lunedì 23 gennaio 2017

Teodoro Klitsche de la Grange: Regolarità e varianti nel diritto pubblico. In margine ad un saggio di V.E. Orlando

V. E. Orlando (1860-1952)
REGOLARITÁ E VARIANTI DEL DIRITTO PUBBLICO
(in margine ad un saggio di V.E. Orlando)

1. Il giovane Vittorio Emanuele Orlando sosteneva una concezione che, del tutto conforme a quanto ritenuto dalla melior pars nella storia del pensiero filosofico-politico e giuspubblicistico, era (ed è) contestata, implicitamente per lo più ed esplicitamente talvolta, da tanti. Sono evidenti in quell’articolo di Orlando due motivi ispiratori fondamentali: l’uno, metodologico, di attenersi al dato reale, al sein prima che al sollen, come conferma la polemica anti-metafisica e i continui richiami storici e sociologici; l’altro che scelte considerate apparentemente libere sono dal giurista siciliano indicate come condizionate in tutto o in parte (e quindi, devono, in misura prevalente, essere necessitate) da leggi sociologiche (costanti dell’agire umano).

Orlando parte dal principio, affermato da Herbert Spencer, che tutte le “associazioni” umane “si differenziano in tre parti tutte le volte che si tratti di prendere una determinazione comune: la moltitudine tumultuariamente composta da tutta l’orda, un consiglio dei migliori e più forti uomini della tribù, un capo che fra gli altri si eleva”. E dato che lo schema suddetto si ripete in comunità che spesso non hanno avuto tra loro nella storia alcun rapporto (e neppure conoscenza) “dunque tale struttura primitiva è la forma più elementare di governo, che persiste sotto le condizioni più diverse”. Tra le società primitive e quelle moderne la differenza è data sostanzialmente dalla (enormemente) maggiore complessità . La distinzione classica delle (tre) forme di governo e la loro (necessaria) commistione nello  status mixtus ne consegue, scrive Orlando desumendolo da quanto sostiene Spencer, più che dalle “«forme» esteriori di governo che un popolo può darsi,…alla loro essenza, alle «forze» che le costituiscono e che le mantengano in vita” .

Secondo Orlando ciò costituisce una necessità (una regolarità della politica, scriverebbe Miglio) ed è di “infinita importanza e tale da cambiare radicalmente taluni criteri fondamentali del diritto pubblico moderno”. I tre elementi sono “per così dire inerenti alla struttura intima di uno Stato – come di sopra si è visto – essi non potranno mai soverchiarsi a vicenda fino alla eliminazione di alcuno di essi”; per cui “dovranno sempre rinvenirsi in qualsiasi forma di governo”.

I principi del filosofo inglese, scrive Orlando, raddrizzano una “quantità di idee storte” “Se è vero che le cose fuori del loro stato naturale non si adagiano, né vi durano, come mai si poté tanto tempo presumere che lo stato di quei popoli in cui il dispotismo è stato, od è, forma normale di governo sia potuto essere naturale?”. Il che significa, in primo luogo che, anche ordinamenti non conformi a idee generalmente (e attualmente) condivise, trovano comunque consenso (e sono legittimi) a dispetto di certi giuristi (e non solo) . Per cui la costituzione più adatta è quella che consente la compresenza necessaria dei tre “principi”: “in uno Stato quando in esso questi tre elementi si contemperano armonicamente e concorrono ognuno nei limiti loro naturali al miglioramento dello Stato»”. Il che spiega, sulla scorta di Polibio, la grandezza della Costituzione di Roma . Per cui, scrive il giurista siciliano “E per una via diversa assai da quella tenuta da J. Stuart Mill arriviamo alla stessa conclusione che «l’ideale di un governo è quello rappresentativo». Difatti è in questa forma che le tre forze principali politiche spiegano normalmente e legittimamente la loro influenza solo in quanto essa è buona e salutare”: non è cioè per motivi (e valori) ideali, ma per l’equilibrio che realizza tra le forze che necessariamente concorrono in ogni sintesi politica. Quando quell’equilibrio non c’è, la conseguenza è la crisi o la caduta del regime politico .

