martedì 3 novembre 2015

Teodoro Klitsche de la Grange su Filippo ANDREATTA, Potere militare e arte della guerra.

Filippo ANDREATTA, Potere militare e arte della guerra vol. I, Ed. Fondazione Bruno Kessler, Trento 2015 pp. 264, € 32,00

Scrive Andreatta nella presentazione del volume che l’opera ha avuto origine dalla “determinazione a confrontarsi, da scienziato politico, con l’evoluzione storica di un fenomeno che ha contribuito a plasmare l’Europa e il mondo come sono oggi”. La tesi fondamentale del libro è che “il potere militare non possa essere compreso senza guardare alla società nel suo complesso. Questa idea, in linea con la tradizione clausewitziana , affonda le sue radici nel pensiero illuminista … E’ dalle spalle di questi giganti che la ricerca in questo lavoro è partita, facilitando enormemente il compito di chi scrive. La motivazione per riconfermare questa tradizione di pensiero è duplice. Da un lato, se il potere militare dipende dalle caratteristiche sociali in cui ha origine, non può esserci un unico tipo di potere militare, poiché molteplici sono i tipi di società … Dall’altro lato, nella letteratura e nelle opinioni che popolano i mass media vi è una certa tendenza a «ridurre» il potere militare ad un unico elemento: uno stratagemma di un comandante, un espediente tattico o un particolare sistema d’arma. Ultimamente, sempre più spesso, è una particolare tecnologia ad essere identificata come un elemento determinante degli esiti bellici. In questo libro si ricorda invece come fenomeni complessi richiedano spiegazioni multicausali”.

Ed a quello che scrive l’autore si potrebbe aggiungere che essendo il pacifismo contemporaneo espressione continua di pensieri pii e buone intenzioni gradite all’uditorio, ma, subito, spesso, convertite in esorcismi omicidi verso chi è ritenuto guerrafondaio, il richiamo realista alla relazione – costante – tra società umane e guerra è salutare ed opportuno. Consiste, ancor più specificamente, nel rapporto tra modo di governare e modo di combattere, ossia tra i presupposti del politico (Freund) del comando-obbedienza e dell’amico-nemico. Come pensava Proudhon “…l’idea di guerra involge, domina, regge, con la religione, l’universalità dei rapporti sociali. Tutto nella storia dell’umanità, la suppone. Nulla si spiega senza di lei; nulla esiste senza di lei: chi sa la guerra, sa il tutto del genere umano”. Invece oggigiorno si pensa il contrario: che la guerra sia sempre da condannare (e spesso si può essere d’accordo) che basti condannarla per evitarla (e questa è una palese – e quotidianamente smentita - sciocchezza); e che non “conti” nella conformazione delle unità politiche.

Non solo invece il diritto è originato dal conflitto tra opposte pretese (Carnelutti), ma, altrettanto, la guerra nasce dal diritto. A una polemogenesi del diritto, inteso come istituzione, corrisponde una nomogenesi della guerra. L’osservazione della storia – scrive Andreatta – conforta che tra ordine socio-politico e potere (ed istituzioni) militari v’è complementarietà e reciproci condizionamenti. 

In questo quadro – che è poi quello della teoria politica “classica” – la possibilità della guerra, quale momento “naturale” dell’esistenza di un popolo, condiziona in modo determinante il pensiero filosofico, politico, giuridico e più specificamente la dottrina dello Stato e conforma questo. A considerare i nessi tra situazione storico-politica ed istituzioni, il problema della guerra rimane centrale, e del pari il condizionamento che opera sulle istituzioni. Così il carattere liberale della costituzione inglese era attribuito da De Maistre al fatto che l’Inghilterra è un’isola e gode quindi della protezione naturale offertale dall’Oceano. Tra le cause “naturali ed accidentali” della democrazia americana Tocqueville ricordava (significativamente al primo posto) che gli Stati Uniti non hanno “vicini” e quindi la necessità di un forte esercito, di un consistente prelievo fiscale, di una vera classe “militare” e quindi neppure hanno da temere del cesarismo che, talvolta, le si accompagna.

La diversa evoluzione del diritto pubblico, - amministrativo in particolare -, continentale rispetto a quello anglosassone è stata, spesso, attribuita alla necessità degli Stati europei di dotarsi di forti eserciti, in vista delle guerre terrestri che dovevano combattere. Di converso, furono questi eserciti e quest’amministrazione a dare al monarca la carta decisiva per la de-feudalizzazione dello Stato e l’affermazione incontrastata del potere monarchico e della burocrazia che lo attorniava e sorreggeva. L’imperativo di un’esistenza politica libera ed il tipo di relazioni internazionali e di guerra che comportava, condizionavano così, in misura determinante, le istituzioni ed il diritto “interno”. 

