. E ancora, quale iniziative per la solidarietà? Era necessario organizzare un ampio movimento sociale che si ponesse alcuni obiettivi: offrire maggiore informazione e approfondimenti, condizionare le politiche delle istituzioni in Europa, come i governi e gli enti locali, i soggetti economici (imprese,catene commerciali) alle quali va segnalata la volontà [dei governi] di applicare sanzioni, dare sostegno al diritto dei palestinesi a votare e votare liberamente, rilanciare una presenza costante in Palestina di gruppi di solidarietà.

Infine, si dichiarava il rifiuto del boicottaggio, e si proponeva uno "sforzo per "inventare" forme di partecipazione dal basso e di impegno anche individuale "che non si faccia intrappolare da un improbabile "boicottaggio", che (al di là della discussione sulla sua giustezza politica, sulla quale abbiamo idee diverse) non è mai riuscito a essere efficace e di massa".

Nell'ultimo capoverso si riteneva necessario "individuare priorità condivise e iniziative comuni" insomma che i palestinesi decidano "con noi" le priorità.



6 Documento di Action for Peace senza data, ma sicuramente della fine 2005, "Proposta di lavoro di Action for Peace".

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In generale, le campagne di alcuni gruppi all'interno del variegato movimento pacifista italiano, e frammentato soprattutto dopo la vittoria del governo Prodi (governo amico) e dopo la guerra di Israele in Libano dell'estate 2006, contro le forze Hezbollah, seguono la linea del coordinamento internazionale europeo. Non aderiscono al BDS se non a livello formale di enunciato, ma si volgono piuttosto a sostenere, tra il 2005 e 2008, iniziative meno politicamente impegnative, almeno in Europa, quali quelle contro l'occupazione, oppure ideologicamente importanti per il mondo pacifista, in particolare del femminismo pacifista, quali quelle che cercano di costruire relazioni tra popoli "in conflitto", come la resistenza nonviolenta contro il Muro, in particolare il sostegno alle manifestazioni a Bi'lin e Ni'lin, i viaggi in Italia di israeliani e palestinesi insieme per visite nelle città ai vari gruppi, i viaggi dei Parent's Circle, dei Combatants for Peace, di WIB (Women in Black) in Italia e Donne in nero in Palestina, viaggi di informazione sulla situazione, tentativi di "costruire relazioni" fra gruppi che hanno obiettivi comuni, il sostegno alla politica delle donne prominenti riunite nella International Women's Commission, le campagne di appelli, lettere ai governi, ai ministri.

All'interno del gruppo delle Donne in nero e delle WIB riunite in un Convegno a Gerusalemme nell'agosto del 2005, l'appello del BDS suscitò molte discussioni e distinzioni, culminate poi nel comunicato finale in cui si sosteneva l'appello limitatamente alle sanzioni e disinvestimenti, seguendo la linea di alcune leader delle WIB israeliane, contrarie al boicottaggio. 7

Nel Convegno WIB di Valencia dell'agosto 2007 le discussioni nel workshop dedicato appositamente al BDS furono più approfondite e accese. E ne uscì un sostegno al BDS in generale con iniziative nella prima fase per il boicottaggio dei prodotti delle colonie, di richieste ai governi contro gli accordi militari ecc.8 La richiesta di iniziative più


cfr. 04.10.05, mail inviata in inglese da L.S., moderatrice della lista europea di womeninbiack che riporta due interventi di una leader WIB israeliana, comparsi nella wib interactive e list; da una sintesi tradotta e inviata nella rete Din:

"Abbiamo appreso che si utilizza la Dichiarazione finale dell'incontro internazionale delle Donne in Nero come base di varie dichiarazioni e attività internazionali. E' per questo che noi vorremmo dire chiaramente che i punti che trattano dei rifugiati e delle sanzioni non rappresentano il nostro punto di vista.

L... 1 Queste due poste in gioco i rifugiati e le sanzioni sono i temi di un grande dibattito anche nel movimento della pace israeliano. Se ne è discusso in migliaia di articoli e discussioni. Secondo noi, la Dichiarazione esprime solo il punto di vista più estremo, un punto di vista che non è stato adottato nemmeno da nessuno dei nove membri della Coalizione delle donne per la pace "(in Israele).

In effetti, il movimento delle Donne in Nero israeliane ha solo un principio mettere fine all'occupazione.

[...] Riguardo alle sanzioni. Il nostro obiettivo è di finirla con l'occupazione il più presto possibile. A questo fine noi siamo favorevoli ad una campagna per tagliare i fondi destinati alle infrastrutture dell'occupazione le colonie, l'esercito, le imprese che forniscono ciò che loro necessita. Ma, la Dichiarazione finale invita a dei disinvestimenti e delle sanzioni contro Israele, non «contro l'occupazione». Un boycott generale di Israele sarebbe un boomerang, e porterebbe sostegno alla destra israeliana. Non farebbe che favorire l'occupazione...".


8 7.09.07 dalla lista DIN, da: "Proposta da Valencia sul boicottaggio d'Israele"

Si trasmette la traduzione in italiano della "proposta dal workshop sul boicottaggio a Valencia", inviata da L.v.d. B. alla lista Womeninblack.

"Richiesta di boycott di Israele. Noi Donne in Nero che siamo state nelle strade un tutti questi anni chiedendo la fine dell'occupazione, e di fermare il muro, noi Donne di 40 paesi, incontrandoci in questo 14° incontro internazionale delle Donne in Nero, crediamo che non vi siano soluzioni militari al conflitto israel o palestinese.

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forti, per un boicottaggio totale per prodotti israeliani vennero da alcune WIB californiane, olandesi, belghe, viennesi, svizzere.

Per quanto riguarda il boicottaggio culturale, sostenuto da tempo da associazioni accademiche in Gran Bretagna, come il BRICUP, AUT, la proposta da me fatta di discutere un articolo della filosofa femminista americana Judith Butler nel gennaio febbraio 2006 sulla rivista "Radical Philosophy", sul tema della libertà accademica e favorevole al boicottaggio delle Università israeliane che lavorano nelle colonie israeliane, non ebbe alcun risultato né risposta.

Le Donne in nero italiane, benché alcune o piccoli gruppi fossero per il boicottaggio generale anche per i prodotti di Israele, in generale rimasero ferme sul rifiuto poiché veniva individuato come mezzo violento di sofferenza della popolazione di Israele e mezzo "non giustificabile dai fini". Seguirono due seminari nazionali delle Din, a Roma a inizio dicembre 2007 e a Torino nel febbraio 2008 con ampia discussione e nessuna presa di posizione a favore del BDS anche solo selettivo. Le Din che sostenevano il BDS, furono invitate a organizzare iniziative trasversali con altri gruppi in Italia ed Europa. Di fatto senza iniziative più ampie, non si riuscì a fare nulla. Fu eluso, in particolare da alcune delle leader storiche, il tentativo di discutere il BDS come critica all'ideologia sionista e le contraddizioni che esso metteva in luce nella storia del 'progetto' delle Din italiane, di relazione fra donne femministe pacifiste contro il nazionalismo, militarismo, patriarcato.'

In generale si può constatare che questo rifiuto rimase e rimane legato sia alle posizioni di alcune fra le leader storiche delle WIB ebree israeliane e Din italiane, sia del coordinamento italiano di Action for Peace, Assopace, e al gruppo di riferimento FIOM¬CGIL per l'Italia, inserito nel coordinamento ECCP per l'Europa. Almeno sino all'inizio dell'ultima aggressione israeliana a Gaza.

In Italia i gruppi che hanno sostenuto il BDS sono stati ISM Italia con le sue iniziative prevalentemente culturali come il seminario del maggio 2006 a Biella con Ilan Pappé, Tanya Reinhardt, Gideon Levy, Aharon Shabtai, Jamil Hillal, Mazin Qumsijeh, Omar Barghouti e un rappresentante dell'Associazione di difesa "Valle del Giordano"; come il seminario: "Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina", del 5 6


Vediamo che finora sono falliti tutti i tentativi di pace. L'occupazione è durata per più di 40 anni ed è stata praticata la pulizia etnica ed è tuttora praticata contro i palestinesi, le cui sofferenze crescono continuamente. Questo è il motivo per cui non vediamo altra scelta che chiedere a tutti i gruppi di Donne in Nero di unirsi alla campagna per: BOICOTTAGGIO SANZIONI DISIN VESTIMENTI Il boicottaggio che suggeriamo in questo momento è mirato e riguarda: a... armi e collaborazioni militari dei nostri paesi con Israele b... imprese che collaborano efanno profitti dall'occupazione c... prodotti degli insediamenti. Questo boicottaggio può svilupparsi in un boicottaggio culturale e alla fine in un boicottaggio totale (di tutti i prodotti israeliani) se Israele non rispetta i diritti dei palestinesi e non si conforma alle decisioni delle Nazioni Unite. Sappiamo che è stato lanciato un boicottaggio accademico nei confronti dei membri di quelle università israeliane che non hanno preso una posizione chiara contro l'occupazione. Valencia 20 agosto 2007".

Mentre potevano essere chiare ed affermate perentoriamente, in questo progetto, le critiche alle donne palestinesi che ritenevano prioritaria la lotta per la liberazione nazionale, rispetto alla lotta di liberazione delle donne, difficile e spesso elusa fu, almeno nel dibattito italiano e locale, la critica alle posizioni di difesa dell'ideologia sionista e dello stato d'Israele come stato ebraico, da parte di molte WIB israeliane.

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maggio 2008 all'Università di Torino, come risposta alla Fiera del Libro che aveva come "ospite" d'onore lo stato d'Israele nel 60° anniversario della sua costituzione con Aharon Shabtai, Jonathan Rosenhead, Ghada Karmi, Tariq Ramadan, Giorgio Frankel, Angelo D'Orsi, Domenico Losurdo, Gianni Vattimo, Massimo Zucchetti. Con la cura per la pubblicazione di libri come il recente "La pulizia etnica della Palestina di Ilan Pappé, e con numerosi incontri in varie città italiane con esponenti palestinesi del BDS.

Anche il Forum Palestina, che già a partire dal 2002 organizzava iniziative di boicottaggio, ha lanciato nel suo sito una campagna per il BDS specificando anche per settore quali imprese commerciali italiane hanno interessi precisi con imprese israeliane.

Nel 2007 si ricordano l'incontro di Ramallah, 1° conferenza palestinese per il BDS, 22 novembre 2007 con 300 attivisti, aderenti di sindacati, associazioni e ONG delle città di Cisgiordania, dei campi profughi con rappresentanti del movimento globale di solidarietà di Gran Bretagna, Canada, Norvegia, Spagna e Sud Africa che si riunirono per discutere la situazione e promuovere le forme di BDS, come campagna per "ri vitalizzare la resistenza popolare e ridare dignità ai palestinesi". Fu ancora ribadito che questo è uno dei mezzi non violenti più efficaci e precisato che nel 60° anniversario della campagna della Nakba del 2008 il BDS chiamava al boicottaggio delle celebrazioni del 60° anniversario dello stato di Israele, e che queste iniziative dovevano sfidare, mettere in discussione anche la legittimità di uno stato che è stato ebraico di esclusione e di apartheid.

Nel 2008, l'incontro di Bilbao "per una pace giusta in Palestina", il 30 giugno 2008 che esprimeva forti preoccupazioni sulla situazione in gravissimo peggioramento per la chiusura totale della Striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania, Gerusalemme Est e alture del Golan, con l'espansione degli insediamenti e l'aumento dei posti di blocco. Veniva ribadito il BDS come il mezzo più efficace moralmente e politicamente di pressione verso Israele e di solidarietà nella lotta per la giustizia e la libertà e una pace giusta.


Conclusione

Nel percorso di analisi dei documenti, ad una prima lettura, si potrebbe pensare soltanto che i responsabili dei gruppi del movimento pacifista abbiano sottovalutato la situazione reale sul terreno e l'aggressività senza limiti della politica israeliana tesa alla supremazia territoriale, all'oppressione e alla repressione?

Si possono ipotizzare alcune ipotesi e risposte su cui riflettere.

Innanzitutto che ci sia stato un atteggiamento di attenzione più alle dinamiche e ai rapporti di forza politici nel contesto nazionale italiano piuttosto che a reali atteggiamenti di solidarietà politica efficace con il popolo palestinese.

In secondo luogo si può rilevare il fatto che andarono sempre più aumentando le pressioni politiche, per le organizzazioni più vicine ai sindacati e ai partiti, soprattutto a partire dal 2006. Sia con le elezioni palestinesi del gennaio 2006, vinte dal partito di Hamas, e le misure prese da USA, Israele e UE contro il nuovo governo con la chiusura della Striscia di Gaza. Sia nella fase successiva alla guerra in Libano dell'estate 2006.

Da quella fase divenne infatti sempre più percepibile il pesante clima di ricatto e di propaganda, diffuso in Italia dai maggiori quotidiani, dai politici italiani di entrambi gli schieramenti, dai rappresentanti israeliani, dalle comunità ebraiche, contro le critiche al


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governo israeliano, che vennero definite immediatamente "antisemitismo"." Questo clima di ricatti, non solo psicologici, non fecero che indebolire ulteriormente le posizioni di gruppi o individui più esposti.

Ma si può anche affermare che, a partire dalla prima Intifada (1988) e durante i venti anni successivi, nel contesto del "processo di pace", il "progetto" di molti gruppi pacifisti, con le iniziative di dialogo, per stabilire relazioni fra gruppi di donne e di uomini dei due popoli "in conflitto", di viaggi e scambi, come già si era cercato in Yugoslavia, stava in uno schema teorico che, visto dal contesto europeo sembrava rappresentare al meglio il giusto percorso verso la pace, nella equidistanza. Ma non affrontava, in quel particolare contesto, i nodi cruciali, non solo l'asimmetria tra occupante e occupato, i fatti sul terreno che andavano irreversibilmente trasformandosi, ma la natura stessa dello stato d'Israele come stato ebraico di esclusione e oppressione, anche al suo interno, e non affrontava il problema del sionismo, strettamente collegato con il nuovo colonialismo occidentale.

In questa ottica, non venivano colte completamente nella loro pericolosità, o meglio le si percepiva isolate dal contesto locale, salvo rari casi di lucida denuncia, le trasformazioni della globalizzazione in atto in quell'area. E cioè l'attacco massiccio che il complesso industriale, militare, culturale dell'occidente andava organizzando con le politiche del neoliberismo, col neoconservatorismo, con i fondamentalismi cattolico, protestante, ebraico (denunciando piuttosto il solo fondamentalismo islamico), al Medio Oriente. E con il progetto più ampio, a partire dal 11 settembre 2001, da parte dei due governi Bush, dei governi di Israele, degli alleati europei e dei governi "moderati" arabi, per la distruzione dei territori, delle popolazione da espellere in nuovi 'campi' e l'accaparramento delle risorse. Ma anche l'attacco sul 'fronte interno', nei confronti del lavoro, dei giovani, degli immigrati e in genere ai diritti, e con l'indebolimento sempre più forte dei movimenti di base.

Questo attacco su più fronti, sostenuto con la complicità dei partiti di "sinistra", dei cosiddetti intellettuali, accademici, dei media in generale, dei commentatori televisivi in particolare, aiutò il perfezionamento della potente macchina della propaganda, della manipolazione del consenso, degli strumenti autoritari contro la società e gli individui. Con essa crebbero i timori, i ricatti, le afasie, le ipocrisie, le molte reticenze, la non messa in discussione dei nodi cruciali della questione israelo palestinese, l'oscuramento della realtà dei fatti e spesso le complicità di alcuni dei responsabili ai vertici del movimento pacifista.

In questo modo si andò perfezionando il "progetto" di supremazia occidentale e israeliano con gli spietati massacri in Medio Oriente (Afganistan, Irak, Libano), di cui quello di Gaza oggi non è ancora finito.



IO cfr. quanto avvenne prima in Francia tra 2003 2004 con il processo al prof. Edgar Morin, condannato nel 2004 in prima istanza per antisemitismo e poi nel 2005 prosciolto per aver dato un giudizio molto duro sul comportamento dell'esercito israeliano durante le incursioni e al massacro nella città di Jenin nell'aprile 2002

Indice.



Oltre Totem e Tabù note a lato del saggio di Ilan Pappe di Flavia Donati


Ti libro di Tian Pappé è stato un percorso di lettura travagliato dalle emozioni legate alla ricostruzione storica de "La Pulizia Etnica della Palestina", che immagino anche chi di voi lo ha letto avrà provato.

Le pagine di analisi delle radici storiche nel sionismo di fine '800, che preparavano in un crescendo di documenti teorici e di coordinamento tra ideologi e militari la de arabizzazione fisica e culturale e l'appropriazione della terra della popolazione autoctona palestinese, sono come una sceneggiatura agghiacciante con una musica di fondo che fa venire i brividi di rabbia e di paura perché ci conduce ai 22 giorni di bombardamenti sulla popolazione di Gaza, passo dopo passo con le distruzioni programmate, eseguite e poi occultate e la colonizzazione della terra e della vita palestinese. Tian Pappé ci descrive tutto ciò come uno storico, come uno studioso addolorato. È uno storico, ma è anche israeliano. E lavora sulla sua Storia.