2. Prosegue Orlando specificando che occorre chiarire un “principio d’importanza decisiva” relativo al “fondamento, l’origine, la ragion d’essere primitiva dei poteri pubblici di uno Stato”: per far ciò “bisogna essere liberi da ogni preoccupazione nascente dal presupposto di una speciale forma” . È la ragione del (dominio) politico ed i suoi presupposti che bisogna ricercare, si può dire, attualizzando ciò che scrive il giurista siciliano.

In ogni forma di governo – continua Orlando -  vi sarà sempre opposizione tra autorità e sudditi “chiunque eserciti la prima, quali che siano i diritti del secondo, questa opposizione che importa la necessità da una comune obbedienza deve necessariamente esistere in uno Stato” .

Le forme di governo non modificano neanche nel tempo il presupposto fondamentale del comando-obbedienza. A proposito del comando – non a caso denominato imperium dai romani – Orlando scrive “E in queste idee – che a taluno sembreranno forse audaci – mi conforta lo studio del diritto pubblico del popolo più rigorosamente giuridico, più inesorabilmente logico che sia mai esistito: il popolo romano”. Nella storia Roma ebbe quattro costituzioni (“reggimenti politici”): “Eppure se le forme governative maturano, se i modi con cui la potestas fu esercitata mutarono anch’essi, l’imperium popoli romani, come fondamento e legittimazione di quella potestas, non mutò. Quella medesima lex de imperio necessaria per i re, lo fu pei consoli come per gli imperatori”. La forza storica che induce i popoli ad aggregarsi è il “sentimento generale della comunità” per cui “può veramente dirsi che la base di ogni governo non può essere altra che la volontà nazionale o popolare” .

Il carattere decisivo delle “determinanti” meta o extra-giuridiche è ripetutamente affermato dal giurista siciliano “Per via diversa noi torniamo al grande postulato di G.B. Vico: le cose fuori del loro stato naturale non si adagiano né vi durano”. Lo stesso realismo lo induce a ricordare (Orlando aveva ed ha sempre sostenuto che la sovranità limitata – s’intende giuridicamente – è una contraddizione in termini) che questa è, in fatto, contenuta. E non solo dai limiti ontologici – come già affermato da Spinoza (e poi da Kant) – ma anche da quelli storico-sociali, mentre sono da rifiutare quelli a carattere ideale che ritengono il “moderatore supremo della sovranità nella Morale, nel Diritto assoluto, nell’ordine eterno delle cose” .

Quanto invece alle leggi sociali, il giurista scrive “Bisogna che l’uomo rinunzi una buona volta a certe illusioni sulla onnipotenza della sua volontà. Le leggi sociali come le leggi fisiche, hanno una forza tutta propria, sono un portato affatto naturale cui la volontà umana non può che conformarsi. Elles ne se font pas, elles poussent. Egli è perciò che tante costituzioni con grande sforzo d’intelletto e di ragionamenti messi insieme non hanno avuto che la vita di un giorno…ed al contrario altre costituzioni che alla più elementare critica non reggono, hanno potuto far grande un popolo” . Per cui “Tutta la sapienza politica dei governi e dei legislatori può riassumersi così: uniformarsi a questa forza storica onnipossente, non confondere ciò che è rispetto delle tradizioni con ciò che è stolta idolatria di viete usanze, ciò che è naturale sviluppo, con ciò che è eccesso licenzioso”.

E Orlando si preoccupa di una prevedibile critica. “La grande accusa, l’unica di qualche serietà, che si faccia al nostro sistema è che esso riesce alla negazione del libero arbitrio dell’uomo, considerato sia isolatamente, sia in comunione sociale”. E analizzando quanto scrive Stuart Mill ribadisce “secondo i nostri principii, che son poi anche quelli dello Stuart Mill, di queste forme praticabili per un popolo, non ce ne può essere che una sola, la quale generalmente è quella che esso popolo ha”.

