lunedì 6 luglio 2015

Teodoro Klitsche de la Grange: «Responsabilità politica e giurisdizione»

Questo articolo, qui in editing con i tipi di “Civium Libertas”, esce contemporaneamente sul sito Behemoth. 

RESPONSABILITA’ POLITICA E GIURISDIZIONE

1. Può sembrare ovvio, nell’Italia contemporanea, che possa essere giudicato (e condannato) un parlamentare per averne corrotto un altro, al fine di ribaltare la risicata maggioranza che sosteneva il governo Prodi del 2006-2008, come nel processo a Berlusconi in corso a Napoli. Ma non lo è. Anzi, a ben vedere, è ovvio il contrario. Se si comincia a recitare il “salmo dell’uguaglianza”, ossia che tutti i cittadini sono uguali e quindi soggetti alla giurisdizione, il discorso ha il limite di “provare troppo” e di essere facilmente confutabile. Perché l’ordinamento dei poteri pubblici si fonda sul fatto che orwellianamente, alcuni “cittadini” sono più uguali degli altri. Ossia che taluni, i funzionari pubblici (in senso lato), hanno il diritto di comandare entro certi limiti (più o meno estesi), e i cittadini il dovere di obbedire.

E quindi ai rapporti di diritto pubblico è connaturale una cospicua dose di diseguaglianza. Per cui non è un argomento che possa andare oltre un talk-show, malgrado ossessivamente ripetuto. Ed esulerebbe dai limiti del presente scritto enumerare gli altri, assai meno frequentati e ripetuti.

Piuttosto nessuno si pone il problema che non tutti i tipi di potere (giuridico) e di responsabilità (che ne consegue) hanno gli stessi effetti, comportano le stesse conseguenze e la stessa funzione. Se le responsabilità prescritte per un funzionario pubblico in uno Stato legislativo, dove vige il principio di legalità, ossia della conformità degli atti delle burocrazie (amministrativa e giudiziaria) al dettato della legge (parlamentare o in casi “eccezionali” di fonte governativa), è sindacabile l’atto (o il comportamento) del funzionario nell’ “applicare” la legge, questo criterio può avere valore solo secondario per un ministro o un parlamentare, i quali hanno sempre poteri di direzione politica e (quasi sempre) di iniziativa legislativa, e per gli atti di maggior rilievo politico di loro attribuzione non hanno norme da applicare. L’essenza della responsabilità politica è la decisione e la congruità di questa al raggiungimento dello scopo (il bene comune): dell’altra (la responsabilità giuridica del funzionario) la conformità delle norme di grado inferiore a quello superiore (o del comportamento del funzionario alla norma osservanda).

2. Il che è di particolare evidenza quando il Parlamentare (o il Ministro) esercita i poteri di “direzione politica” (o di governo). I quali sono quelli più rilevanti e concernono (prevalentemente) sia i rapporti tra poteri ed organi dello Stato sia tra gli Stati (e poco o punto l’applicazione di norme). Il che risale all’epoca dei vagiti dello Stato borghese di diritto.

Quando, infatti, Montesquieu nell’Esprit des lois inizia ad esporre la teoria della distinzione dei poteri scrive “Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile.

In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o a termine, e corregge o abroga quelli esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. Il base al terzo punisce i crimini, o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato” (1).

Dato che organi come Parlamento e governo esercitano poteri diversi (legislativo, amministrativo e di “direzione politica”) sorse il problema di come sindacare (o non sindacare) gli atti che avrebbero dovuto – per altre ragioni – essere controllati giudiziariamente dagli altri. E nacque in Francia la dottrina degli “actes de gouvernements”.

Carrè de Malberg riteneva, al riguardo, che “Ciò che caratterizza, di converso, l’atto di governo è proprio d’essere, a differenza degli atti amministrativi, svincolato dalle necessità d’abilitazione legislativa e deciso dall’autorità amministrativa con un potere d’iniziativa libera in virtù di un potere proprio e che deriva da una fonte diversa dalle leggi; di guisa da poter qualificare (la funzione di ) governo, almeno in tal senso, come indipendente dalle leggi” e che esiste  “Una determinata sfera di attribuzioni, ch’è precisamente quella del governo, all’interno della quale esso occupa una posizione costituzionale analoga a quella del legislatore, nel senso  che,  proprio come il parlamento, trae i propri poteri relativi a queste attribuzioni direttamente dalla Costituzione” (2).

Per cui non essendo legislativa l’  “habilitation” ne deriva da un lato che essa consegue dalla stessa Costituzione; dall’altra che tali atti non sono soggetti a controllo giurisdizionale (cioè di conformità alla legge – non essendolo “per natura”): mentre gli atti amministrativi, anche se connotati da ampia discrezionalità, sono impugnabili in via giudiziaria, les actes de gouvernement, no. Ma ciò non esclude che, malgrado tali caratteri, siano conformi all’ordinamento giuridico (ordre juridique) vigente, dato che la Costituzione, che li autorizza, ne è la source fondamentale. E’ chiaro che il concetto di costituzione qui va inteso non in senso formale, ma come ritiene Barile, in un certo senso, per la natura delle cose.