Le descrizioni delle sottili strategie e delle pianificazioni politiche e militari di catalogazione accurata dei pacifici villaggi palestinesi, dei duetti con il Mandato inglese, dei vari Piani A,B, C e poi il Piano Dalet .... sono pagine di ricostruzione storica che Pappé documenta con una linearità espressiva che fa esplodere le emozioni ancora di più ... lui racconta e a noi si stringe il cuore e la gola

Leggete il libro. Ma non è di questo che voglio parlare.

To vorrei utilizzare la mia posizione di ascolto psicoanalitico per sottolineare alcuni snodi di questo libro bellissimo tremendo, seguendo la domanda:

Ma come ha fatto Pappé da solo ad affrontare le tappe del suo percorso?

Quelli che lui solleva sono macigni per il suo cuore ... vediamo in ordine sparso quali luoghi proibiti dell' identità israeliana sionista lui attraversa e descrive. Li elenco, entrerò con lui in qualcuno di questi e metterò in luce il centro del suo discorso sugli ostacoli veri, profondi, psichici alla pace, la negazione della Nakba e la pulizia etnica della Palestina. Un discorso essenziale.


Prima sfida

Pappé ricostruisce la storia della nascita dello Stato di Israele e documenta che fu programmata 50 anni prima dell'Olocausto.

Non nasce come risarcimento per le grandi sofferenze dell'Olocausto. Ha le sue radici nel nazionalismo a base ebraica di cui Theodor Herzl è stato iniziatore fin dal 1880 e nel colonialismo dell'800. Si avvale della potenza dell'Impero britannico all'inizio e ne sfruttò il decadimento alla fine. Nasce sì anche stimolato da relazioni difficili tra ebrei europei e i governi, oscillando tra assimilazione e persecuzione. Ma la pianificazione precede 1' Olocausto.

Tian Pappé qui va a toccare la roccaforte dell'immagine di vittima che magicamente si illude di annullare il contenuto delle proprie azioni quando illegali, violente, criminali, ingiuste, disumane, continuando a riflettere a se stesso la propria immagine di vittima. Una vittima che, secondo un intreccio di difese primitive e di manipolazioni studiate, ha di sé e dà di sé l'immagine sempre di vittima anche quando diventa carnefice di inermi ed innocenti.

Psicodinamica dell'eterna vittima cui è dovuto un risarcimento senza fine e che per realizzare il suo progetto di conquista di terra e di potere deve usare la "negazione" come difesa primitiva cui segue il corollario senza fine della falsificazione ... e questa eterna Vittima si perde l'etica per strada, il senso della realtà, il rapporto con la ricerca della verità personale e storica che è 1' ossigeno della nostra sanità mentale, non sentire responsabilità verso l'altro umano, non sentire la colpa, non c'è rimorso, ma lo si nega proiettando la colpa sull'altro che diventa il male, il persecutore, il de umanizzato.

Da lì il continuare a ripetere a mo' di litania: non siamo noi a uccidere a Gaza, è Hamas. Ai giornalisti non abbiamo sparato noi. Non è stata nostra la cannonata sull'ONU e i civili lì rifugiati.

Tian Pappé svela la strategia sionista che ha usato l'occultamento delle proprie intenzioni e poi delle proprie azioni criminose utilizzando in modo manipolatorio questa immagine, ancora più


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gravemente quando è stato utilizzato l'Olocausto in questo modo. Mentre operava la pulizia etnica lo includeva nel training alle truppe gridando al rischio di un secondo Olocausto (pag 110).


Seconda sfida

I Padri Fondatori dello Stato Israeliano non sono eroi ma si sono macchiati di crimini di guerra.

Pappé documenta dai diari di Ben Gurion e dai documenti militari la programmazione dei crimini di guerra. Le attività dell'Haganà creata nel 1920 per presidiare le colonie ebraiche, ma braccio militare deli' Agenzia ebraica che mise in atto l'occupazione sionista della Palestina e la pulizia etnica (già nei '38).

Ben Gurion, Menachem Begin, Moshe Dayan ecc, Pappé ci documenta strategie ed azioni in pagine asciutte e dolenti ....

Vi rendete conto di che cosa Pappé va a sfidare in Israele? Tutta la iconografia degli Puri Angeli salvifici viene ad essere svelata nella sua falsificazione.

Senza entrare nella stanza di analisi: ve lo ricordate il film " Music Box" con l'attrice Jessica Lange avvocatessa ungherese di prima generazione americana che mentre inizia a difendere ii proprio padre dall'accusa dell'FBI di essersi macchiato di orrendi crimini di guerra contro gli ebrei ungheresi

piano piano scopre la verità. É un percorso dolente contro il quale resiste con autocensure, negazioni, scissioni, idealizzazioni .... ma la sua integrità etica la costringe ad andare avanti nella sua ricerca della verità storica fino alla perdita del padre che aveva conosciuto, alla perdita della sua storia così come 1' aveva conosciuta e al dover integrare tutto in una nuova solitudine. E al proprio figlio inizia a raccontare la storia sedendosi fuori casa su una panchina gelata dall'inverno e dalle rivelazioni che sta per fare al bambino.

Wilfred Bion, uno psicoanalista inglese postula 1' esistenza di un istinto alla ricerca della verità, accanto ai ben più noti Principio di Piacere e Principio di Realtà. Diverso dall'istinto epistemofilico che cerca conoscenza sulla realtà.

Questo istinto ha vita molto difficile, è essenziale per la nostra salute mentale così come il cibo lo è per la nostra salute fisica. Ci spinge oltre quello che sentiamo sospeso e nebuloso, se ascoltiamo quello che Bion chiama la coscienza inconscia ("unconscious consciousness"), la necessità di sapere prevale sulla paura, sulla censura, sull'arretrare di fronte al proibito.

Si radica nelle nostre esperienze precoci di riconoscimento delle nostre sensazioni e nel rapporto con chi accudisce, nella sua capacità di rispettarci, di aiutarci a riconoscere quello che sentiamo senza metterci i suoi contenuti mentali come se fossero nostri.

Bion analizza che cosa succede con ciò che evadiamo, non vogliamo conoscere, non possiamo tollerare. Viene evacuato come identificazione proiettiva o nelle patologie del corpo o in oggetti interni (rappresentazioni mentali, chiamiamoli fantasmi) o in oggetti esterni deformati dalle nostre proiezioni. Ii risultato sono rappresentazioni mentali "radioattive" fortemente distorte e persecutorie.

Che cosa quindi forse succede alla popolazione israeliana, perlomeno quella colta quella che potrebbe sapere, che non vuole sapere che cosa ha veramente fatto Ben Gurion? La catena dei "non voler sapere" diventa una gattabuia per la mente dove se ne perde la chiave. Si tagliano le connessioni con l'etica che pone interrogativi, ci sia affida messianicamente a chi governa ora, ereditando tutta la storia negata. Il dubbio non è permesso. Chi dubita è un traditore ... Il dubbio minaccia i 'intera infrastruttura della Storia negata. Prevale ii mondo schizo paranoide degli albori della civiltà umana e della nostra infanzia.

Ilan Pappé deve essere stato animato da una forte necessità di ricerca della verità se questo l'ha portato a essere accusato forse, immagino, ma vorrei un giorno magari non oggi ... saperlo ... dai suoi connazionali di tradimento, di mancanza di gratitudine, di cospirazione con il nemico che vuole un secondo Olocausto e forse dell' accusa peggiore di relativizzare i' Olocausto.


Terza sfida


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Se non c'è assunzione di responsabilità israeliana dei propri crimini commessi nella pulizia etnica della Palestina la Pace è impossibile.

Questo per me come psicoanalista ha un valore fondante. Non è solo un fatto etico.

Scrive Freud nel 1913 come ogni attività aggressiva che porta una tribù o i suoi individui ad uccidere, venga seguita da rituali di purificazione, cioè il tabù dell'uccidere è insito in tutti gli esseri umani, la sua rottura era temuta ... non poteva essere nascosta anzi richiedeva pubbliche cerimonie: "abbiamo attribuito ai popoli selvaggi una crudeltà senza limiti e senza rimorsi verso i loro nemici e con tanto maggiore interesse apprenderemo quindi che anche fra loro 1' uccisione di un uomo impone una serie di prescrizioni che fanno parte degli usi del tabù ... la conciliazione col nemico ucciso, limitazioni (digiuno, lontananza dalle donne e dai figli), pratiche espiatorie, purificazioni dell'uccisore, certe pratiche cerimoniali"

Ed i morti sono depositari di sentimenti ostili alla base dell' ambivalenza delle relazioni umane.

Tabù violato, violazione negata, impossibile elaborazione, mantenimento della negazione ad ogni costo sotto la spinta della paura e della reificazione dell'altro e della propria quindi trasformazione in aggressore.

Arnon Soffer, professore di geografia alla Università di Haifa dice nel maggio del 2004: (pag 294) "perciò se vogliamo restare vivi, dobbiamo uccidere, uccidere e uccidere. Tutto il giorno ... Se non uccidiamo cessiamo di esistere. La separazione unilaterale non garantisce la pace, garantisce uno Stato sionista ebraico con una schiacciante maggioranza di ebrei".

La negazione storica e quindi psicologica dei crimini commessi va riproposta continuamente con bugie, occultamento, perdita dell'eticità di un gruppo sociale, continua riproposizione di una immagine di sé di vittima e della vittima come aggressore... meccanismi difensivi paranoici che inducono a delegare il pensiero e la definizione di quale sia la realtà.

Qui si aprirebbe un discorso sull' impossibilità di elaborazione e di ricomposizione dei conflitti in questa visione primitiva (vittime/aggressori umani/disumanizzati ...) di sé e dell' altro.

Dice Micheal Eigen, un analista interessante che ha scritto un saggio su "colpa nell'era della psicopatia", "l'obliterazione della colpa sul ferire un altro è dis umanizzante".

Molteplici analisti l'hanno studiato ... dalla Klein a Fornari che ha scritto pagine bellissime sulla patologia della guerra.


Quarta sfida

La pace non può avvenire sulla negazione della Nakba.

Ilan Pappé ribalta 1' impostazione dominante sionista che sostiene di essere sempre stata pronta a fare la pace, impedita invece dai palestinesi.

Qui Pappé va a toccare un altro punto centrale nella costruzione della identità della sua Nazione, lo contesta come storico ricostruendo e svelando i giochi strategici del sionismo e le sue alleanze internazionali i vari bluff di Ginevra, Oslo, Camp David) che bloccano i negoziati e le possibilità di pace mentre conquistava sempre più terra, sempre più insediamenti coloniali, de¬arabizzando la terra e la culture, con ciò esponendo la popolazione palestinese ad esperienze di vergogna, umiliazione degli adulti di fronte ai figli, di fallimento a sostenere famiglia e comunità.

E lo contesta come umanista.

Nei traumi e nella loro elaborazione poter raccontare è un primo momento della ricostruzione di un Sé. Si impara ad affrontare a ri incontrare la paura, 1' orrore, il terrore legato al ricordo, si affronta il dolore, come ha cambiato il corso della vita, come ci è mancato chi, chi ha fallito, chi ha aiutato, chi ha abbandonato chi ha ispirato coraggio, chi è stato modello. Il ruolo del racconto e del riconoscimento dell'esperienza vissuta crea legami tra le generazioni, permette alle successive di non essere ingabbiate nel mantenere viva la memoria attraverso l'odio per chi ha ferito, ucciso, rubato alla propria famiglia.

La memoria trattenuta così congela la nuova generazione, impedisce la vita, il godimento del presente, è antitesi alla conciliazione.


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Pappé entra nel cuore dell'elaborazione del trauma sia dei suoi connazionali feriti dalle persecuzioni nelle generazioni precedenti sia dei palestinesi a loro volta feriti dagli israeliani nel corso del secolo della colonizzazione.

Pappé dice: sono i palestinesi le nostre vittime e così come noi vogliamo essere riconosciuti nel nostro status di vittime della persecuzione nazista per poterne elaborare i lutti, così deve succedere anche per i palestinesi che non potranno mai accettare che i profughi sopravvissuti alle espulsioni, cacciati e dispersi tra baraccopoli e tendopoli rimangano come anime eternamente negate e tenute in un purgatorio senza nome e senza fine.

Io non sono religiosa ma questo è il cuore dell'etica cristiana "non fare all'altro quello che non vorresti fosse fatto a te stesso".

Come psicoanalista considero questa una acquisizione della capacità di considerare l'Altro umano come noi, al di là del narcisismo, della perversione, del pensiero primitivo.

Entra in un altro punto di sensibilità psicologica. Dove potrebbe portare però il riconoscimento delle responsabilità? Punizione? Bagno di sangue per vendette? Amnistie?

Pappé indica una strada per una elaborazione reale che permetta la strada poi della Pace reale.

Dice: senza arrivare alla punizione degli individui colpevoli riproponendo uno scenario associabile ad altri crimini di guerra (Norimberga, L"Aia) il modo per assumere responsabilità delle nostre azioni storiche e "fare ammenda" è riconoscere 1' esistenza dei profughi che noi israeliani abbiamo provocato, riconoscere il loro diritto al ritorno e con ciò il nostro superamento di una ideologia colonialista di apartheid aprendosi alla formazione di uno Stato laico e multirazziale.

Io l'ho letta come una feconda variazione dello spirito che ha animato il complesso processo seguito negli anni 1995 1998 dei Tribunali della Verità e della Riconciliazione nel Sud Africa post¬apartheid di Mandela. La possibilità per la vittima di essere riconosciuta ed ascoltata nella descrizione del trauma in un contesto di comunità che si fa testimone e presenza di supporto emotivo e la necessità che l'aggressore ascolti il racconto e se ne assuma la responsabilità del dolore e della perdita inflitta. Solo così la vittima e l'aggressore possono tentare di iniziare un nuovo stadio nella risoluzione del conflitto o di iniziare a vivere nello stesso territorio geografico ma anche metaforico.

I diavoli e gli angeli esistono solo nell' iconografia religiosa e nella patologia personale.

Andiamo a studiare la controversa esperienza sud africana (truth and reconciliation) nei suoi principi fondanti del dare priorità all'assunzione di responsabilità rispetto alla punizione, forse retaggio del modello cristiano della confessione e del perdono, ma efficaci esperimenti per affrontare traumi di massa e le loro eterne sanguinose eredità.


Quinta sfida

Il ruolo tra assente e collusivo del "terzo" promuove dinamiche distruttive.

Qui si apre un altro punto cruciale, cruciale come ostacolo alla Pace, cruciale per la denuncia delle conseguenze psicologiche del fallimento del discorso sul ruolo del Terzo, del giudice, dell'Osservatore Indipendente, delle Istituzioni Internazionali, l'ONU, i tribunali internazionali.

Il focus del libro è sulla responsabilità della nazione dell'autore, Israele e lascia volutamente in secondo piano qualunque considerazione critica sull'Altro, sia esso la strategia politica palestinese che il ruolo delle potenze internazionali, in particolare dell'ONU.

Come ostacoli alla Pace, oltre ai punti precedenti (negazione della Nakba, della pulizia etnica e dell'intera strategia sionista) Pappé illustra il danno provocato dall'oscillare tra complicità, impotenza e collusione dell'ONU nei confronti della politica sionista, prima nel Mandato Britannico poi dal '48 in poi da tutta la storia di tutte le risoluzioni ONU mai riconosciute a parte naturalmente la ... 194 che creò lo Stato di Israele nel maggio '48.

In Psicoanalisi il ruolo del "terzo" è considerata essenziale in ogni sano funzionamento individuale (per superare la simbiosi madre bambino, il padre o chi lo simbolizza) o collettivo (Sistema Giudiziario tra vittima e colpevole, Sistema dell'Informazione tra il Potere e il Governato).

L' abdicare del "terzo" promuove 1' emergere di dinamiche primitive distruttive fratricide.

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Se il "terzo" abdica, scompare, fugge o viene corrotto, il trauma passa di generazione in generazione e distrugge fin dalla culla il futuro della nuova generazione.


Libro "Traumi di Guerra", Manni, San Cesario di Lecce, 2003.

I Tribunali Internazionali disprezzati, i trattati anti proliferazione nucleare beffati, vilipesa la convenzione di Ginevra sui 10.000 prigionieri senza processo anche minorenni nelle carceri israeliane. Israele fa la sua scelta. Ma la Comunità Internazionale, non intervenendo per portare giustizia, fa dei danni tragici che verranno passati di generazione in generazione.

Se la memoria viene sotterrata, la memoria viene trattenuta con la vendetta. Ringrazio Pappé, ancora, per il suo coraggio psicologico e la sua preziosa ricerca accademica.


(*) Flavia Donati, medico, psichiatra e psicoanalista SPI, si è laureata a Milano, ha lavorato a Londra negli anni 80 in psichiatria e in comunità psico terapeutiche per giovani borderline. Rientrata in Italia a Roma nel '89, lavora come psichiatra e psicoanalista e collabora a interventi di emergenza e di supporto nell' ambito di progetti ONU.

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L'organizzazione del seminario


Il seminario è stato promosso da ISM Italia e da Forumpalestina. L'organizzazione è stata curata da:

ISM Italia info@ism-italia.it www.frammenti.it
Forumpalestina info@forumpalestina.it www.fommpalestina.org


Sguardo sul Medio Oriente sguardosulmedioriente@gmail.com
www.sguardosulmedioriente.it
vedi schede in allegato.