E’ noto come quella  critica (della negazione del libero arbitrio)  non   si muove lungo la scriminante vero/falso – cioè sull’analisi dei fatti e (quindi) sulle regolarità che se ne possano ricavare. Tutt’altro: si sarebbe detto nel XX secolo, su valori. “Il modo col quale i metafisici combattono le teorie positiviste è strano assai…Al nostro sistema delle forze politiche non si oppone già che sia falso, che sia contraddetto dalla storia, si dice che esso viola il solito «libero arbitrio»: come se fosse un dogma o un assioma irrecusabile, nel senso che gli scolastici vollero dargli…dire che il nostro sistema non è compatibile col libero arbitrio non prova nulla contro di esso. Il principio della libertà morale non può costringere lo storico o il pubblicista a credere ad una storia che non è mai esistita. Le ipotesi astratte sono estranee al severo ufficio dello storico che ha per obietto non il possibile ma il reale. Ad esso non compete di risolvere le difficoltà metafisiche e tecnologiche del libero arbitrio; ma avendo solo riguardo alla verità effettuale delle cose, egli ha il diritto di esporre i fatti ed il dovere di giudicarli…” (il corsivo è mio) . Ed aleggia, prima di Weber e della distinzione tra etica delle intenzioni ed etica delle responsabilità, che questa sia l’unica base salda che si possa dare alla responsabilità degli uomini  e delle nazioni.

In un saggio posteriore (1910) “Sul concetto di Stato” (ora in op.cit. p. 197 ss.) avrebbe scritto “L’idea di Stato con tutte le sue conseguenze e le sue applicazioni si connette alle varie fasi della civiltà; egli è che non soltanto quella idea è dominata dalla concezione dell’universo, ma che col mutare di essa è soggetta a mutare lo Stato”: con ciò, riconosce che la differenza di rappresentazione del mondo si riflette sulla realtà . Per cui è carattere dell’età e della scienza giuridica a lui contemporanea lo “sforzo sincero di muovere dalla considerazione spregiudicata del fatto, di appellarsi alla realtà, di stabilire innanzi tutto, quel che lo Stato è, prima di procedere all’indagine del perché è, del come è, e del come dovrebbe essere”.

Per cui compete a questa “tendenza metodica” la denominazione di “realismo nel diritto pubblico”; e ricorda come rappresentanti di questa von Seydel, Schmidt e Duguit. E, dopo aver polemizzato sia con le opinioni riduzioniste dei tre giuristi citati che spiegano lo Stato o in base alla “forza materiale e meccanica”; o alla “necessità naturale” ovvero ad un “atto volontario e cosciente”, sostiene che ognuna di queste “ha una parte di vero” (l’errore è considerarle esclusive) e ritiene preferibile un approccio eclettico, riconoscendole concorrenti. La ragione principale poi della debolezza dello Stato , è dal giurista siciliano individuata “nel parlare di Stato fondato sulla discussione o sulla volontà consapevole e libera dei consociati, una cosa desiderabile, utile, opportuna, in quanto che si ammette un fattore della coesione politica, che è indubbiamente un prodotto della civiltà e che vogliamo estendere ed ingagliardire; ma qualora si intenda affermare che lo Stato fondi il suo diritto all’obbedienza soltanto sulla sottomissione volontaria, illuminata dalla ragione, commettiamo un atto di folle orgoglio, che ha per contenuto un errore grossolano”  e questo perché “Il cartesiano cogito ergo sum, applicato allo Stato, si trasforma in un iubeo ergo sum. Lo Stato esiste in quanto comanda e vale in quanto ha la forza di far rispettare il suo comando”; e la “forza dello Stato è, dunque, il primo e principale presidio di quella libertà politica, che vogliamo e dobbiamo ad ogni costo difendere”.