Jellinek arriva a conclusioni simili, sul punto della “libertà” (e ragioni della stessa) degli atti di governo, partendo dalla distinzione tra attività statale “libera o vincolata” (3). L’una e l’altra rinvenibili in ogni assetto e regime politico. Per cui non è possibile (concepire e) dare esistenza a uno Stato in cui ogni attività statale sia mera esecuzione delle leggi  “uno Stato con un governo che agisse unicamente secondo le leggi, sarebbe un’assurdità politica: sull’indirizzo dell’attività statale emanante dal governo non può mai decidere una semplice regola giuridica” (4). Il problema si pose anche nel diritto italiano, dato che l’art. 31 T.U. 26/6/1924 nel Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art.24 del precedente T.U. 2/6/1889) prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico. E’ penetrante il giudizio di Barile che l’attività politica non può venir “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato” (5).

Anche Vittorio Emanuele Orlando nel trattare le “immunità” dalla giurisdizione di determinati organi “supremi” dello Stato scriveva “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto” (il corsivo è nostro) e Santi Romano nel trattare delle immunità parlamentari sosteneva “Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guarentigia” (6).

Sintetizzando, l’opinione sul punto più largamente – ed autorevolmente – condivisa consta di due asserzioni fondamentali: la prima che non è possibile (né opportuno, né naturale) che in uno Stato tutti gli atti di competenza del potere governativo-amministrativo siano soggetti al sindacato giudiziario; la seconda, anche data la pochezza (e vaghezza) della definizione degli atti “sottratti” al controllo del giudice, e la generalità del sindacato giudiziario, che le deroghe fossero “tassative”. Determinazione quanto mai ardua. La giurisprudenza francese (sulla sindacabilità da parte del Conseil d’État, ricondusse ad una liste jurisprudentielle tali atti, includendoci in particolare quelli relativi ai rapporti internazionali, quelli relativi ai rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della Vª Repubblica. In realtà, passando da un tentativo di definizione denotativa, come la liste jurisprudentielle, ad una connotativa, emergono quali criteri distintivi degli atti politici da un lato lo scopo per cui sono presi tali atti: la difesa della società o del governo dai nemici, il funzionamento delle istituzioni statali (necessità di avere un governo e quindi – in regime parlamentare - la fiducia del parlamento).

Per quanto riguarda (ma la soluzione non differisce un granché) la giustizia civile e soprattutto quella penale, scrive Schmitt che “Nelle controversie, che a seconda della loro fattispecie o oggetto, quando sia attuata una forma generale di giurisdizione, debbano essere decise per competenza dai tribunali generali – civili, penali o amministrativi -, il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi. In ciò consiste il vero problema della giurisdizione politica” (7).

3. Nel processo a Napoli, non si tratta di festini in villa – come nel “caso Ruby” – cioè di attività totalmente “privata” ma di materia costituzionale e quindi politica, essendo l’istituto della fiducia parlamentare previsto dell’art. 94 della Costituzione e, più ancora, costitutivo (e distintivo) della forma  parlamentare di governo.

Già Benjamin  Constant sostenne a tale proposito (cioè per giudizi con “materia” costituzionale, a carico dei ministri che i “I tribunali  ordinari, possono e debbono giudicare i ministri colpevoli di attentati contro gli individui; ma i loro membri sono poco adatti a pronunciare su cause che sono piuttosto politiche che giudiziarie; sono più o meno estranei alle conoscenze diplomatiche , alle combinazioni militari, alle operazioni finanziarie: conoscono solo imperfettamente la situazione dell’Europa, hanno studiato soltanto i codici delle leggi  positive, sono costretti dai loro doveri abituali a consultare soltanto la lettera morta e a chiederne soltanto la stretta applicazione” (8).

Sul fatto poi che la giustizia politica non avesse la stessa necessità di “espiazione della pena” di quella amministrata per reati comuni e che   lo scopo principale fosse l’allontanamento dal potere (nella specie) del ministro responsabile sosteneva “Da tutte le disposizioni precedenti risulta che i ministri saranno spesso denunciati, accusati talvolta, raramente condannati, quasi mai puniti. Tale risultato può, a prima vista, sembrare insufficiente agli uomini i quali pensino che, per i delitti dei ministri come per quelli degli individui, una punizione positiva e severa è pienamente giusta e assolutamente necessaria. Io non condivido però questa opinione. Mi sembra che la responsabilità debba perseguire soprattutto due scopi: quello di togliere il potere ai ministri colpevoli e quello di mantenere nella nazione, con la vigilanza dei suoi rappresentanti, con la pubblicità dei loro dibattiti e con l’esercizio della libertà di stampa nell’analisi di tutti gli atti ministeriali, lo spirito critico, un interesse abituale alla conservazione della Costituzione dello Stato, una partecipazione costante agli affari, in una parola un sentimento animato della vita politica” (9).