Coordinamento organizzativo Alfredo Tradardi ISM-Italia
Sistema di amplificazione e
traduzione simultanea over-sound Rosario Citriniti ISM-Italia
Videoregistrazione Vincenzo Tradardi ISM-Italia
Ufficio Stampa Cristiano Tinazzi Giornalista freelance
Traduzione simultanea CRIC Consorzio Romano Interpreti di Conferenza
Gestione lista iscrizioni Giulia Giorgi Sguardo sul Medio Oriente
Preparazione documentazione Annamaria Ventura Sguardo sul Medio Oriente
Welcome e Registrazione Giulia Galluccio Sguardo sul Medio Oriente
Fatima Keshk Sguardo sul Medio Oriente
Tiziana Cassetti Sguardo sul Medio Oriente
Amina Tanjaoui Sguardo sul Medio Oriente
Halima Tanjaoui Sguardo sul Medio Oriente
Altre attività Ugo Barbero ISM-Italia
Filippo Bianchetti ISM-Italia

Fiorella Gazzetta ISM-Italia
Grazia Loss ISM-Italia
Grazia Raffaelli ISM-Italia
Forumpalestina

La trascrizione degli interventi di Angelo Baracca, Giulietto Chiesa, Angelo d'Orsi, Ilan Pappé è stata curata da Ugo Barbero, Gabriella Bernieri, Ada Cinato, Alfredo e Vincenzo Tradardi.

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Rassegna stampa


Ilmanifesto2009Ol23 CONVEGNO Tutto esaurito per Pappé a Roma

Per chi volesse approfondire la realtà storica e contemporanea della questione palestinese, anche alla luce della «guerra israelo occidentale contro Gaza», domani si presenterà un'occasione da non perdere. La sezione italiana dellTnternational solidarity movement e il Forum Palestina, hanno organizzato su questo tema un seminario che vedrà la partecipazione di due storici importanti come l'israeliano Ilan Pappé (di cui in Italia è stato recentemente pubblicato da Fazi il libro «La pulizia etnica della Palestina») e la storica palestinese Karma Nabulsi. T due intellettuali saranno affiancati da studiosi e attivisti italiani come gli storici torinesi Angelo D'Orsi e Diana Carminati, lo scienziato Angelo Baracca, esperti della comunicazione come Vladimiro Giacchè e Giulietto Chiesa, analisti come Giorgio S. Frankel e Flavia Donati e attivisti come Alfredo Tradardi e Sergio Cararo. T lavori saranno coordinati da Bianca Maria Scarcia docente della Università «La Sapienza» di Roma. Ti seminario si terrà a Roma al centro congressi Cavour (via Cavour 60/A, dalle 9.30 alle 19.00) e le iscrizioni registrano già il tutto esaurito.


Ilmanifesto2009Ol27 Intervista di Michelangelo Cocco a han Pappé
Parla l'esponente dei «nuovi storici» «Israele imprigiona Gaza per far fuggire i
palestinesi»

«Per il bene dell'Italia, dell'Europa e del Medio Oriente, abbiamo bisogno di una posizione europea molto diversa da quella attuale». Così Tlan Pappé, relatore sabato scorso dell'affollatissimo seminario «La guerra israelo occidentale contro Gaza», organizzato a Roma dalla sezione italiana dellTnternational solidarity movement e da ForumPaiestina. Secondo lo studioso israeliano esponente dei «nuovi storici» israeliani autore di La pulizia etnica della Palestina (Fazi) il nostro paese «gioca un ruolo importante nel formulare la posizione del Vecchio continente. E se continuerà con la posizione attuale, le prossime generazioni ricorderanno le sue élite attuali come quelle che hanno giocato un ruolo molto negativo, contribuendo alla distruzione del popolo palestinese e destabilizzando la sicurezza internazionale».

L'esecutivo israeliano sostiene di aver raggiunto la maggior parte degli obiettivi di «Piombo fuso», ma il governo di Hamas controlla ancora Gaza e i palestinesi stanno ricostruendo i tunnel che collegano Rafah all'Egitto. Quali erano allora gli obiettivi dell'offensiva militare?

Riprendersi dalla sconfitta subita due anni prima in Libano e ristabilire il potere di deterrenza dell'esercito. Sconfiggere militarmente Hamas, che assieme a Hezbollah rappresenta l'unico che si oppone veramente a Israele. Inoltre, non c'è una vera politica nei confronti della Striscia di Gaza: gli israeliani la vogliono controllare indirettamente, ma non sanno come comportarsi con i suoi abitanti. E se i palestinesi resistono, mettono in atto punizioni collettive sempre più estreme. Le tre settimane di massacri hanno messo a nudo anche quest'ultimo elemento.

Qual è la differenza tra «Piombo fuso» e le precedenti campagne militari d'Israele contro i palestinesi?

La strategia è la stessa, ma questa volta c'è stata unescalation nella forza utilizzata, nella licenza d'uccidere concessa alle truppe. La prossima operazione potrebbe essere ancora più pesante.

Il 96% dei cittadini ebrei d'Israele ha appoggiato quest'operazione militare. Come spiega un simile atteggiamento?

Stiamo parlando della stessa società che, nel 1948 e nel 1967, ha espulso i palestinesi dalle loro terre. Dopo 60 anni d'indottrinamento, di de umanizzazione dei palestinesi, di demonizzazione dei palestinesi, ucciderne un migliaio in tre settimane non ha rappresentato un grosso problema. T media, la cultura politica, hanno preparato la società ad accettare questi massacri come «un atto di autodifesa». Fino a quando la società non comincerà a liberarsi dell'ideologia sionista, non potrà verificarsi alcuna seria opposizione nei confronti di operazioni come «Piombo fuso».


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Tuttavia piovono accuse di «crimini di guerra», mentre perfino gruppi di ebrei israeliani chiedono di boicottare lo Stato d'Israele per come tratta i palestinesi. Non crede che uno degli effetti delle stragi sarà l'isolamento dello Stato ebraico?

Me lo auguro, ma non credo che Israele venga fermato da iniziative di questo tipo. La Corte internazionale di giustizia ha condannato il Muro dell'apartheid ma questo non ha cambiato di un pollice le politiche israeliane. Forse però un processo si sta mettendo in moto, voglio sperarlo.

Lei è a favore del boicottaggio, anche quello accademico e culturale. In che modo ritiene che misure simili possano favorire il processo di pace?

Se il boicottaggio avesse successo, l'élite culturale e intellettuale israeliana sentirebbe che non è accettata, a causa della sua complicità o indifferenza verso le politiche governative. Sarebbe costretta ad agire, perché non può vivere senza essere parte del mondo occidentale. Da sola, una misura del genere non sarebbe abbastanza: per un vero cambiamento occorre una politica generale che prema per realizzarlo. Ma sarebbe un buon inizio, perché questi intellettuali hanno un ruolo centrale nel creare, in Israele, l'immagine di uno Stato ebraico appoggiato da tutto l'occidente nella sua battaglia contro i palestinesi.

Dalla «nakba» nel 1948 '49 all'operazione «Piombo fuso» 60 anni dopo: il movimento nazionale palestinese sembra morto.

Non è morto, ma in crisi profonda: di unità, scopi, strategia. Il movimento di liberazione palestinese, comunque, non è mai stato in buone condizioni. Credo tuttavia che abbia le potenzialità per arrivare a una leadership e una strategia migliori. Ma molta della responsabilità per lo stato in cui si trova è del mondo occidentale, questo problema non è stato creato dai palestinesi ma dall'Europa. Il fatto che i palestinesi meriterebbero una leadership migliore non ci esime, qui in Europa, dal fare del nostro meglio per sostenerli.

Nel suo ultimo libro lei sostiene che, a partire dagli anni '30 del secolo scorso, il movimento sionista elaborò un piano per realizzare la pulizia etnica dei palestinesi. Oggi però operazioni simili sono inimmaginabili: i due popoli sono destinati a vivere assieme. Ma in quale forma?

Qualche anno fa sembrava impossibile che Israele uccidesse 400 bambini palestinesi in pochi giorni. Invece l'ha fatto, senza che il mondo abbia mosso un dito. Ciò significa che potrebbe, ad esempio, espellere migliaia di persone e in Italia, o in Gran Bretagna, i governi non si opporrebbero. Credo però che gli israeliani non abbiano bisogno di una pulizia etnica come quella del 1948. La strategia è un'altra: tenere «in prigione» Gaza e metà della Cisgiordania, così molti lasceranno il paese. Se ne avranno bisogno, lanceranno una nuova pulizia etnica, o un genocidio, o l'occupazione. Questi sono gli strumenti. Ciò che conta è che la strategia non è cambiata e, a giudicare dalle reazioni internazionali, Israele sente di avere davvero pochi limiti rispetto a quello che può fare, pulizia etnica inclusa.

Quindi lei ritiene che la strategia sia quella della pulizia etnica, non la creazione di un regime di apartheid?

Si tratta di due elementi che come nel caso del regime segregazionista del Sudafrica non possono essere separati: apartheid significa creazione di aree riservate soltanto a un popolo. Le puoi ottenere dalla separazione o dall'espulsione di uno dei popoli, o dall'uccisione. Sono soltanto mezzi, che fanno parte della stessa ideologia.

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Allegati


URGENTE su Mobilitazione Palestina, di Angelo Baracca, 05 012009


Mi permetto di sottoporvi alcune considerazioni personali più generali.

Sono convinto che questo attacco sanguinano sferrato da Israele sia un esperimento, come altre volte è avvenuto. Lo Stato di Israele non è stato messo lì per caso (Padre Balducci diceva "Non capisco perché non lo abbiano fatto in Louisiana"): è stato istituito, e rafforzato, quando iniziava il processo di decolonizzazione, con una funzione precisa, di gendarme, testa di ponte delle strategie delle potenze occidentali, ormai prima fra tutti gli USA (dopo il declino delle potenze coloniali francese e britannica), poiché l'Europa si accoda. Le potenze occidentali hanno un problema strategico fondamentale per il controllo della regione (come dimostrano le guerre in Iraq e in Afghanistan), non possono fare affidamento all'infinito sui regimi dei paesi arabi allineati, devono sottomettere le masse arabe ad un sistema moderato più generale, eliminare le componenti estremiste e contrastare i regimi ribelli (naturalmente schematizzo molto). Sono sempre più convinto che l'attacco di Israele sia un esperimento, come lo era stato quello al Libano del 2006 (come lo è stato l'attacco alla Siria del 6 settembre 2007). Penso che se la guerra al Libano avesse avuto successo, il contenzioso con l'Iran avrebbe probabilmente avuto sviluppi ben diversi nei due anni passati. Se le azioni di Israele non rientrassero in qualche disegno di questo tipo, non sarebbe facile giustificare l'assoluta copertura che esse hanno da parte degli USA e dell'Europa: la quale ha dato il più grosso contributo a criminalizzare Hamas, disconoscendo il risultato delle elezioni democratiche. Non vi sembra che Sarkozy abbia fatto un timido tentativo iniziale di smarcarsi? (Come in passato la Francia aveva cercato di smarcarsi dall'appiattimento sugli interventi USA nella regione).

Anche il disconoscimento oggi della catastrofe umanitaria (come ieri dello strozzamento della striscia di Gaza) fanno parte secondo me di un disegno: perché situazioni come queste dovranno ripetersi nelle azioni future nella regione. E bisogna che sia chiaro che nessuno, l'ONU per primo Il commissario cacciato da Israele! Anni fa ucciso in Iraq), dovrà metterci bocca; e che nessuno Stato nazionale tra le potenze Occidentali potrà mai essere messo sotto accusa per violazioni dei diritti umani, che servono solo per contestare i regimi scomodi.

Credo (sperando ovviamente che i fatti mi contraddicano) che dobbiamo avere chiaro che le manifestazioni di piazza non riusciranno a fermare il massacro, finché i macellai non avranno "finito il lavoro". Abbiamo davanti, tutti, una sfida e dei compiti colossali, per recuperare la disinformazione, l'indifferenza, il chiuso egoismo della stragrande maggioranza della popolazione. Non saprei dire da dove si potrebbe cominciare!


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Ilmanifesto2009Ol22 POLEMICA Scienza e guerra, non c'è neutralità Boicottare le

università di Israele? di Angelo Baracca, *docente di fisica Univ. Firenze


La questione posta dagli studenti dell'Università La Sapienza di Roma del boicottaggio accademico di Israele, e in generale della ricerca militare, investe più di una questione, che vorrei affrontare nel portare il mio sostegno alla proposta. Una prima questione riguarda gli aspetti politici contingenti, su cui pesa il giudizio su Israele e il conflitto israelo palestinese: se in 42 anni la potenza incomparabilmente più forte della regione non ha trovato il modo di risolvere il problema del popolo e dello stato palestinesi, porta senza dubbio la responsabilità preponderante. Ai colleghi che rifiutano di interrompere le collaborazioni scientifiche con Israele vorrei chiedere se darebbero la stessa risposta si trattasse di collaborazioni, poniamo, con l'Iran: e lo dico non per reiterare accuse a Tehran, per la cui leadership non ho nessuna simpatia, ma che fino a oggi non è incolpabile di palesi infrazioni internazionali. Israele è in palese e grave violazione del diritto internazionale, almeno perché non dichiara il proprio potenziale nucleare e non ammette verifiche dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica. Si può rispondere che questo non ha a che fare direttamente con le collaborazioni scientifiche di base. Vorrei ricordare allora che nel 1939 vari scienziati proposero di non pubblicare i risultati delle ricerche sull'uranio: questo fu accettato solo più tardi, ma nessuno scienziato avrebbe mantenuto collaborazioni con la Germania nazista. Sia chiaro, non sto in alcun modo paragonando Israele alla Germania nazista, mi riferisco solo a violazioni del diritto internazionale e a rischi di escalation militari, su cui le persone ragionevoli non dovrebbero avere dubbi. Qualche anno fa l'Unione europea varò forti sanzioni verso Cuba, rea di avere fucilato o imprigionato cittadini che espatriavano clandestinamente: quei provvedimenti compromisero la collaborazione scientifica e didattica che io, e altri, intrattenevamo con Cuba: qualcuno dei colleghi oggi in gioco con Israele alzò la voce? Israele è uno Stato «ebraico», in cui la minoranza non ebraica ha uno status sociale diverso. I colleghi che collaborano con università e centri di ricerca israeliani si sono mai preoccupati di chiedere ai colleghi quale sia la percentuale di arabi nel corpo accademico e di ricerca? E se quegli istituti hanno collaborazioni con centri militari? Il direttore del Dipartimento di Fisica di Roma avrebbe risposto agli studenti (cito dal manifesto) di non sapere quale futuro possano avere queste applicazioni, se in direzione positiva o a fini bellici. In questi giorni (come già nel 2006) circolano con insistenza accuse a Israele sull'uso o sperimentazione di armi nuove e atroci. Lo scrittore israeliano Shamuel Amir denunciava domenica il carattere «coloniale della guerra portata avanti dal sionismo», con la superiorità schiacciante dei suoi armamenti. Di fronte a questi rischi gli scienziati non possono mettersi l'anima in pace: provino almeno a prendere posizione contro le armi usate da Israele, e vedere se le loro collaborazioni proseguiranno! Ma non ce l'ho in particolare con il Direttore del Dipartimento, perché dietro la sua risposta sta una questione generale: l'ideologia secondo la quale la scienza è un valore universale al di sopra delle questioni sociali e non è responsabile delle applicazioni buone o cattive dei risultati. Non entro nel merito. Mi risuona l'esclamazione di Enrico Fermi: «Lasciatemi in pace con i vostri scrupoli, è una fisica così bella!». La scienza è un prodotto dell'attività degli uomini, partecipa e risente delle loro finalità, ed essi non possono lavarsi le mani del suo uso. Non si ricorda mai che una fetta notevole della comunità scientifica lavora in centri di ricerca militare, che hanno tutte le diramazioni possibili, e forse impensabili. Condivido le riserve a collaborare con l'università di California, che collabora con il laboratorio Livermore dove si progettano le armi nucleari. Oggi, di fronte alle sfide che l'umanità deve affrontare (e la prima è forse il rischio di un olocausto nucleare), gli scienziati devono assumersi maggiori responsabilità nei confronti del loro lavoro e delle loro scelte.


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GENOCIDE IN GAZA

What May Come After the Evacuation of Jewish Settlers from the Gaza Strip A Warning from Israel by Un Davis, Ilan Pappe and Tamar Yaron, July 15, 2005

We feel that it is urgent and necessary to raise the alarm regarding what may come during and after evacuation of Jewish settlers from the Gaza Strip occupied by Israel in 1967, in the event that the evacuation is implemented.

We held back on getting this statement published and circulated, seeking additional feedback from our peers. The publication in Haaretz (22 June 2005) quoting statements by General (Reserves) Eival Giladi, the head of the Coordination and Strategy team of the Prime Ministers Office, motivated us not to delay publication and circulation any further. Confirming our worst fears, General (Res.) Eival Giladi went on record in print and on television to the effect that "Israel will act in a very resolute manner in order to prevent terror attacks and [militant] fire while the disengagement is being implemented" and that "If pinpoint response proves insufficient, we may have to use weaponry that causes major collateral damage, including helicopters and planes, with mounting danger to surrounding people."

We believe that one primary, unstated motive for the determination of the government of the State of Israel to get the Jewish settlers of the Qatif (Katif) settlement block out of the Gaza Strip may be to keep them out of harms way when the Israeli government and military possibly trigger an intensified mass attack on the approximately one and a half million Palestinians in the Gaza Strip, of whom about half are 1948 Palestine refugees.

The scenario could be similar to what has already happened in the past a tactic that Ariel Sharon has used many times in his military career i.e., utilizing provocation in order to launch massive attacks.