E tanto meno “la virtù coesiva della ragione può eliminare quell’altro fattore di obbedienza”, determinato dal “sentimento patriottico”, che appare indispensabile al consenso e (quindi) alla coesione sociale. Perché “come il regno della pace non è venuto, quantunque il Cristo lo bandisse, così il regno della ragione e della volontà cosciente e libera è ancora ben lungi dall’avverarsi” .

Quindi, conclude Orlando, affinché il “principio di ragione” diventi realtà è “necessario ch’essa si trasformi in fede, in consuetudine per dominarli, in entusiasmo per sospingerli (gli spiriti); è necessario che dalle ardue vette dell’intelligenza, accessibili solo a pochi privilegiati, discenda nel cuore delle moltitudini e le conquisti col sentimento. Lo Stato nostro, lo Stato d’Italia sorse così: fu luce d’ideale, fu fiamma di fede”.

3. Mentre nessuno, che si sappia, ha ritenuto di contestare i limiti ontologici della sovranità e quindi del comando/obbedienza come evidenziato da Spinoza  lo stesso non è successo per le leggi sociali, le regolarità dell’agire politico, per cui tendenze politiche e giuridiche della modernità hanno manifestato un’indifferenza (o una esplicita negazione della impossibilità a violarle).

Orlando ne individua due specificamente: la regolarità dello status mixtus che è conseguenza di quella delle forze necessaria all’esistenza ed all’azione della sintesi politica: governati/governanti/seguito (aiutantato scrive Miglio). Anche se l’esposizione del giurista siciliano non coincide compiutamente con la tripartizione suddetta, potendosi ricondurre l’aristocrazia (il “consiglio dei migliori”) ai governanti (in una con l’organo apicale), e l’aiutantato costituire (quasi) un elemento aggiuntivo. Comunque all’ “aiutantato”, ossia (soprattutto) alla burocrazia moderna, sono connaturali caratteri propri dell’oligarchia. In particolare la selezione che è per cooptazione quindi, e non per elezione, nonché la stabilità nella posizione, non soggetta alle periodiche conferme elettorali.

La seconda è quella di comando/obbedienza, parimenti insopprimibile: in tanti hanno provato a delineare sintesi politiche senza comando. Lo stesso Rousseau, la cui formula è volta a provare che quando ci si sottomette alla volontà generale, in effetti ci si sottomette alla propria non v’è riuscito: è infatti impossibile dimostrare tale asserzione, ove si pensi sia a chi non partecipa alla deliberazione sia a chi ne dissente. Anche se è vero che le procedure democratiche di decisione possono aumentare il consenso all’autorità, resta preferibile quanto scriveva De Maistre: che carattere essenziale della legge è “di non essere la volontà di tutti” .

Anche credere che la Costituzione possa essere frutto di una deliberazione e quindi del “libero arbitrio” è uno degli idola della modernità  già contestato da de Maistre (in poi). Il controrivoluzionario francese scriveva che si tratta di un sofisma così naturale che sfugge alla nostra attenzione: “perché  l’uomo che agisce crede di agire da solo: e dato che ha coscienza della propria libertà, dimentica la propria dipendenza” . E de Maistre aggiungeva anche: “ciò che è di più essenziale, intrinsecamente costituzionale e veramente fondamentale non è mai scritto, e neppure potrebbe (ne saurait) esserlo, senza mettere in pericolo (exposer) lo Stato . Quindi non solo non lo è, ma neppure può essere deliberato, ne è opportuno che lo sia.

Quanto alla costituzione (e a come si giudica la “bontà” delle costituzioni), Orlando si muove nel solco della “costituzione naturale” nel quale si trovano, tra gli altri, Cicerone, Montesquieu, de Maistre, de Bonald. E i cui capisaldi sono che una costituzione è (largamente anche se non totalmente) determinata da fattori esterni e spesso materiali (clima, territorio, densità della popolazione) e la sua “idoneità” è data dal fatto di assicurare l’esistenza della comunità .