L’influenza delle possibilità di guerra (e del modo di queste) sulle istituzioni non era trascurata neanche dai teorici costituzionali e dai “progettisti” di costituzioni. La nazione in armi non era che la logica conseguenza della Repubblica democratica. Acquisito il diritto di voto il citoyen si caricava, nel contempo, del dovere di difendere la patria. Quindi l’ordine sociale condiziona la guerra e viceversa questa l’ordine sociale.

Oggigiorno – scrive l’autore – “la guerra viene percepita in molte parti del mondo come un fenomeno estraneo, legato al passato più o meno remoto o a ragioni lontane, tanto da indurre alcuni a ipotizzare che l’uso della forza militare su larga scala sia ormai divenuto obsoleto”. Tuttavia ci sono “almeno due buone ragioni per continuare a studiare oggi il fenomeno della guerra. Da un lato, è possibile che la diminuzione nell’uso della forza militare sia dovuta non al fatto che il pacifismo ha trionfato, ma alla presenza di armi nucleari che hanno reso un conflitto etsremamente pericoloso, anche per gli eventuali vincitori… D’altro lato, anche se gli ottimisti avessero ragione e i cambiamenti profondi nella mentalità degli individui e nelle istituzioni dei gruppi avessero davvero allontanato quello che in passato era un fenomeno all’ordine del giorno, allora varrebbe la pena di studiare la guerra per capire esattamente cosa sia davvero mutato”. Infatti come scriveva Proudhon, la guerra è connaturale al genere umano; essa è “un fenomeno endemico nella società umana nel senso che l’uso organizzato della violenza si è verificato in ogni continente, in ogni epoca storica e in ogni civiltà. Anche se alcuni periodi sono stati più pacifici di altri, non vi è mai stata un’epoca completamente priva di conflitti armati”.

Da parte sua il potere militare “è importante sia per il suo impatto sul mondo reale, sia per ragioni teoriche. Da un punto di vista empirico, il potere militare determina l’entità dei vincitori in un conflitto armato, disegnando le mappe geopolitiche che emergono dopo le grandi guerre e, di conseguenza, l’ascesa o il declino delle grandi potenze”.

La guerra genera ordine (e quindi diritto) essa è, com’è capitato di sostenere (anche) a chi scrive, nomogenetica. Ed è quanto ritiene anche Andreatta “La tesi di questa ricerca è che esista un forte legame tra i modi di combattere e le caratteristiche culturali, sociali e istituzionali delle comunità politiche che li adottano. Anche se la guerra è spesso concepita come l’opposto della vita civile, il modo di combattere di una determinata società non è mai scollegato dal suo modo di vivere in tempo di pace. In altre parole, il modo in cui una società combatte getta luce sulle sue caratteristiche interne, … il modo di combattere è stato fortemente influenzato da caratteristiche culturali. Le società con una cultura più sofisticata – i greci e i romani nell’antichità, gli europei e gli americani nell’era moderna – hanno invece quasi sempre assunto la leadership militare. Sembra che, almeno sinora, la cultura non abbia portato tanto alla pace, quanto piuttosto alla vittoria”; per cui “questa ricerca si concentra sulle trasformazioni politiche e istituzionali e sugli effetti che esse producono sul potere militare”.

Nel complesso un primo volume assai interessante, cui seguirà un secondo dedicato al periodo contemporaneo (dalla rivoluzione francese ad oggi). E che, in certo modo, colma un (voluto) oblio e più ancora demolisce degli idola. L’oblio è quello della guerra progressivamente negletta dagli studi costituzionali (e correlati) contemporanei. Un tempo era normale considerare la guerra e il potere militare come parte (ed oggetto e problema) delle istituzioni e dell’assetto istituzionale. Filosofi e giuristi fino al XIX secolo (da Rousseau a Vattel) ponevano la guerra come problema reale e il conformare la comunità a prepararcisi come necessità: ancora G. D. Romagnosi lo tratta diffusamente. Ma poi anche i cenni diventarono episodici, per poi sparire del tutto, tranne in opere di specialisti oggi dimenticati come Otto Hintze, o militari come Ludendorff. A leggere un’opera di diritto costituzionale italiano moderno né la guerra né il potere militare è trattato: come se espungere tali argomenti dai libri potesse cancellarli dalla realtà. Il che non è.
Teodoro Klitsche de la Grange

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