Following this pattern, we believe that Prime Minister Ariel Sharon and Defence Minister Shaul Mofaz are considering to utilize provocation for vicious attacks in the near future on the approximately one and a half million Palestinian inhabitants of the Gaza Strip: a possible combination of intensified state terror and mass killing. The Israeli army is not likely to risk the kind of casualties to its soldiers that would be involved in employing ground troops on a large scale in the Gaza Strip. With General Dan Halutz as Chief of Staff they dont need to. It was General Dan Halutz, in his capacity as Commander of the Israeli Air Force, who authorized the bombing of a civilian Gaza City quarter with a bomb weighing one ton, and then went on record as saying that he sleeps well and that the only thing he feels when dropping a bomb is a slight bump of the aircraft.

The initiators of this alarm have been active for many decades in the defence of human rights inside the State of Israel and beyond. We do not have the academic evidence to support our feeling, but given past behavior, ideological leanings and current media spin initiated by the Israeli government and military, we believe that the designs of the State of Israel are clear, and we submit that our educated intuition with matters pertaining to the defence of human rights has been more often correct than otherwise.

We urge all those who share the concern above to add their names to ours and urgently give this alarm as wide a circulation as possible.

Circulating and publishing this text may constitute a significant factor in deterring the Israeli government, thus protecting the Palestinian population in the Gaza Strip from this very possible catastrophe and contributing to prevent yet more war crimes from occurring.

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Genocidio a Gaza di Ilan Pappe, The Electronic Intifada, 2 Settembre 2006

http://www.zmag.org/italy/pappe-genocidioagaza.htm

Molto dipende dalla reazione internazionale. Quando Israele fu assolto da ogni responsabilità o colpa per la pulizia etnica nel 1948, ciò trasformò questa politica in un mezzo legittimo per la sua agenda di sicurezza nazionale. Se l'attuale impennata e l'adattamento delle politiche di genocidio saranno tollerate dal mondo si diffonderanno e saranno utilizzate anche più drasticamente

E in atto un genocidio a Gaza. Stamattina, 3 settembre, altri tre cittadini di Gaza sono stati uccisi e un'intera famiglia è stata ferita a Beit Hanoun. Questo è il raccolto del mattino, prima della fine del giorno ne saranno massacrati molti di più. Una media di otto palestinesi muore negli attacchi israeliani nella Striscia. Molti di loro sono bambini. Centinaia sono mutilati, feriti e paralizzati.

L'autorità israeliana è smarrita sul da farsi nella Striscia di Gaza. Ha idee vaghe sulla West Bank. Il governo attuale dichiara che la West Bnak, diversamente dalla Striscia, è uno spazio aperto, almeno

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nella sua parte più orientale. Perciò se Israele, a seguito del programma di ingiobamento del governo, annette le parti a cui aspira metà della West Bank e la svuota della sua popolazione nativa, l'altra metà naturalmente tenderà verso la Giordania, almeno per un periodo, e non riguarderà Israele. Questo è un errore, ma nonostante ciò ha guadagnato l'entusiastico voto della maggior parte degli ebrei del Paese. Un simile piano non può funzionare nel territorio di Gaza l'Egitto, diversamente dalla Giordania è riuscito a convincere Israele, già nel 1948, che la Striscia di Gaza per loro è uno svantaggio e non farà mai parte dell'Egitto. Così un milione e mezzo di palestinesi sono confinati in Israele sebbene geograficamente la Striscia è localizzata ai confini dello stato, psicologicamente giace nel suo nucleo.

Le condizioni di vita disumane nell'area a più alta densità del mondo, e uno dei più poveri aggregati umani dell'emisfero occidentale, non mettono le persone nelle condizioni di viverci, adattandosi all'imprigionamento che Israele ha loro imposto sin dal 1967. Ci sono stati periodi relativamente migliori dove è stato concesso il movimento verso la West Bank e all'interno di Israele per motivi di lavoro, ma questi tempi sono finiti. I diritti di sfruttamento di Harsher sono attuati sin dal 1987. Alcuni accessi al mondo esterno sono stati concessi purché ci fossero insediamenti ebrei nella Striscia, ma una volta che sono stati rimossi la Striscia è stata chiusa ermeticamente. Ironicamente, molti israeliani, guardano a Gaza come ad uno stato palestinese indipendente che Israele ha bonariamente aiutato ad emergere. I capi di governo, e in particolare l'esercito, vede ad essa come una prigione con la più pericolosa comunità di reclusi, che deve essere eliminata in un modo o nell'altro.

Le convenzionali politiche israeliane di pulizia etnica, impiegate con successo nel 1948 contro la metà della popolazione palestinese, e contro centinaia di migliaia di palestinesi nella West Bank, qui non servono. Si possono lentamente trasferire palestinesi al di là della Sponda Occidentale, e particolarmente all'esterno dell'area della Grande Gerusalemme, ma non lo si può fare nella Striscia di Gaza una volta che lo si è sigillato come un carcere di massima sicurezza.

Per quanto concerne le operazioni di pulizia etnica, la politica di genocidio non è formulata a caso. Già fin dal 1948, l'esercito e il governo israeliani avevano bisogno di un pretesto per iniziare una tale politica. Il subentro dei palestinesi nel 1948 generò un'inevitabile resistenza locale che a sua volta produsse l'attuazione di una politica di pulizia etnica, premeditati sin dal 1930. Venti anni di occupazione israeliana della West Bank hanno prodotto alla fine una certa forma di resistenza palestinese. Questa ritardata lotta antioccupazione ha scatenato una nuova politica di pulizia che è tuttora attuata nella West Bank. La chiusura di Gaza nell'estate del 2005, che è stata ostentata come un generoso ritiro israeliano, ha prodotto l'attacco missilistico della Jiahd islamica di Hamas, e un caso di rapimento. Anche prima del sequestro di Giald Shalit,lesercito israeliano bombardava indiscriminatamente la Striscia. Dal sequestro, gli attacchi mortali si sono incrementati e sono diventati sistematici. Un bilancio giornaliero di palestinesi assassinati, maggiormente bambini, adesso è riportato nelle pagine interne della stampa locale, molto spesso in caratteri microscopici.

I maggiori colpevoli sono i piloti israeliani che hanno un giorno delle grandi manovre adesso che uno di loro è Generale Capo dello Staff. Nella guerra del Libano del 1982, l'aviazione israeliana impartì ordini ai suoi piloti di interrompere la missione se nel raggio di 500 metri quadrati, dal loro obiettivo individuavano civili innocenti. Non che tali ordini furono rispettati, ma la scusa per la distruzione morale interna era lì. All'interno dell'aviazione israeliana era chiamata Procedura Libanese [Nohal Levanon]. Quando i piloti chiesero un anno fa se la Procedura Libanese fosse una tattica per Gaza, la risposta fu no. La stessa risposta fu data ai piloti per la seconda guerra in Libano.

La guerra in Libano ha contribuito ad annebbiare per un certo tempo, coprendo i crimini di guerra nella Striscia di Gaza. Ma le politiche razziali aumentano anche dopo la conclusione del cessate il fuoco su nel nord. Sembra che l'esercito di Israele, frustrato e sconfitto, sia determinato ad allargare gli obiettivi di morte nella striscia di Gaza. Non ci sono politici capaci o volenterosi a fermare i generali. L'uccisione giornaliera di più di 10 civili lascerà poche centinaia di morti ogni anno. Questo, naturalmente, è differente dallo sterminare milioni di persone in una campagna la sola inibizione che Israele è disposto ad assumersi in memoria dell'Olocausto. Ma se si moltiplicano le uccisioni si raggiunge un numero di proporzioni orribili, e più importante si può imporre un'espulsione di massa alla fine del giorno fuori dalla Striscia o farlo nel nome degli aiuti umanitari, dell'intervento internazionale o del desiderio delle persone di sfuggire all'inferno. Ma se la tenacità palestinese sarà la risposta, e non c'è dubbio che questa sarà la reazione di Gaza, allora le uccisioni di massa continueranno e aumenteranno.

Molto dipende dalla reazione internazionale. Quando Israele fu assolto da ogni responsabilità o colpa per la pulizia etnica nel 1948, ciò trasformò questa politica in un mezzo legittimo per la sua agenda di sicurezza nazionale. Se l'attuale imperniata e l'adattamento delle politiche di genocidio saranno tollerate dal mondo, si diffonderanno e saranno utilizzate anche più drasticamente.


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Niente se non la pressione sotto forma di sanzioni, boicottaggio e privazione fermerà l'uccisione di civili innocenti nella Striscia di Gaza. Non c'è niente che noi qui in Israele possiamo fare. Piloti coraggiosi si rifiutano di prendere parte alle operazioni, due giornalisti su 150 non smettono di scrivere su ciò, ma è tutto. Nel nome del ricordo dell'Olocausto lasciateci sperare che il mondo non permetterà che il genocidio di Gaza continui.

Indice.



Palestina 2007: Genocidio a Gaza, pulizia etnica in Cisgiordania, di Ilan Pappe, The Electronic

Intifada, 11 gennaio 2007, http://electronicintifada.net/v2/article6374.shtml

In un altro articolo sempre su Electronic Intifada (Genocide in Gaza 11cm Pappe, The Electronic Intifada, 2

September 200, (ndt), non molto tempo fa, affermavo che Israele sta attuando una politica di genocidio nella striscia di Gaza. Avevo esitato molto prima di utilizzare questa parola molto pesante e tuttavia avevo deciso di adottarla. In effetti le reazioni ricevute, incluse quelle di alcuni dei più importanti attivisti dei diritti umani, indicavano un certo imbarazzo circa l'uso ditale parola. Per un attimo sono stato tentato di rivedere il termine, ma torno a utilizzarlo oggi, anche con maggior convinzione: è l'unico modo appropriato per descrivere quello che l'esercito israeliano sta facendo nella striscia di Gaza.

Ii 28 dicembre del 2006, l'organizzazione israeliana per i diritti umani B'Tselem ha pubblicato il suo rapporto annuale sulle atrocità commesse da Israele nei territori occupati. L'esercito israeliano ha ucciso nell'ultimo anno 660 persone. Il numero di palestinesi uccisi da Israele nell'ultimo anno è tre volte quello dell'anno precedente (circa 200). Secondo B'Tselem, gli israeliani hanno ucciso 141 bambini/ragazzi durante l'ultimo anno. La maggior parte delle persone uccise vivevano nella Striscia di Gaza, dove l'esercito israeliano ha demolito circa 300 case e sterminato intere famiglie. Questo significa che dal 2000 l'esercito israeliano ha ucciso almeno 4000 palestinesi, la metà dei quali giovani; più di 20.000 sono stati feriti.

B'Tselem è un'organizzazione prudente, e i numeri potrebbero essere più alti. Ma il punto non è l'intensificazione degli omicidi intenzionali, ma la linea di tendenza e la strategia. All'inizio del 2007 i politici israeliani stanno fronteggiando due realtà molto diverse in Cisgiordania e a Gaza. Nella prima essi sono più vicini che mai al completamento della costruzione del loro confine orientale. Il loro dibattito ideologico interno è finito e il loro piano generale per l'annessione di metà della West Bank sta per essere realizzato a velocità crescente. L'ultima fase è stata ritardata a causa della promessa fatta da Israele, nella Road Map, di non costruire nuovi insediamenti. Israele ha escogitato due vie per aggirare questa presunta proibizione. Primo, ha definito un terzo della West Bank "Grande Gerusalemme" e questo le permette di costruire, dentro questa nuova area annessa, città e centri comunitari. Secondo, amplia i vecchi insediamenti in modo da non avere bisogno di costruirne dei nuovi. Questo trend ha ricevuto un nuovo impulso nel 2006 (centinaia di caravan sono stati installati per marcare il confine delle espansioni, sono stati definiti i piani per le nuove città e i nuovi quartieri e sono state completate le bypass roads dell'apartheid e il sistema delle autostrade). In totale gli insediamenti, le basi militari, le strade e il muro permetteranno a Israele di annettere almeno metà della West Bank dal 2010. Entro questi territori vi è un numero considerevole di palestinesi contro i quali le autorità israeliane continueranno a mettere in atto lente e subdole politiche di pulizia etnica troppo banali per interessare i media occidentali e troppo vaghe perchè le organizzazioni per i diritti umani possano farne oggetto di osservazione. Non c'è nessuna fretta; per quanto riguarda gli israeliani essi hanno preso il sopravvento: i meccanismi quotidiani di abusi e di deumanizzazione misti, militari e burocratici, sono come sempre efficaci nel garantire la propria quota al processo di espropriazione.

Il pensiero strategico di Ariel Sharon secondo cui questa politica è migliore rispetto agli ottusi sostenitori del "transfer" (trasferimento) e della pulizia etnica, come sostenuto da Avigdor Liberman, è accettato da tutti nel governo, dal Labor a Kadima. I piccoli crimini del terrorismo di stato sono anche efficaci nella misura in cui permettono ai sionisti liberali in giro per il mondo di condannare debolmente Israele e allo stesso tempo etichettare ogni vera critica delle politiche criminali di Israele come anti semitismo.

D'altra parte, non c'è una chiara strategia israeliana, come quella per la striscia di Gaza; ma ogni giorno c'è un nuovo esperimento. Gaza, agli occhi degli Israeliani è proprio una entità geopolitica diversa dalla West Bank. Hamas controlla Gaza, mentre Abu Mazen sembra governare la West Bank con la benedizione israeliana e americana. Non c'è un lembo di terra a Gaza che Israele voglia e non c'è un retroterra, come la Giordania, nel quale i Palestinesi di Gaza possano essere espulsi. La pulizia etnica là è inefficace.


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La strategia iniziale a Gaza fu la ghettizzazione dei Palestinesi all'interno della striscia, ma questo non sta funzionando. La comunità ghettizzata continua ad esprimere la sua volontà di vivere con il lancio di razzi primitivi in Israele. Ghettizzare o mettere in quarantena comunità indesiderabili, anche quando sono viste come sub umane o pericolose, non ha mai funzionato nella storia come soluzione. Gli Ebrei conoscono tutto ciò molto bene dalla loro stessa storia. I passi successivi contro queste comunità nel passato furono anche più orribili e barbari. E' difficile dire che cosa il futuro riserva alla popolazione di Gaza, ghettizzata, messa in quarantena, indesiderata e demonizzata. Ci sarà il ripetersi di esempi storici terribili o sarà ancora possibile un destino migliore?

Creare una prigione e buttare a mare la chiave, come ha affermato lo Special Reporter dell'ONU John Dugard, è stata un'opzione alla quale i Palestinesi di Gaza hanno reagito con forza a cominciare dal settembre 2005. Essi erano determinati a mostrare senza il minimo dubbio che erano ancora parte della West Bank e della Palestina. In quel mese lanciarono il primo significativo, in numero e non in qualità, sbarramento di missili nel Negev Occidentale. Il bombardamento fu la risposta alla campagna israeliana di arresti di massa di attivisti di Hamas e della Jihad Islamica nell'area di Tulkarem. Gli israeliani risposero con l'operazione 'Prima Pioggia'. E' importante soffermarsi per un momento sulla natura di quella operazione. Era ispirata dalle misure punitive inflitte per primi dai poteri coloniali, e poi dalle dittature, contro i ribelli imprigionati o le comunità messe al bando. Una manifestazione spaventosa del potere dell'oppressore di intimorire precedeva tutti i tipi di punizione brutale e collettiva e finiva con un grande numero di morti e feriti tra le vittime. In 'Prima Pioggia', aerei supersonici furono fatti volare su Gaza per terrorizzare l'intera popolazione, seguiti da pesanti bombardamenti di vaste aree dal mare, dal cielo e dalla terra. La logica era, come l'esercito israeliano spiegò, quella di creare una forte pressione così da indebolire il sostegno della comunità di Gaza nei confronti dei gruppi che lanciano i razzi. Come c'era da aspettarsi anche da parte israeliana, l'operazione fece aumentare soltanto il sostegno al lancio di razzi e diede slancio ai loro nuovi tentativi. E sembra che, immediatamente, la risposta fu: 'molto bene'; vale a dire nessuno si interessò al numero dei morti e dei feriti Palestinesi lasciati sul terreno dopo la fine della operazione 'Prima Pioggia'.

E da questo momento, da 'Prima Pioggia' fino al giugno 2006, tutte le successive operazioni furono organizzate nello stesso modo. La differenza fu nella loro escalation: più potenza di fuoco, più caduti e maggiori danni collaterali e, come c'era da aspettarsi, più missili Qassam in risposta. Le ulteriori misure nel 2006 furono mezzi più atroci per assicurare il completo imprigionamento della popolazione di Gaza, attraverso il boicottaggio e il blocco con il quale l'Unione Europea sta ancora collaborando in modo vergognoso.

La cattura di Gilat Shalit nel giugno 2006 è stata irrilevante rispetto allo schema generale delle cose, ma malgrado questo ha dato una opportunità agli israeliani per aumentare ancor più l'articolazione delle missioni tattiche e, come si asserisce punitive.

Dopo tutto, non c'era ancora una strategia che aveva fatto seguito alla decisione tattica di Ariel Sharon di spostare 8.000 coloni, la cui presenza complicava le missioni 'punitive' e il cui allontanamento dalla striscia lo aveva quasi reso un candidato per il premio Nobel per la Pace. Da allora le azioni 'punitive' continuano e diventano esse stesse una strategia.