Così una costituzione non si valuta tanto in rapporto a dei valori o a delle idee e ancor meno all’autorità dottrinale di chi l’ha  concepita e redatta (come Sieyès per quella francese dell’anno VIII, scrive Orlando), quanto alla durata e all’idoneità a governare (cioè ad agire e far agire) la comunità.

4. Né tantomeno in base ai “principi costituzionali” e “anche di valori” con cui si è aggiornato il normativismo post-kelseniano nel “neo-costituzionalismo”, che come scrive Luis Bandieri è un normativismo di valori e non di norme:

Questo prosegue ed attualizza  due tesi  che Orlando nel saggio giovanile riteneva improponibili: che si possa surrogare (almeno) la politica con il diritto: prospettiva non realistica che il giurista siciliano nel saggio (anche se – lì -implicitamente) rifiutava. Il cui   corollario   è la giudiziarizzazione dei conflitti. Pretendere che procedure, contraddittorio, mediazione, “bilanciamento” possano surrogare legittimità, autorità, consenso è un’illusione, declinata con modalità, concetti ed espressioni diverse, ma  ricorrente nella modernità.

D’altra parte il neo-costituzionalismo identifica la Costituzione – o meglio i suoi principi - con la “tavola dei valori” espressa nelle norme della costituzione formale; per cui è costituzionale la norma a quella conforme. Se tuttavia per costituzione s’intende l’ordinamento dell’unità politica, costituzionale (o meno) non è tanto l’essere conforme a principi o valori superiori ma a ciò che è necessario ed opportuno all’esistenza (in suo esse perseverari) della sintesi politica. In ciò consiste l’essenza della Costituzione.

Non sorprende poi il fatto che Orlando chiamasse metafisiche le tesi di chi voleva spiegare la “bontà” degli ordinamenti con la conformità a idee morali, giuridiche, frutto di scelte ideali (di valori). Ciò che sostiene ricorda quello che scriveva Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, sull’astrazione priva di essenza “è invece una gonfiatura che fa grossa la testa propria e quella degli altri, la fa grossa di vento. La virtù antica aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva una suo fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente; e perciò non era rivolta contro l’effettualità [intesa] come una universale inversione, né contro un corso del mondo. Ma la virtù da noi considerata è fuori della sostanza, è priva di essenza, è una virtù soltanto della rappresentazione, virtù di parole prive di qualunque contenuto” .

Mentre il giurista siciliano rivendicava come frutto di osservazione ed elaborazione dei fatti, della “verità effettuale delle cose” il metodo da lui seguito (le “teorie positiviste”), s’intende non limitate al sollen dei neopositivisti e ad un’applicazione inesatta della legge di Hume . È curioso poi che si faccia spesso carico di fare della metafisica (e non del diritto positivo) a coloro che hanno avuto nel pensiero politico e nel diritto pubblico, come e prima del giurista siciliano, maggior rispetto per il dato storico (e sociologico), ossia per la “verità effettuale”: da Bodin che sosteneva come la prima utilità della storia è di servire alla politica, a Machiavelli che dalle vicende storiche coglieva la razionalità (o meno) degli ordinamenti, da Vico il quale riteneva il dato reale condizionante durata e solidità degli ordini, a de Maistre che riteneva la storia essere la politica sperimentale.

Come scrive Schmitt “nell’epoca positivistica si rivolge volentieri al proprio avversario scientifico l’idea di fare della teologia o della metafisica” ; per cui è divenuta un’argomentazione usuale. Ma tra tante discussioni sul punto, l’impostazione data da Orlando – che è poi quella classica – tra chi si attiene principalmente alla verità effettuale, storicamente accertabile, di giudicare le istituzioni in base ai risultati e, di converso, chi preferisce l’aspirazione ideale ad un ordine (diritto, morale) vagheggiato, appare quella che meglio permette di comprendere istituzioni e ordinamenti e la loro idea direttiva (Hauriou).

Teodoro Klitsche de la Grange

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