L'esercito israeliano ha il senso del tragico e quindi c'è stata anche una escalation nel linguaggio. 'Prima pioggia' è stato rimpiazzata da 'Piogge d'estate', un nome generico che fu dato alle operazioni 'punitive' dal giugno 2006 (in un paese dove in estate non c'è pioggia, le sole precipitazioni che si possono aspettare sono quelle delle bombe degli F 16 e dei colpi di artiglieria che colpiscono la popolazione di Gaza).

'Piogge d'estate' portò una ulteriore novità: l'invasione di terra in parti della striscia di Gaza. Questo permise all'esercito di uccidere civili ancor più efficacemente e di presentarlo come risultato di pesanti combattimenti all'interno di aree densamente popolate, un inevitabile risultato delle circostanze e non delle politiche israeliane. Alla fine dell'estate arrivò 'Nebbie d'autunno' che fu anche più efficace: il primo novembre 2006, in meno di 48 ore, gli israeliani uccisero 70 civili; alla fine di quel mese, con mini operazioni aggiuntive, almeno 200 persone furono uccise, metà delle quali donne e bambini. Come si può vedere dalle date, qualche attività fu parallela agli attacchi israeliani in Libano, rendendo più facile effettuare le operazioni senza una grande attenzione dall'estero, salvo qualche critica isolata.

Da 'Prima Pioggia' a 'Nubi d'autunno' si può osservare una escalation in ogni parametro. Il primo è la sparizione di ogni distinzione fra obiettivi civili e non civili: l'uccidere senza senso ha trasformato la popolazione nel suo complesso nell'obiettivo principale delle operazioni dell'esercito. Il secondo è una escalation nei mezzi: uso di ogni tipo di strumento per uccidere da parte dell'esercito Israeliano. Terzo, l'escalation è diventata significativa nel numero dei caduti: in ogni operazione e per ciascuna operazione futura un maggior numero di persone probabilmente possono essere uccise e ferite. Infine,


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ed è la cosa più importante, le operazioni diventano una strategia il modo in cui Israele intende risolvere il problema della striscia di Gaza.

Un transfer (trasferimento) strisciante nella West Bank e una politica di genocidio controllato nella striscia di Gaza sono le due strategie che Israele utilizza oggi. Da un punto di vista elettorale quella a Gaza è problematica nella misura in cui non raggiunge nessun risultato tangibile; la West Bank sotto Abu Mazen sta cedendo alla pressione israeliana e non c'è lì una forza significativa capace di bloccare la strategia israeliana di annessione e di espropriazione. Ma Gaza continua a rispondere al fuoco. Da una parte questo potrebbe permettere all'esercito israeliano di iniziare operazioni più massicce di genocidio in futuro. Dall'altra parte vi è anche il pericolo grave, che come è accaduto nel 1948, l'esercito chieda una azione punitiva e collaterale più drastica e sistematica contro la popolazione assediata della striscia di Gaza.

Ironicamente, la macchina di assassinio israeliana si è fermata ultimamente. Anche un numero relativamente alto di missili Qassam, inclusi uno o due quasi mortali, non hanno spinto l'esercito all'azione. Anche se il portavoce dell'esercito dice che tutto questo è una limitazione voluta, non è mai accaduto in passato e non è probabile che faranno così in futuro. L'esercito riposa, come se i suoi generali fossero soddisfatti degli assassini fratricidi che infuriano a Gaza e che fanno il lavoro al posto loro. Osservano con soddisfazione il sorgere della guerra civile a Gaza, che Israele fomenta e incoraggia. Dal punto di vista israeliano il problema non è come Gaza sara ridimensionata demograficamente, se dal suo interno o per gli omicidi israeliani. La responsabilità di porre fine agli scontri interni è ovviamente dei gruppi Palestinesi stessi, ma l'interferenza americana e israeliana, l'imprigionamento permanente, la fame e lo strangolamento di Gaza sono tutti fattori che rendono questo processo di pace interno molto difficile. Ma esso avverrà presto e ai primi prossimi segni che si torna alla calma, l'operazione israeliana Piogge d'estate cadrà di nuovo sul popolo di Gaza, portando morte e devastazione.

E non bisognerebbe mai stancarsi di trarre le ineluttabili conclusioni politiche di questa realtà orribile dell'anno che ci siamo lasciati dietro le spalle e di quella che ci aspetta. Non vi è nessuna altra via per fermare Israele oltre il boicottaggio il disinvestimento e le sanzioni. Noi tutti dovremmo sostenere il boicottaggio con chiarezza, apertamente, senza condizioni, senza riguardo a quello che i guru del nostro campo ci dicono sull'efficienza o la ragion d'essere di queste azioni. L'ONU non interverrà a Gaza come ha fatto in Africa; i premi Nobel per la pace non si schiereranno a favore del boicottaggio come hanno fatto per le cause del Sud Est asiatico. Il numero di persone uccise non commuoverà come avviene per altre calamità, e non è una storia nuova è una storia pericolosamente vecchia e preoccupante. Il solo punto debole di questa macchina di morte è che i suoi tubi per l'ossigeno sono collegati alla civiltà e alla opinione pubblica "occidentale". E' ancora possibile bucarli e rendere almeno più difficile per gli israeliani di realizzare la loro futura strategia di eliminazione del popolo palestinese con la pulizia etnica nella West Bank o con il genocidio nella striscia di Gaza.


Traduzione a cura di ISM Italia

Indice.



Tempo scaduto di han Pappé

Seconda conferenza annuale a Bil'in, 18 aprile 2007

http://www.bilin-village.org/english/articles/conference2007/index2

Giunti al 400 anno di occupazione e al 60° anno dalla Nakba, dobbiamo dire che il tempo è scaduto E uno dei motivi principali per cui il tempo è scaduto è il fatto che noi siamo ancora incollati allo stesso discorso che i moderatori di pace in questa area ci hanno propinato da dieci o quindici anni. Stiamo ancora parlando di soluzione due stati mentre dovremmo parlare di soluzione uno stato. Stiamo ancora parlando della possibilità che i rifugiati rinuncino al loro diritto al ritorno, mentre noi dovremmo insistere che i rifugiati dovrebbero avere il diritto al ritorno. E stiamo ancora parlando di accordi parziali mentre dovremmo parlare di una soluzione globale della questione palestinese. Stiamo facendo tutte queste cose perchè alcuni di noi sembra pensino che questa è una posizione pratica, efficace che avvicinerebbe la possibilità di una pace, come se tutto ciò che è accaduto negli ultimi 20 anni indicasse che questa è la via giusta per andare avanti. Al contrario, noi dovremmo parlare un linguaggio diverso, dovremmo fissare altri obiettivi e dovremmo incominciare a perseguirli oggi, prima che sia troppo tardi.


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Il nostro punto di partenza, sia che si viva sotto occupazione, sia che si viva in esilio, sia che si viva in Israele o che si viva in qualsiasi luogo del mondo e si abbia a cuore la Palestina, il nostro punto di partenza è che questo paese è già un paese con uno stato unico governato da un regime che ubbidisce a una ideologia che non concede ai palestinesi nessuna parte di questa terra sia che essi siano in esilio, sia che vivano a Bil'in, sia che vivano a Nazareth. Da questo punto di vista noi siamo tutti sotto il dominio di un regime ideologico che lotta per imporre il dominio ebraico su tutto il territorio della Palestina, ed è disposto, almeno per il tempo presente, ad accontentarsi di differenti tattiche e mezzi di occupazione e di controllo dei territorio. Ma la strategia è la stessa e l'ideologia è la stessa e quello che noi dovemmo attaccare, affrontare è l'infrastruttura ideologica dello stato ebraico, la struttura ideologica del sionismo. Questa è la origine di tutte le scelte politiche: la politica del 1948 che portò alla pulizia etnica di tre quarti dei palestinesi; questa è l'ideologia che ha prodotto le politiche dal 1967 fino a oggi; e questa è l'ideologia che guiderà in futuro le politiche contro il popolo che vive al di là dei muro, contro il popolo che vive nell' area della grande Gerusalemme e anche contro i palestinesi che oggi sono cittadini della Stato di Israele, perché, come i più recenti indizi suggeriscono, qualche cosa di veramente importante sta cambiando nella politica verso questa minoranza, mentre noi parliamo.

E questa ideologia è molto chiara e, infatti, a differenza di molti anni fa, l'elite politica ufficiale israeliana ora parla in modo esplicito di questa ideologia. L'elite politica israeliana è stanca di barcamenarsi fra il gioco della democrazia e l'attuale politica di espropriazione etnica e razzista. Qualche cosa è accaduto nell'ultimo anno. Hanno rinunciato all'inerzia; hanno rinunciato alla abilità di barcamenarsi e di apparire in tutto il mondo come se vi fosse un dibattito reale in Israele fra impulsi democratici e una pulsione etnica e razzista. Questo è ciò che realmente sta sui tavolo. Non vi è alcuna necessità di una de costruzione sofisticata per comprendere che a questo punto l'elite politica israeliana non sta più giocando una partita democratica. Essa sta realizzando gli ultimi capitoli della sua ideologia: fare della Palestina uno stato ebraico con una presenza il più possibile ridotta di palestinesi. Se noi accettiamo che questa sia l'infrastruttura ideologica dello stato ebraico e se accettiamo che questa infrastruttura ideologica ha prodotto le politiche di pulizia etnica nei passato e le politiche di pulizia etnica nei presente e nei futuro, noi non dovremmo parlare di un dialogo con io stato ebraico. Noi non dovremmo parlare di una Roadmap, non dovremmo parlare di una iniziativa di Ginevra. Noi dovremmo parlare di come sconfiggere questo regime ideologico sottoponendolo alla stessa pressione a cui abbiamo sottoposto un altro spregevole regime ideologico, quello del Sud Africa. Chi mai ha suggerito un dialogo in Sud Africa dell'apartheid fra sostenitori di un apartheid soft e sostenitori di un apartheid duro? Ovviamente, non vi era nessuna distinzione fra popolo dell'apartheid soft e popolo dell'apartheid hard. Non vi dovrebbe essere nessuna distinzione fra sionismo soft e sionismo hard. Entrambi la pensano allo stesso modo circa ii futuro. E' arrivato ii momento per il mondo di inviare un messaggio e se le elite politiche del mondo non sono capaci di farlo, che sia la società civile a farlo di inviare un messaggio a questo stato: "Nel secolo ventunesimo uno stato che si basa su questa ideologia non può essere accolto come membro della comunità delle nazioni civili."

E vi sono molti modi non violenti per inviare questo messaggio forte e chiaro allo Stato di Israele. Noi esortiamo e propugnamo l'uso del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni come il sistema migliore per lanciare agli israeliani il messaggio che noi riconosciamo l'infrastruttura ideologica dello stato, che noi sappiamo che non è questione di una politica o di un'altra, che noi sappiamo che è una questione che riguarda la natura dello stato, il suo statuto ideologico e che noi non accetteremo questo statuto ideologico nel 21° secolo. E io credo che vi siano già correnti molto forti in occidente, in Inghilterra, negli Stati Uniti, e in altre parti, di moltissima gente che non appartiene obbligatoriamente alla classe politica di questi paesi che dice: "troppo è troppo", che sono disposti a accettare l'idea, da un punto di vista umanitario, di impegnarsi per una lotta, come si sono impegnati contro il Sud Africa, contro l'Argentina, il Cile, gli Stati Uniti nel momento in cui questi paesi hanno perseguito politiche e sottoscritto ideologie che essi non accettavano.


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Ci sono le persone, c'è l'esperienza storica, ci sono gli esempi storici. Probabilmente il solo ostacolo che si frappone fra queste energie e una operazione molto efficace è la paura, l'esitazione di organizzazioni molto importanti, e anche di individui, in occidente di essere dipinti come anti semiti a causa di una azione di questo genere. E io penso che sia giunto il momento di superare queste paure e queste esitazioni . In particolare mi aspetto che in Germania la gente si faccia avanti e dica che proprio a causa dell'Olocausto, proprio a causa di quanto avvenuto nella Germania nazista io desidero sentire le voci morali in Germania che dicano: "Noi non possiamo tollerare ciò che Israele sta facendo ai Palestinesi", ed essendo il paese più forte in Europa, la Germania guidi l'Europa a boicottare Israele fino a che non cambi le sue politiche.

E' un lascito vergognoso permettere a Israele di fare ai palestinesi quello che i nazisti hanno fatto agli ebrei. Questo è veramente un vergognoso lascito del popolo tedesco se esso resta in disparte e non fa nulla di fronte a tutto questo. E una accusa simile può facilmente essere rivolta ad altri settori della società europea. Così io penso che noi dovremmo da qui incoraggiare le persone a comprendere e con ciò io desidero: io credo che le persone dovrebbero comprendere che vi è una connessione fra il muro dell'apartheid e il muro che Israele sta costruendo presso Bil'in e la pulizia etnica della Palestina del 1948 e le attuali misure persecutorie che vengono prese contro i palestinesi all'interno di Israele e l'opposizione israeliana al ritorno dei profughi queste sono tutte parti della stessa politica e della stessa ideologia. Supplico i miei amici palestinesi che non vedono questo e permettono che Israele distingua fra differenti gruppi di palestinesi come se ci fosse una differente politica israeliana nei confronti di diversi gruppi di palestinesi, di non fare il gioco del popolo che vuole espropriarli della Palestina, sia che essi vivano a Bil'in o che vivano a Jaffa o a Sakhnin in Galilea. Credetemi, io sono nato in questo paese.

Io sono un prodotto di questo sistema educativo anche se non un prodotto di particolare successo di questo sistema educativo ma lo conosco dall'interno. Gli israeliani non fanno distinzioni fra differenti gruppi di palestinesi: gli israeliani non distinguono fra palestinesi buoni e palestinesi cattivi. Gli israeliani non accetteranno una soluzione due stati: non accetteranno una soluzione uno¬stato. Non cesseranno l'occupazione e non accetteranno il diritto al ritorno; e nessuna cosa fate li convincerà a fare una cosa o l'altra. Non faranno nessuna di queste cose se lascerete a loro il farla, ma se eserciterete pressioni come avete fatto per il Sud Africa, allora faranno ogni cosa e per il bene non solo dei palestinesi ma per il bene degli ebrei che vivono in questo paese e soprattutto per il bene degli ebrei del mondo, che per anni disgraziatamente sono stati gli ambasciatori e le ambasciatrici di Israele anche per riguardo al loro destino questa pressione ci permetterà di vivere in riconciliazione e pace in questa terra santa.

traduzione a cura di ISM Italia, luglio 2007

Indice.



La furia sacrificale di Israele e le sue vittime a Gaza di han Pappe

The Electronic Intifada, 2 gennaio 2009

(traduzione a cura di ISM Italia, 8 gen 2009)


La mia visita di ritorno a casa in Galilea è coincisa con l'attacco genocida israeliano contro Gaza. Lo stato, attraverso i suoi media e con l'aiuto del mondo accademico, ha diffuso una voce unanime persino più forte di quella udita durante l'attacco criminale contro il Libano nell'estate del 2006. Israele è ancora una volta divorata da una furia sacrificale che traduce in politiche distruttive nella Striscia di Gaza. Questa auto giustificazione spaventosa per l'inumanità e l'impunità non è soltanto sconcertante, ma è un argomento sul quale soffermarsi se si vuole comprendere l'immunità internazionale per il massacro che infuria a Gaza.

E' anzitutto fondata su bugie pure e semplici trasmesse con una neolingua che ricorda i giorni più bui dell'Europa del 1930. Ogni mezz'ora un bollettino d'informazioni su radio e televisione descrive le vittime di Gaza come terroristi e le uccisioni di centinaia di persone come un atto di autodifesa. Israele presenta sé stessa al suo popolo come la vittima sacrificale che si difende contro un


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grande demonio. Il mondo accademico è reclutato per spiegare quanto demoniaca e mostruosa è la lotta palestinese, se è condotta da Hamas. Questi sono gli stessi studiosi che demonizzarono l'ultimo leader palestinese Yasser Arafat nel primo periodo e delegittimarono il suo movimento Fatah durante la seconda intifada palestinese.

Ma le bugie e le rappresentazioni distorte non sono la parte peggiore di tutto questo. Quello che indigna di più è l'attacco diretto alle ultime tracce di umanità e dignità del popolo palestinese. I palestinesi di Israele hanno mostrato la loro solidarietà con il popolo di Gaza e ora sono bollati come una quinta colonna nello stato ebraico; il loro diritto a restare nella loro patria viene rimesso in dubbio data la loro mancanza di sostegno all'aggressione israeliana. Coloro che hanno accettato sbagliando, secondo la mia opinione, di apparire nei media locali sono interrogati e non intervistati, come se fossero detenuti nelle prigioni dello Shin Bet. La loro apparizione è preceduta e seguita da umilianti rilievi razzisti e sono sottoposti all'accusa di essere una quinta colonna, un popolo fanatico e irrazionale. E ancora questa non è la pratica più vile. Ci sono alcuni bambini palestinesi dei Territori Occupati curati per cancro negli ospedali israeliani. Dio sa quale prezzo devono pagare le loro famiglie per poterli ricoverare. La radio israeliana va ogni giorno negli ospedali per chiedere ai poveri genitori di dire agli ascoltatori israeliani quanto è nel suo diritto Israele nel suo attacco e quanto demoniaco sia Hamas nella sua difesa.

Non ci sono confini all'ipocrisia che una furia sacrificale produce. I discorsi dei generali e dei politici si muovono in modo erratico tra gli autocompiacimenti da un lato sull'umanità che l'esercito mostra nelle sue operazioni "chirurgiche" e dall'altro sulla necessità di distruggere Gaza una volta per tutte, naturalmente in un modo umano.

Questa furia sacrificale è un fenomeno costante nella espropriazione israeliana, e prima ancora sionista, della Palestina. Ogni azione, sia essa la pulizia etnica, l'occupazione, il massacro o la distruzione è stata sempre rappresentata come moralmente giusta e come semplice atto di autodifesa commesso da Israele suo malgrado nella guerra contro la peggior specie di esseri umani. Nel suo eccellente volume "I risultati del sionismo: miti, politiche e cultura in Israele", Gabi Piterberg esamina le origini ideologiche e la progressione storica di questa furia. sacrificale. Oggi in Israele, dalla destra alla sinistra, dal Likud a Kadima, dall'accademia ai media, si può ascoltare questa furia sacrificale di uno stato che è molto più indaffarato di qualsiasi altro stato al mondo nel distruggere e nell'espropriare una popolazione nativa.

E' molto importante esaminare le origini ideologiche di questo modo di comportarsi e derivare, dalla sua larga diffusione, le conclusioni politiche necessarie.

Questa furia sacrificale costituisce uno scudo per la società e per i politici in Israele da ogni biasimo o critica esterna. Ma ancora peggio, si traduce sempre in politiche di distruzione contro i palestinesi. Senza nessun meccanismo interno di critica e senza nessuna pressione esterna, ogni palestinese diventa un obiettivo potenziale di questa furia. Data la potenza di fuoco dello stato ebraico può soltanto finire in più massicce uccisioni, massacri e pulizia etnica.

La assenza di una qualsiasi moralità è un potente atto di auto negazione e di giustificazione. Ciò spiega perché la società israeliana non può essere modificata da parole di saggezza, di persuasione logica o di dialogo diplomatico. E se non si vuole usare la violenza come mezzo di opposizione, c'è soltanto un modo per andare avanti: sfidare frontalmente questa assenza di moralità come una ideologia diabolica tesa a nascondere atrocità umane. Un altro nome per questa ideologia è Sionismo e l'unico modo di contrastare questa assenza di moralità è il biasimo a livello internazionale del sionismo, non solo di particolari politiche israeliane. Dobbiamo cercare di spiegare non solo al mondo, ma anche agli stessi israeliani che il sionismo è un'ideologia che comporta la pulizia etnica, l'occupazione e ora massicci massacri. Ciò che occorre ora non è tanto una condanna del presente massacro. ma anche la delegittimazione dell'ideologia che ha prodotto tale politica e la giustifica moralmente e politicamente. Speriamo che importanti voci nel mondo possano dire allo stato ebraico che questa ideologia e il comportamento complessivo dello stato sono intollerabili e inaccettabili e che, sino a quando persisteranno, Israele sarà boicottato e soggetto a sanzioni.


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Ma non sono ingenuo. So che anche il massacro di centinaia di innocenti palestinesi non sarà sufficiente per produrre questa modificazione nella pubblica opinione occidentale; è anche più improbabile che i crimini commessi a Gaza muovano i governo europei a mutare la loro politica nei confronti della Palestina.

Ma noi non possiamo permettere che il 2009 sia un altro anno, meno significativo del 2008, l'anno di commemorazione della Nakba, che non sia riuscito a realizzare le grandi speranze che noi tutti avevamo, per la sua potenzialità, di trasformare il comportamento del mondo occidentale verso la Palestina e i palestinesi.

Pare che persino il più orrendo dei crimini, come il genocidio a Gaza, sia trattato come un evento separato, non connesso con nulla di ciò che è già avvenuto nel passato e non associato ad una ideologia o a un sistema. In questo nuovo anno, noi dobbiamo tentare di riposizionare l'opinione pubblica nei confronti della storia della Palestina e dei mali dell'ideologia sionista come i mezzi migliori sia per spiegare le operazioni genocide come quella in corso a Gaza sia per prevenire cose peggiori nel futuro.

Questo è già stato fatto, a livello accademico. La nostra sfida maggiore è quella di trovare un modo efficace di spiegare le connessioni tra l'ideologia sionista e le politiche di distruzione del passato con la crisi presente. Può essere più facile farlo mentre, in queste terribili circostanze, l'attenzione mondiale è diretta ancora una volta verso la Palestina. Potrebbe essere ancora più difficile quando la situazione sembra essere "più calma" e meno drammatica. Nei momenti "di quiete", l'attenzione di breve durata dei media occidentali metterebbe ai margini ancora una volta la tragedia palestinese e la dimenticherebbe sia per gli orribili genocidi in Africa o per la crisi economica e per gli scenari ecologici apocalittici nel resto del mondo. Mentre i media occidentali non sembrano molto interessati alla dimensione storica, soltanto attraverso una valutazione storica si può mostrare la dimensione dei crimini commessi contro i palestinesi nei sessanta anni trascorsi. Perciò il ruolo degli studiosi attivisti e dei media alternativi sta proprio nell'insistere su questi contesti storici. Questi attori non dovrebbero smettere di educare l'opinione pubblica e, si spera, di influenzare qualche politico più onesto a guardare ai fatti in una prospettiva storica più ampia.

Allo stesso modo, noi possiamo essere in grado di trovare un modo più adeguato alla gente comune, distinto dal livello accademico degli intellettuali, per spiegare chiaramente che la politica di Israele nei sessanta anni trascorsi deriva da un'ideologia egemonica razzista chiamata sionismo, difesa da infiniti strati di furia sacrificale. Nonostante l'accusa scontata di antisemitismo e cose del genere, è tempo di mettere in relazione nell'opinione pubblica l'ideologia sionista con il punto di riferimento storico e ormai familiare della terra: la pulizia etnica del 1948, l'oppressione dei palestinesi in Israele durante i giorni del governo militare, la brutale occupazione della Cisgiordania e ora il massacro di Gaza. Come l'ideologia dell'apartheid ha spiegato benissimo le politiche di oppressione del governo del Sud Africa, questa ideologia nella sua variante più semplicistica e riflessa, ha permesso a tutti i governi israeliani, nel passato e nel presente, di disumanizzare i palestinesi ovunque essi fossero e di combattere per distruggerli. I mezzi sono mutati da un periodo all'altro, da un luogo all'altro, come ha fatto la narrazione che ha nascosto queste atrocità. Ma c'è un disegno chiaro che non può essere solo fatto oggetto di discussione nelle torri d'avorio accademiche, ma deve diventare parte del discorso politico nella realtà contemporanea della Palestina di oggi.

Alcuni di noi, in particolare quelli che si dedicano alla giustizia e alla pace in Palestina, inconsciamente evitano questo dibattito, concentrandosi, e questo è comprensibile, sui Territori Palestinesi Occupati (OPT) la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Lottare contro le politiche criminali è una missione urgente. Ma questo non dovrebbe trasmettere il messaggio che le potenze occidentali hanno adottato volentieri su suggerimento israeliano, che la Palestina è soltanto la Cisgiordania e la Striscia di Gaza e che i palestinesi sono solo la popolazione che vive in quei territori. Dovremmo estendere la rappresentazione della Palestina geograficamente e demograficamente raccontando la narrazione storica dei fatti dal 1948 in poi e richiedere diritti civili e umani eguali per tutte le persone che vivono, o che erano abituati a vivere, in quella che oggi è Israele e i Territori Occupati.

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Ponendo in relazione l'ideologia sionista e le politiche del passato con le atrocità del presente, noi saremo in grado di dare una spiegazione chiara e logica per la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Sfidare con mezzi non violenti uno stato ideologico che si autogiustifica moralmente, che si permette, con l'aiuto di un mondo silenzioso, di espropriare e distruggere la popolazione nativa di Palestina, è una causa giusta e morale. E' anche un modo efficace di stimolare l'opinione pubblica non soltanto contro le attuali politiche genocidarie a Gaza, ma, si spera, anche a prevenire future atrocità. Ancora più importante di ogni altra cosa ciò dovrebbe far sfiatare la furia sacrificale che soffoca i palestinesi ogni volta che si gonfia. Ciò aiuterà a porre fine alla immunità dell'occidente a fronte dell'impunità di Israele. Senza questa immunità, si spera che sempre più la gente in Israele cominci a vedere la natura reale dei crimini commessi in loro nome e la loro furia potrebbe essere diretta contro coloro che hanno intrappolato loro e i palestinesi in questo ciclo non necessario di massacri e violenza.


Ilan Pappe insegna nel Dipartimento di storia nell'Università di Exeter.

(ndt: abbiamo tradotto righteous fury in furia sacrificale al posto della traduzione letterale furia giusta o furia santa o furia giustificabile)

Indice.



Gideon Levy risponde a Abraham B. Yehoshua


La Stampa 8/1/2009 Noi ebrei e i razzi di Gaza di Abraham B. Yehoshua


Caro Gideon, negli ultimi anni ero solito telefonarti per complimentarmi per i tuoi articoli e reportage sulle ingiustizie, i soprusi, gli espropri, le angherie e le sopraffazioni commessi nei Territori occupati sia dall'esercito israeliano sia dai coloni. Non ti domandavo come mai non ti recavi anche negli ospedali israeliani per riferire le storie dei civili rimasti coinvolti in attentati terroristici. Accettavo la tua posizione che ci sono abbastanza giornalisti che svolgono questo tipo di lavoro mentre tu ti eri assunto l'impegno di mostrare la sofferenza dell'altra parte, dei nostri nemici di oggi e vicini di domani. Ed è in considerazione di questa stima nei tuoi confronti che ritengo giusto reagire ai tuoi recenti articoli sulla guerra in corso, perché la tua voce possa continuare a serbare l'autorità morale che la contraddistingue.

Quando ti pregai di spiegarmi perché Hamas continuava a spararci addosso anche dopo il nostro ritiro tu rispondesti che lo faceva perché voleva la riapertura dei valichi di frontiera. Ti chiesi allora se ritenevi plausibile che Hamas potesse convincerci adottando un comportamento del genere o se, piuttosto, non avrebbe ottenuto il risultato contrario, e se fosse giusto riaprire le frontiere a chi proclamava apertamente di volerci sterminare. Non ricevetti da te alcuna risposta. I valichi, da allora, sono stati riaperti più volte, e richiusi dopo nuovi lanci di razzi. Sfortunatamente, però, non ti ho mai sentito proclamare con fermezza: adesso, gente di Gaza, dopo aver respinto giustamente l'occupazione israeliana, cessate il fuoco.

Talvolta penso, con rammarico, che forse tu non provi pena per la morte dei bambini di Gaza o di Israele, ma solo per la tua coscienza. Se infatti ti stesse a cuore il loro destino giustificheresti l'attuale operazione militare, intrapresa non per sradicare Hamas da Gaza ma per far capire ai suoi abitanti (e malauguratamente, al momento, è questo l'unico modo per farglielo capire) che è ora di smetterla di sparare razzi su Israele, di immagazzinare armi in vista di una fantomatica e utopica guerra che spazzi via lo Stato ebraico e di mettere in pericolo il futuro dei loro figli in un'impresa assurda e irrealizzabile. Oggi, per la prima volta dopo secoli di dominio ottomano, britannico, egiziano, giordano e israeliano, una parte del popolo palestinese ha ottenuto una prima, e spero non ultima, occasione per esercitare un governo pieno e indipendente su una porzione del suo territorio. Se intraprendesse opere di ricostruzione e di sviluppo sociale, anche secondo i principi della religione islamica, dimostrerebbe al mondo intero, e soprattutto a noi, di essere disposto a vivere in pace con chi lo circonda, libero ma responsabile delle proprie azioni.


Lettera a Gideon Levi, amico e giornalista di Haaretz, che ha aspramente criticato Israele proponendo che i suoi leader vengano giudicati per crimini di guerra davanti a un tribunale internazionale.

Indice.



Haaretz 2009 0118 Gideon Levy: Una risposta aperta a A.B.Yehoshua


Caro Bulli*, grazie per la tua lettera franca e per le gentili parole. Scrivi che ti sei mosso da "una posizione di rispetto", e anch'io rispetto profondamente i tuoi meravigliosi lavori letterari. Ma, disgraziatamente, provo molto meno rispetto per la tua attuale posizione politica. E come se i grandi, compreso tu, abbiano dovuto soccombere ad una terribile conflagrazione che ha consumato ogni traccia di ossatura morale.

Anche tu, autore stimato, sei caduto preda della sciagurata onda che ci ha invaso, intorpidito, accecato e ci ha lavato il cervello. Oggi ti trovi a giustificare la guerra più brutale che Israele abbia mai combattuto, e nel farlo sei compiacente con l'imbroglio che l'occupazione di Gaza è finita" e giustifichi le uccisioni di massa evocando l'alibi che Hamas "mescola deliberatamente i suoi combattenti alla popolazione civile". Stai giudicando un popolo indifeso a cui è negato un governo ed un esercito


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includendo un movimento fondamentalista che utilizza mezzi inadatti per combattere per una giusta causa, cioè la fine dell'occupazione allo stesso modo in cui giudichi una potenza regionale, che si considera umanitaria e democratica ma che si è dimostrata essere un conquistatore crudele e brutale. Come israeliano, non posso ammonire i loro leader mentre le nostre mani sono coperte di sangue, né voglio giudicare Israele e i palestinesi come hai fatto tu.

I residenti a Gaza non hanno mai avuto il possesso della "loro stessa porzione di terra", come tu hai affermato. Abbiamo lasciato Gaza per soddisfare i nostri interessi e bisogni, e poi li abbiamo imprigionati. Abbiamo escluso il territorio dal resto del mondo e occupato la Cisgiordania, e non abbiamo permesso loro di costruire un aeroporto o un porto navale. Controlliamo il loro registro civile e la loro moneta e disporre di un proprio esercito è fuori questione e tu sostieni che l'occupazione è finita? Abbiamo annientato i loro mezzi di sostentamento, li abbiamo assediati per due anni, e tu affermi che loro "hanno respinto l'occupazione israeliana"? L'occupazione di Gaza ha semplicemente assunto una nuova forma: un recinto al posto delle colonie. I carcerieri fanno la guardia dall'esterno invece che all'interno.

E no, io non so "molto bene", come hai scritto, che non intendiamo uccidere i bambini. Quando vengono impiegati carri armati, artiglieria e aerei in un'area così densamente popolata è impossibile evitare di uccidere dei bambini. Capisco che la propaganda israeliana ha lavato la tua coscienza, ma non la mia né quella della maggior parte del pianeta. I risultati, non le intenzioni, sono quelle che contano e i risultati sono stati orrendi. "Se tu fossi realmente preoccupato per la morte dei nostri e dei loro bambini"

hai scritto, "capiresti l'attuale guerra". Persino nel peggiore dei tuoi passi letterari, e ce ne sono stati pochi, non avresti potuto tirare fuori un'argomentazione morale più disonesta: che all'uccisione criminale di bambini non corrisponda una vera preoccupazione per il loro destino. "Eccoci ancora una volta, a scrivere di bambini", ti devi essere detto questo weekend quando io ho scritto ancora sui bambini uccisi. Si, bisogna scriverne. Bisogna gridarlo. Va fatto per il bene di entrambi.

A tuo parere la guerra è "il solo modo per indurre Hamas a capire".

Anche volendo ignorare il tono accondiscendente della tua osservazione, mi sarei aspettato di più da uno scrittore. Mi sarei aspettato che uno scrittore conosciuto fosse familiare con la storia delle insurrezioni nazionali: non possono essere schiacciate con la forza. Nonostante tutta la forza distruttiva che abbiamo messo in atto in questa guerra, non capisco ancora come possano venirne influenzati i palestinesi; i Qassam vengono ancora lanciati su Israele. Loro e il mondo hanno chiaramente tratto un'altra lezione nelle ultime settimane: che Israele è un paese violento, pericoloso e privo di scrupoli. Desideri vivere in un paese che possiede una simile reputazione? Una nazione che annuncia orgogliosamente di essere "pazza", come alcuni ministri israeliani hanno detto con riferimento alle operazioni militari a Gaza? Io no.

Hai scritto che ti sei sempre preoccupato per me a causa dei miei viaggi in "luoghi così ostili". Quei luoghi sono meno ostili di quanto pensi, se ci vai armato di nulla tranne che del desiderio di ascoltare. Non ci sono andato per "raccontare la storia delle afflizioni degli altri", ma per rendere note le nostre stesse azioni. Questo è sempre stato l'autentico punto di partenza israeliano del mio lavoro.

Infine, mi chiedi di conservare la mia "autorità morale". Non è la mia immagine che desidero proteggere ma quella della nazione, che è ugualmente cara ad entrambi noi.

In amicizia, nonostante tutto.

* Levy in vari precedenti articoli ha paragonato Israele al bulletto gradasso del quartiere, paragone qui esteso evidentemente anche a chi apertamente giustifica il massacro di civili nella Striscia di Gaza (n.d.r.).


La Stampa di Torino si è ben guardata dal pubblicare la risposta di Gideon Levy.

Indice.



Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

in visita a Parma il 9 gennaio del 2009 Signor Presidente della Repubblica,


le sue dichiarazioni, rese alla stampa il 5 gennaio u.s. (allegato 1), sulla situazione a Gaza mi lasciano stupefatto e indignato. Lei ha affermato che "la situazione nella striscia di Gaza è molto dura". "Dura" Signor Presidente? E' questo l'unico aggettivo che è riuscito a trovare nel suo forbito vocabolario per classificare una vicenda che ha i tratti di un mostruoso massacro? "Dura" la situazione mentre i tanks israeliani sparano ad alzo zero sui quartieri di Gaza e gli F16 e gli elicotteri d'assalto Apache seminano morte e distruzione dall'alto, mentre centinaia di feriti, privi di ogni assistenza, muoiono dissanguati e intere famiglie, decine di bambini, figliolanze intere, vengono annientate dal fuoco israeliano? "Dura", secondo la sua autorevole opinione, una criminale operazione in cui vengono utilizzate, come a Falluja, bombe al fosforo bianco e bombe di ultima generazione, le famigerate DIME (Dense Inert Metal Explosive), contro una popolazione inerme che non ha vie di scampo, sigillata come è in una immensa prigione, un ghetto a cielo aperto?

Di fronte a questo massacro a cui è stato dato il nome adatto (Piombo fuso), Lei fa intendere che il problema, e dunque le responsabilità, non sono di Israele ma di Hamas. Hamas sarebbe "l'elemento di complicazione di una crisi già pesante che si trascina". Lei in questo modo si fa portavoce della versione che di questa carneficina forniscono i capi dello stato di Israele, il corrotto primo ministro dimissionario Olmert, il ministro degli esteri Livni Tipzi, il presidente Shimon Peres. Costoro dichiarano che l'operazione è condotta non contro i palestinesi ma contro Hamas. L'obiettivo è eliminare Hamas. Ma Hamas rappresenta il legittimo governo palestinese, democraticamente eletto. Voler annientare Hamas significa voler annientare il popolo palestinese. Ma Hamas sarebbe una organizzazione di terroristi. Sono costretto a ricordarLe che durante la nostra Resistenza, anche i partigiani erano considerati "banditi", "terroristi", e con questa etichetta torturati, uccisi, impiccati nelle piazze e nei viali della nostra Italia, deportati nei campi di sterminio. L'accusa di terrorismo dunque non è discriminante; si può facilmente ritorcere contro chi la lancia. La discriminante è fra chi opprime e chi è oppresso, fra chi occupa e chi è invaso nella propria terra e nelle proprie case, nei propri beni, fra chi pone in atto genocidio, apartheid, pulizia etnica e chi li subisce. Nel caso "Palestina" la distinzione è nettissima.

Signor Presidente: Gaza è messa a ferro e fuoco! Siamo di fronte ad un crimine che dovrebbe rivoltare le coscienze del mondo intero. I responsabili dovrebbero essere chiamati a risponderne di fronte ai tribunali penali internazionali. Lei sembra incapace di distinguere le vittime dai carnefici, e si schiera con questi ultimi. Non è la prima volta. Già nel 56, Lei fu con i carri armati sovietici che soffocarono nel sangue la giovane rivolta ungherese (allegato 2). La sua posizione attuale, di appoggio e di giustificazione ai carri armati israeliani è, se possibile, ancora più grave. Nel '56 Lei era solo un esponente per quanto importante della nomenclatura comunista. Oggi Lei è il capo dello Stato che rappresenta tutti gli italiani, il primo custode e garante dei valori supremi della nostra Costituzione che affonda le sue radici nella Resistenza al nazifascismo.

Lei si è recato recentissimamente, in visita di stato, in Israele, mentre i tanks israeliani scaldavano già i motori. E' stato informato, sia pur in via riservata, dell'operazione che stava per essere lanciata contro Gaza? E cosa ha suggerito ai suoi ospiti? E se non ne è stato informato, non le sembra di essere stato ancora una volta (è già avvenuto alla Fiera del Libro di Torino) miseramente strumentalizzato dalla macchina propagandistica dello Stato di Israele e dai suoi massimi rappresentanti, a cominciare dalla Sig.ra Tipzi Livni, candidata presidente alle elezioni politiche del 10 febbraio prossimo?

Signor Presidente non credo di aver scalfito le sue convinzioni, ma nel dissentirne profondamente mi auguro di non dover aspettare altri cinquanta anni per un suo tardivo ripensamento (allegato 3).

Vincenzo Tradardi

ex docente di Fisiologia Umana all'Università di Parma Parma 6 gennaio 2009


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Allegato 1

Il Presidente Napolitano a sostegno della missione europea per una tregua a Gaza: "Mi auguro si riesca a trovare un filo per realizzare una sospensione delle ostilità e riaprire una prospettiva di pace in Medio Oriente"

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha espresso l'auspicio di una tregua immediata a Gaza ed augurato il successo alle missioni di Javier Solana e Nicolas Sarkozy. "La situazione ha detto il Capo dello Stato, interpellato dai giornalisti a margine di una visita al Museo Archeologico di Napoli mi sembra molto dura. Gli appelli vengono da molte parti ma mi pare che la difficoltà sia nel concentrare un'azione efficace sul piano politico e diplomatico. Ci sta provando l'Europa. Mi auguro che, anche con la missione europea coordinata da Solana e con la missione del Presidente Sarkozy, si riesca a trovare un filo per realizzare una tregua, una sospensione delle ostilità per aprire una prospettiva di pace."

"La situazione di Gaza ha rilevato il Presidente Napolitano è caratterizzata da una presenza come quella di Hamas, che ha segnato la spaccatura del mondo palestinese. Io l'ho constatato quando sono andato lì poco più di un mese fa: è un elemento di complicazione di una crisi già pesante che si trascina."

A una specifica domanda sul dibattito in corso tra le forze politiche del paese, Napolitano ha risposto: "Non mi pare che ci siano grandi divergenze tra i partiti italiani sulla crisi di Gaza. Ho visto che c'è una sollecitazione perché il Governo faccia di più, ma il diritto di Israele alla sicurezza e quello dei palestinesi a un loro Stato indipendente mi pare essere un punto sul quale concordano tutte le forze politiche".

Roma, 5 gennaio 2009

Allegato 2
Quando disse: in Ungheria l'Urss porta la pace

Nel 1956, all'indomani dell'invasione dei carri armati sovietici a Budapest, mentre Antonio Giolitti e altri dirigenti di primo piano lasciarono il Pci, Napolitano arrivò a bocciare con durezza questa scelta dell'esponente comunista piemontese, profondendosi in elogi non solo di Togliatti, ma anche dei sovietici. L'Unione sovietica, infatti, secondo lui, sparando con i carri armati sulle folle inermi e facendo fucilare i rivoltosi di Budapest, avrebbe addirittura contribuito a rafforzare la «pace nel mondo»...

"Come si può, ad esempio, non polemizzare aspramente col compagno Giolitti quando egli afferma che oltre che in Polonia anche in Ungheria hanno difeso il partito non quelli che hanno taciuto ma quelli che hanno criticato? È assurdo oggi continuare a negare che all'interno del partito ungherese in contrapposto agli errori gravi del gruppo dirigente, errori che noi abbiamo denunciato come causa prima dei drammatici avvenimenti verificatisi in quel paese non ci si è limitati a sviluppare la critica, ma si è scatenata una lotta disgregatrice, di fazioni, giungendo a fare appello alle masse contro il partito. È assurdo oggi continuare a negare che questa azione disgregatrice sia stata, in uno con gli errori del gruppo dirigente, la causa della tragedia ungherese.

Il compagno Giolitti ha detto di essersi convinto che il processo di distensione non è irreversibile, pur continuando a ritenere, come riteniamo tutti noi, che la distensione e la coesistenza debbano rimanere il nostro obiettivo, l'obiettivo della nostra lotta. Ma poi ci ha detto che l'intervento sovietico poteva giustificarsi solo in funzione della politica dei blocchi contrapposti, quasi lasciandoci intendere e qui sarebbe stato meglio che, senza cadere lui nella doppiezza che ha di continuo rimproverato agli altri, si fosse più chiaramente pronunciato, che l'intervento sovietico si giustifica solo dal punto di vista delle esigenze militari e strategiche dell'Unione Sovietica; senza vedere come nel quadro della aggravata situazione internazionale, del pericolo del ritorno alla guerra fredda non solo ma dello scatenamento di una guerra calda, l'intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore d'Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all'Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare la aggressione imperialista nel Medio Oriente abbia contribuito, oltre che ad impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, abbia contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell'Urss ma a salvare la pace nel mondo."

Giorgio Napolitano, 1956

Allegato 3
Messaggio del presidente alla fondazione intitolata allo storico leader socialista
All'epoca dell'invasione Urss il capo dello Stato attaccò Giolitti e lo stesso Nermi
Napolitano: "Sui fatti d'Ungheria aveva ragione Pietro Nenni"


ROMA Sull'invasione sovietica dell'Ungheria Pietro Nermi aveva visto giusto. A sostenerlo è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in un breve messaggio inviato al presidente della Fondazione Nenni, Giuseppe Tamburrano, e oggi riportato da l'Unità in prima pagina. Un messaggio che verrà pubblicato, insieme al capitolo sul '56 tratto dall' autobiografia di Napolitano "Dal Pci al socialismo europeo", in un libro riflessione che la Fondazione farà uscire a fine ottobre.


Napolitano, che riferisce l'Unità è stato invitato a Budapest in occasione delle celebrazioni per i 50 armi dalla rivolta ungherese, aveva già riconosciuto 20 anni fa che Antonio Giolitti aveva avuto ragione nel criticare l'intervento militare sovietico. Ma nel suo messaggio di ora a Tamburrano, Napolitano sottolinea anche le ragioni di Pietro Nenni. "La mia riflessione autocritica sulle posizioni prese dal Pci e da me condivise nel 1956 scrive il capo dello Stato e il suo pubblico riconoscimento da parte mia ad Antonio Giolitti di 'aver avuto ragione' valgono anche come pieno e dovuto riconoscimento della validità dei giudizi e delle scelte di Pietro Nenni e di gran parte del Psi in quel cruciale momento".


Cinque righe, sottolinea l'Unità che faranno discutere. Non solo perchè nel '56 Napolitano, allora giovane funzionario del Pci, uso' parole dure contro Giolitti e contro il Psi che condannavano l'intervento militare sovietico, sostenendo invece che si trattasse di un elemento di "stabilizzazione internazionale" e addirittura di un "contributo alla pace nel mondo", ma anche perchè, sottolinea il quotidiano, dare ragione a Nenni significa riconoscere "ad un partito della sinistra (i compagni con cui si era costituito il Fronte Popolare) la capacità di aver visto giusto".


Per Giuseppe Tamburrano le parole di Napolitano "hanno un enorme valore". "So bene dichiara il presidente della Fondazione Nenni che il Pci del '56 non avrebbe potuto rompere con Mosca, ma certo, aggiunge, "guardando indietro con gli occhi di oggi mi viene da dire che se allora il Pci avesse assunto una posizione meno netta, se avesse prevalso Di Vittorio, che ha sempre criticato l'intervento sovietico a reprimere la rivolta popolare ungherese, forse avremmo avuto una storia diversa dell'Italia e della sinistra italiana...".


(29 agosto 2006)

Indice.



Appello del mondo intellettuale italiano contro l'aggressione israeliana a Gaza
31 dicembre 2008

È di poche ora fa la notizia che il governo israeliano, capeggiato da un leader sconfitto e corrotto, Ehud Olmert, ha rifiutato la pur tardiva richiesta dell'Unione Europea, di concedere alla popolazione di Gaza stremata, una tregua umanitaria di 48 ore nell'operazione militare che, con proterva arroganza, è stata chiamata Piombo fuso. La notizia ci addolora e ci indigna; ma non ci sorprende. Il governo israeliano sta passando, nei confronti dei palestinesi, dalla politica della persecuzione a quella della eliminazione. Come non vedere negli eventi in corso, non da oggi, una tremenda analogia con quello che il popolo ebraico ha subito? Ma le ingiustizie patite non danno titolo, né morale né politico, a produrre altre ingiustizie ai danni dei più deboli. Come operatori nel mondo della ricerca, dell'università, della scuola, della comunicazione, delle arti, dello spettacolo, intendiamo denunciare l'informazione menzognera dei media; e, d'altro canto, la viltà e talora complicità della classe politica italiana (con impercettibili distinguo nel suo seno).

Non paghi di aver, nel corso dell'anno, tributato grandi onori allo Stato d'Israele, che festeggiava il suo 600, dimentichi che quello stesso anniversario ricordava, agli altri, gli arabi di Palestina, la catastrofe del loro popolo (la Nakba), politici, opinionisti, organizzatori culturali (insomma ,"l'élite italiana"), stanno ora di nuovo dimostrando una stupefacente smemoratezza e una disonestà che lascia allibiti. D'altronde con "l'unica democrazia del Medio Oriente", come si continua a ripetere, l'Italia (e la Comunità Europea) ha accordi pesanti di collaborazione militare, politica e scientifica.

Mentre le bombe continuano a falciare vite, nel pieno delle festività di fine anno, e si minaccia un attacco di terra, da noi, in nome di un conclamato quanto ingannevole spirito di equidistanza si pongono sullo stesso piano i razzi sparati sulle città del Sud di Israele (che, peraltro, costituiscono una forma di resistenza all'invasione), con l'osceno massacro indiscriminato in atto a Gaza, già ridotta allo stremo da un embargo illegittimo e immorale. E, adottando la posizione israeliana e statunitense, si chiede ad Hamas di cessare le azioni militari, come passo indispensabile per ottenere una tregua. Si accusa Hamas, che non si dimentica mai di etichettare come "organizzazione terroristica" (il che non cancella i nostri dissensi politici e per molti aspetti ideali, da Hamas), di aver rotto la tregua in atto da tempo: mentendo, perché durante quella "tregua" fittizia, numerosi palestinesi sono stati uccisi dagli israeliani, i quali hanno anche rapito e sequestrato ministri (in numero di 8) e del legittimo governo di Hamas e deputati del Parlamento (15), nell'indifferenza della "comunità internazionale".

Si insiste sul fatto che Hamas si è "impadronita" di Gaza con le armi, dimenticando che Hamas ha vinto libere elezioni, e un colpo di Stato (con il sostegno israeliano, statunitense e gli applausi europei), gli ha negato il governo del Paese, usando Abu Mazen se non come un Quisling, un vero collaborazionista, certo come una sponda utile. Si accetta la versione dell'attaccante che ci "informa" di colpire solo obiettivi militari, e si finge di non sapere che fra tali obiettivi sono sedi universitarie, ospedali, moschee. Si deplorano i morti civili (secondo stime ufficiali dell'Onu al 25% della popolazione nei primi giorni dell'attacco israeliano, molti dei quali adolescenti e bambini, ai quali è impedita la stessa possibilità di cura, per mancanza di medicinali e di strumentazione, a causa del blocco israeliano), ma si dimentica che da anni Gaza è il più grande campo di concentramento a cielo aperto del mondo. E che ebrei sono questo il terribile paradosso gli aguzzini di quel campo, mentre arabi sono gli internati, ai quali, da anni, vengono negati i più elementari diritti, a cominciare dal diritto stesso alla sopravvivenza.

Il blocco di Gaza è una delle pagine più buie di Israele, a cui noi non chiediamo nulla, convinti che la sua politica sia destinata a produrre effetti contrari a quelli perseguiti e che l'odio che sta seminando non solo nella regione, ma in tutto il mondo, non potrà che accrescersi e produrre conseguenze disastrose per uno Stato che ritiene di poter governare tutto secondo il principio della forza, non solo rispetto ai palestinesi, ma all'intera comunità internazionale, della quale si fa beffe (si pensi al mancato rientro di Israele nei confini pre 1967, malgrado le innumerevoli risoluzioni dell'Onu). E abbiamo pietà degli israeliani che oggi festeggiano i circa 400 palestinesi uccisi nelle prime ore dell'operazione Piombo fuso. La loro danza macabra testimonia come un'intera società possa corrompersi moralmente (compresa la gran parte dei cosiddetti intellettuali israeliani dissidenti), sotto il segno della guerra permanente.

La guerra odierna è tutt'altro che improvvisata: proprio come due anni e mezzo fa, nell'estate 2006, soltanto un vaghissimo pretesto fu trovato nella cattura di un soldato israeliano da parte di Hezbollah, per l'infelice


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attacco al Libano, oggi il pretesto sono i razzi Kassam sparati da Gaza. Questa guerra che gli stolti salutano come benefica, oggi, porterà a loro e purtroppo ad altri nuove morti, nuove distruzioni, nuove sofferenze, allontanando ogni possibile pace.

Chiediamo a quanti operano nei nostri ambienti di adoperarsi, con tutti i mezzi a loro disposizione, per denunciare l'occultamento e il capovolgimento della verità che, assecondando la campagna propagandistica israeliana, che ha accuratamente preparato il terreno per l'attacco, si sta mettendo in campo: oggi, più che mai, la propaganda non è un semplice strumento di guerra: è essa stessa guerra. E nell'asimmetria delle "nuove guerre", questa scatenata da Israele sul finire di un anno terribile, passerà alla storia, forse, come la guerra ai bambini.

A noi rimane lo strumento della denuncia affinché davanti all informazione" manipolata e corriva, abbia libero corso il sapere critico, la riflessione informata, l'educazione delle coscienze. Ora, per avviare la nostra mobilitazione, ribadiamo che all'intellettuale spetta il duro compito, se vuole salvare non la propria "genialità", ma la propria "dignità", di gridare sui tetti la verità. Studieremo, nei prossimi giorni, eventuali iniziative comuni, per portare avanti la nostra azione. Ma fin d'ora, anche se servisse a poco e a pochi, pensiamo di non poter rimanere inerti, complici o succubi, davanti alle immagini che ci giungono da Gaza sotto le bombe, alle carni martoriate di quei bimbi innocenti, alle macerie fumanti di una comunità che non si arrende, e che, perciò, rischia l'annientamento, mentre noi stappiamo le nostre preziose bottiglie di champagne.


Angelo d'Orsi (Storico, Università di Torino)


Post scriptum (5 gennaio 2009)

Da circa 48 ore Israele, nell'impotenza colpevole della "comunità internazionale", ha dato avvio all'attacco di terra. Le bombe non bastavano. Il massacro va intensificato, e l'operazione Piombo fuso va portata alle estreme conseguenze: non "distruggere Hamas", ma rendere impossibile una resistenza palestinese agli occupanti: come può l'Italia, che la resistenza in armi l'ha fatta, negare analogo diritto ai Palestinesi? L'attacco di terra, in una delle zone a più alta densità demografica del mondo, significa deliberatamente, scientemente, produrre morti tra i civili: d'altronde, è vero o non è vero che gli israeliani temono da parte araba soprattutto "la bomba demografica"? E, allora, avanti con il fuoco, passando dall"operazione militare" a una guerra vera e propria. A chi chiedeva una tregua umanitaria, o l'apertura di "corridoi" per lasciar entrare a Gaza medici e medicine, il governo di Tel Aviv ha risposto con un cinico "no": non è utile, si è precisato con arroganza spaventosa, ora una "tregua umanitaria". A quanti parlano di un "reciproco" cessate il fuoco occorre rispondere che è inaccettabile porre sullo stesso piano aggrediti e aggressori, chi esercita il legittimo diritto di resistenza e chi, dopo aver ridotto alla fame 1.800.000 persone, le sta massacrando. I morti accertati sono già oltre 500, tra i Palestinesi, di cui più di un quarto civili; tra gli israeliani sono 4. Siamo a una sproporzione di forze e di mezzi mostruosa, che produce, come stiamo constatando, una sperequazione oscena di vittime; ma si tratta anche di una sproporzione di idealità: gli uni lottano per imporre le loro condizioni capestro, tipiche di una potenza (sub)imperiale, gli altri per liberarsi e avere uno Stato. Alla guerra di aggressione, si contrappone la guerra di sopravvivenza. Si possono avere dubbi? Si può essere "equidistanti"? E, soprattutto, si può tacere?

Nota Questo post scriptum impegna unicamente l'estensore dell'Appello. Gli aderenti hanno sottoscritto il testo del 31 dicembre 2008.


Per aderire: info@historiamagistra.it

Chi aderisce è pregato di precisare la sua collocazione professionale e la sede.

Indice.




Appello per deferire governanti e alti comandi militari di Israele alla Corte Penale Internazionale dell'Aj a


I sottoscrittori del presente appello chiedono che i membri del Governo e gli alti comandi militari dello Stato di Israele vengano deferiti alla Corte Penale Internazionale dell'Aja per crimini contro l'umanità. I gruppi dirigenti di quel Paese si sono resi responsabili dell'imprigionamento per 18 mesi di un intero popolo,


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privato di cibo, acqua potabile, energia elettrica, medicinali, assistenza medica, possibilità di lavoro. I governanti israeliani, e i loro generali hanno poi scatenato una guerra area, navale e terrestre contro uno tra i territori a più alta densità demografica: un'aggressione, che per le sue modalità e motivazioni, non ha precedenti almeno negli ultimi decenni. A oggi siamo a un migliaio di morti, di cui buona parte civili, donne, e soprattutto bambini (oltre 300, finora)... È un genocidio a cui gran parte del mondo assiste con una indifferenza che getta un'ombra di barbarie sul nostro avvenire. La critica legittima o l'ostilità nei confronti di Hamas viene utilizzata da governi e dirigenti come una cinica giustificazione degli assassinii di massa posti in essere da Israele, come un alibi per non intervenire, o per esprimere posizioni di falsa equidistanza. La comunità internazionale può intervenire in Jugoslavia, in Kossovo, in Afganistan, in Iraq, dovunque non si contrastino gli interessi degli USA. A Gaza no. Davanti all'azione di Israele, l'Occidente tace. Oggi, come ha taciuto in passato.

Ma la politica discutibile o francamente sbagliata di Hamas (che tuttavia è legittimato a esercitare un potere in Palestina sulla base di libere elezioni certificate da osservatori indipendenti internazionali, e che dunque rimane un interlocutore ineludibile per affrontare la crisi in corso) non può giustificare in alcun modo i massacri. Israele da decenni si comporta come una potenza eslege, che viola le risoluzioni dell'ONU, che agisce in sprezzo della diplomazia internazionale, con l'appoggio sempre più incondizionato degli USA, e, sovente, il silenzio assenso dell'Europa.

Noi sappiamo di non avere il potere politico né giuridico di trascinare i capi politici e militari israeliani davanti al Tribunale Penale. In questi giorni abbiamo sperimentato sino all'angoscia l'inettitudine, l'indifferenza, la miseria morale del ceto politico europeo e mondiale; e la complicità attiva o passiva di troppi intellettuali. Ma noi vogliamo parlare agli spiriti liberi, all'intelligenza, all'umanità di milioni di persone che non trovano né udienza né rappresentanza nei partiti e nei Parlamenti. Attorno al nostro Appello intendiamo dar vita a una rete di voci che mostri l'opinione dei popoli del mondo tenuta nascosta da media asserviti e senza onore. Noi vogliamo tenere accesa una fiaccola di verità, che oggi isoli l'azione criminale di Israele, e domani possa portare la classe dirigente di quel Paese a rendere conto dei propri delitti.

Raccogliamo migliaia e migliaia di firme! Traduciamo l'appello in tutte le lingue e facciamolo girare per il mondo!


12 gennaio 2009


Piero Bevilacqua (Ordin. di Storia contemporanea, Università di Roma, Sapienza)
Angelo d'Orsi (Ord. di Storia del pensiero politico, Università di Torino)


ADERISCONO


Franca Balsamo (prof. di Sociologia Relazioni interetniche, Univ. di Torino, già Direttrice del Centro Interdisciplinare Ricerche e Studi delle Donne), Umberto Carpi (già ord. di Letteratura italiana, Univ. di Pisa), Luciano Gallino (già ord. di Sociologia, Univ. di Torino), Domenico Losurdo (ord. di Storia della filosofia, Univ. di Urbino), Pierre Laroche (Maître de conferences, Italianistica, Paris III), Romano Luperini (Ord. di Letteratura italiana, Univ. di Siena), Ugo Mattei (Ord. Diritto privato, Univ. di Torino), Fabio Minazzi (ord. di Filosofia teoretica, Univ. dell'Insubria, Varese), Giangiorgio Pasqualotto (ord. di Estetica, Univ. di Padova, Direttore Scuola Superiore di Filosofia orientale e comparativa, Rimini Urbino), Antonio Prete (Ord. di Letterature comparate, Univ. di Siena), Edoardo Salzano (Urbanista, Venezia), Simonetta Soldani (Ord. di Storia contemporanea, Università di Firenze), Natascia Tonelli (prof. Letteratura italiana, Univ. di Siena), Gianni Vattimo (già ord. di Filosofia teoretica, Univ. di Torino)


Per adesione: appelli@historiamagistra.it


Indice.



Schede
Che cosa è 1'ISM Italia

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Chi siamo
ISM Italia è il gruppo di supporto italiano dell'International Solidarity Movement
Palestinese.

L'International Solidarity Movement (ISM www.palsolidarity.org) è un movimento palestinese impegnato a resistere all'occupazione israeliana usando i metodi e i principi dell'azione diretta non violenta. Fondato da un piccolo gruppo di attivisti nel 2001, ISM ha l'obiettivo di sostenere e rafforzare la resistenza popolare assicurando al popolo palestinese la protezione internazionale e una voce con la quale resistere in modo nonviolento alla schiacciante forza militare israeliana di occupazione.

Perchè 1'ISM?

L'occupazione non può essere sconfitta solo con le parole; l'occupazione, l'oppressione e la dominazione possono essere sconfitte solo nello stesso modo in cui sono state costruite attraverso l'azione delle persone. L'esercito israeliano e l'occupazione israeliana possono essere sconfitte da una resistenza strategica, disciplinata e disarmata, utilizzando le effettive risorse che i palestinesi possono mobilitare compresa la partecipazione internazionale.

Nell'aprile 2002, con l'aiuto di palestinesi e di attivisti internazionali fummo capaci di contrastare l'esercito israeliano durante due delle sue maggiori operazioni militari, entrando e sostenendo quelli che erano intrappolati nel compound presidenziale a Ramallah e nella Chiesa della Natività a Betlemme.

La partecipazione internazionale è importante per le seguenti ragioni:

1. Protezione: Una presenza internazionale può assicurare un certo grado di protezione per i palestinesi coinvolti nella resistenza nonviolenta.

2. Messaggi ai media

3. Testimonianza personale e trasmissione di informazioni 4. Rompere l'isolamento e dare speranza

Gli internazionali dell'ISM non sono in Palestina per insegnare la resistenza non violenta. I palestinesi resistono in modo non violento ogni giorno. L'ISM fornisce sostegno alla resistenza palestinese contro l'occupazione e alla loro richiesta di libertà attraverso le seguenti attività:

* Azione diretta

* Mobilitazione di emergenza

* Documentazione

L'ISM Italia è in particolare impegnata: nel sostegno alle campagne dell'ISM palestinese nella campagna di promozione del boicottaggio, disivestimenti e sanzioni (BD S) lanciata dalla società civile palestinese nel luglio del 2005

nella promozione di strumenti critici che permettano di superare la crisi attuale del movimento di solidarietà con la resistenza palestinese italiano, europeo e mondiale.


Torino, 23 gennaio 2009


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Condivido gli obiettivi e i programmi dell'ISM Italia e chiedo di aderire a questa associazione.


Nome ............................................................




flticm3

Data e luogo di nascita ..................................


Professione ...................................................


Residenza .....................................................


email ............................................................


cellulare .......................................................


Altre indicazioni (associazioni o enti di appartenenza)


Data ............................................................


Firma ............................................................


Spedire il modulo di iscrizione via email a info@ism-italia.it oppure via fax a 1786036242 (senza prefisso)



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Scheda Forumpalestina

Che cosa è il Forumpalestina può essere compreso dalla lettura dell'intervento di Sergio Cararo, "Palestina e Israele. Le impossibili simmetrie" e dalla frequentazione del sito www.forumpalestina.org.

Sul sito di Forumpalestina non appare un esplicito "Chi siamo", ma gli obiettivi politici e le iniziative conseguenti emergono con chiarezza dai comunicati e da quanto il sito pubblica.

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Scheda: SGUARDO SUL MEDIO ORIENTE

Sguardo Sul Medio Oriente è un gruppo nato nella Facoltà di Studi Orientali dell'Università

"La Sapienza" che si occupa di organizzare eventi culturali di approfondimento a livello

sociale, politico, economico, linguistico, religioso e artistico su mondo arabo e Medio Oriente.


Tra gli eventi organizzati presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" e in altre sedi:

il ciclo di tre conferenze, che ha dato il nome al gruppo, "I luoghi della guerra: Iraq, Afghanistan", "Palestina e Israele dopo il Libano" e "Voci dal Libano" in cui sono stati ospiti Gilbert Achcar e Michael Warshawsky;


il ciclo di conferenze, workshop e mostre "Da Alif a Ya: l'arte calligrafica araba" in cui sono stati ospiti Gabriele Mandel Khan, traduttore del Corano in italiano e vicario per l'Italia della Tariqa Sufi Jerrahi Helveti, Hicham Chajai e Fereshteh Rezaeifar;


la conferenza "Corpo femminile, donna, sport e Islam" all'interno del tour di "Sport sotto l'assedio", progetto promosso da Cooperazione Italiana (Ministero degli Affari Esteri e Ministero delle Politiche Giovanili e Attività Sportive);


in collaborazione con l'Ong "Un Ponte per.." sono state organizzate le conferenze "Giornalismo e conflitti: fare informazione oggi in Iraq: il caso Bilal Hussein" e "Diritti umani e Kurdistan: dal parlamento al carcere" con ospite la candidata al Premio Nobel per la Pace Leila Zana.


Tra le molte altre attività sono stati realizzati il cineforum "Al Quds wa ve Jerualaim"; corso di calligrafia araba con la maestra Fereshteh Rezaeifair; lettura di poesie palestinesi di Somayya Al Susy e Muvammad Abu arekh con gli autori nella Giornata Mondiale della Poesia dell'Unesco.


Tutte le attività promosse e organizzate dal gruppo nonché vario materiale di approfondimento sono consultabili sul sito.

Il nostro sito vuole essere un punto di raccolta di tutti gli eventi a Roma riguardanti mondo

arabo e Medio Oriente pertanto vi invitiamo a comunicarci le iniziative che promuovete o di cui siete a conoscenza al fine di creare un reale coordinamento fra gli interessati del settore.

Sguardo Sul Medio Oriente è inoltre aperto a collaborazioni.

www.sguardosulmedioriente.it

info: sguardosulemdioriente@gmail.com
Giulia ***
Annamaria ***


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ISM Italia

Sei libri da regalarsi e/o da regalare


1. "La pulizia etnica della Palestina" di han Pappe, Fazi Editore 2008

2. "Il nuovo filosemitismo europeo e il 'campo della pace' in Israele" di Yitzhak Laor, Le Nuove Muse 2008

3. "Politica (Poesie scelte 1997 2008)" di Aharon Shabtai, Multimedia Edizioni 2008

4. "Politicidio Sharon e i palestinesi" di Baruch Kimmerling, Fazi editore 2003

5. "Palestina quale futuro? La fine della soluzione dei due stati" a cura di Jamil Hilal, Jacabook 2007

6. "La fabbrica del falso Strategie della menzogna nella politica contemporanea", di Vladimiro Giacchè, DeriveApprodi 2008


"La pulizia etnica della Palestina di Ilan Pappe

Ti saggio di Tian Pappe stabilisce un nuovo paradigma di interpretazione dei conflitto israeio palestinese. "Se

questo è stato", le implicazioni di natura morale e politica sono enormi, perché definire pulizia etnica quello che Israele fece nel '48 significa accusare lo Stato d'Israele di un crimine contro l'umanità. Per questo, secondo Pappe, il processo di pace si potrà avviare solo dopo che gli israeliani e l'opinione pubblica mondiale avranno ammesso questo "peccato originale". E la consapevolezza che "questo è stato" implica, secondo Pappe, la rimessa in discussione della stessa risoluzione 181 di partizione del 29 novembre 1947, un passo necessario verso uno stato laico e democratico nella Palestina storica.


"Il nuovo filosemitismo europeo e il 'campo della pace in Israele

Il saggio di Yitzhak Laor esamina le motivazioni del nuovo filosemitismo europeo, in particolare di quello della sinistra europea. Costringe tutti/e a guardarsi in uno specchio. Spiega perché, come è avvenuto, ad esempio, contro la campagna di boicottaggio della Fiera del Libro di Torino, dal presidente della repubblica all'allora presidente della camera, passando per gli Allam (il Magdi e il Khaled Fouad) tutti si sono uniti al coro filoisraeliano. E' una prima risposta alla domanda di Ilan Pappe: "perché l'Europa e il mondo occidentale permettono a Israele di fare quello che fa?"


"Politica (Poesie scelte 19972008)

Le poesie di Aharon Shabtai confermano come il linguaggio dell'arte riesca meglio di ogni altro a raggiungere la dimensione della verità e a induite la condivisione. Sono un contributo assai significativo al disvelamento della fabbrica del falso israeliana.


"PoliticidioSharon e ipalestinesi"

"Sotto la guida di Ariel Sharon, Israele si è trasformato in un agente di distruzione non solo dell'ambiente circostante, ma anche di se stesso, avendo adottato come unico obiettivo della propria politica interna ed estera il politicidio del popolo palestinese. Con il termine "politicidio" intendo un processo che abbia come fine ultimo, la dissoluzione del popolo palestinese in quanto legittima entità sul piano sociale, politico ed economico."


"Palestina quale futuro La fine della soluzione dei due stati

Il libro contiene 11 saggi di autori diversi che dimostrano come la soluzione "due popoli due stati" sia una soluzione morta malgrado venga quotidianamente riproposta ad ogni livello.

Alla luce dell'attuale estrema frammentazione della Cisgiordania, aggravata dalla progressiva costruzione del Muro di separazione, tale soluzione si rivela semplicemente impraticabile di fronte ad una élite politico¬militare israeliana che prosegue implacabilmente nella trasformazione dei territori palestinesi in entità territoriali satellite, circondate dallo Stato di Israele e da esso completamente dipendenti sotto ogni profilo.


"La fabbrica del falso Strategie della menzogna nella politica contemporanea"

Come può un muro di cemento alto otto metri e lungo centinaia di chilometri diventare un «recinto difensivo»? Le torture di Abu Ghraib e Guantanamo sono «abusi», «pressioni fisiche moderate» o «tecniche di interrogatorio rafforzate»? Cosa trasforma un mercenario in «manager della sicurezza»? Perché nei telegiornali i Territori occupati diventano «Territori»?

Rispondere a queste domande significa occuparsi del grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo: la menzogna.


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