4. Nel caso, l’opinione criticata non tiene conto, in particolare, di due circostanze. Che la/e responsabilità è/sono giuridica/e (e giudiziaria/e) ma anche politiche (a tacer d’altro).

E che ciò che conta in tali questioni non è solo il quid ma anche il quis judicabit cioè chi ha il diritto (la potestà) di giudicare fatti del genere, essenzialmente politici, e le “sanzioni” che sono loro congrue.

Quanto al primo profilo fra tanti, è il caso di ricordare quanto sosteneva Jellinek: “Ad ogni titolare della posizione di organo statale incombe di fronte allo Stato una responsabilità individuale … Anche le Camere, solo però nella loro attività come organi collegiali dello Stato, sono libere da qualsiasi responsabilità. Per l’attività della sua funzione il membro di una Camera è soggetto ad una responsabilità, sia pur molto limitata, di fronte alla Camera stessa: responsabilità, che non può mai, però, colpire il suo voto. Pel contrario, il funzionario è civilmente, penalmente e disciplinarmente responsabile verso lo Stato del legale esercizio della sua funzione. Questa responsabilità è, di regola, esercitata mediante tribunali ed autorità disciplinari” (10).

Nella specie, tra gli organi costituzionali, la responsabilità politica consiste per il governo e i Ministri di esserlo verso le Camere, che possono sfiduciarli, per i parlamentari di non essere eletti alla successiva tornata. E quindi ad esercitarla è il corpo elettorale.

Con la conseguenza che se ad ottenere indirettamente gli stessi effetti è una sentenza non è violato tanto (e solo) il diritto del parlamentare a un giusto processo, ma soprattutto quello del corpo il quale ha il potere di accertare la responsabilità (politica) e di “irrogare le sanzioni” previste; che sono, in buona sostanza quelle che Constant rilevava: l’allontanamento (o la mancata conferma) del potere.

5. Senza necessità di ricordare il giudizio di Machiavelli che, per le accuse “contro alle ambizioni dei potenti cittadini”, riteneva non potessero essere congrui i mezzi della giustizia ordinaria “perché i pochi, sempre fanno a modo de’ pochi” (11), è appena il caso di ricordare che nello Stato borghese di diritto dalla materia e dai soggetti politici “deriva sempre il caratteristico allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenua il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generale” (12).

In effetti negli ordinamenti costituzionali degli Stati contemporanei, la materia ed i soggetti politici comportano forme, procedure e talvolta sanzioni a carattere derogatorio di quelle dei giudizi ordinari. Per fare qualche esempio: per la Francia è disposto dagli articoli 26 e 68 della Costituzione; per la Germania dall’art. 46; per la Spagna dall’art. 71 e dall’art. 102; per il Belgio dall’art. 45; per il Giappone dagli articoli 50, 51 e 75 della Costituzione. Quindi la regola della giustizia politica è proprio di essere derogatoria – in misura maggiore o minore, e nelle differenti soluzioni – di quella ordinaria.

Ossia proprio il contrario di quello che si vorrebbe far credere, servendosi di un’interpretazione strumentale del principio d’uguaglianza.

NOTE

(1)   Ésprit des lois, lib. XI, cap. 6.

(2)   Contribution à le théorie générale de l’Etat, Tome I°, Paris 1920, p. 526

(3)  G.Jellinek Allgemeine Staatslehre, trad. it., Milano 1949, p.177.Così la definisce  “attività libera è quella determinata soltanto dall’interesse generale, ma da nessuna speciale regola di diritto; vincolata, invece, quella che consiste nell’adempimento di un obbligo giuridico. L’attività libera è la prima per importanza, logicamente originaria; che sta di base a tutta la restante attività. È per essa che lo Stato fissa la sua propria esistenza, giacché la fondazione degli Stati non è mai l’esecuzione di norme giuridiche; è da essa che lo Stato riceve indirizzo e scopo della sua evoluzione storica; è da essa che procede ogni mutamento ed ogni progresso nella sua vita. Uno Stato, di cui tutta l’attività fosse vincolata, è una concezione irrealizzabile. Quest’attività libera si riscontra in tutte le funzioni materiali dello Stato, che si sono venute storicamente distinguendo; nessuna, senza di essa, è possibile. Il suo campo più vasto è nel dominio della legislazione, la quale, in confomità stessa sua natura, deve godere della maggiore libertà. Non meno importante, però, essa si mostra nell’amministrazione, dove questo elemento assume il nome di governo (Regierung)”(il corsivo è nostro).

(4) op. cit.

(5)  V. P. Barile voce “Atto del governo e atto politico” in Enc. Dir., vol. IV, p. 225 (il corsivo è nostro).

(6) Corso di diritto costituzionale, Padova, 1928, p. 222.

(7)  E prosegue “Non si tratta in questo problema press’a poco del fatto che senza riguardo a norme decisionali riconosciute contrapposizioni di interessi politici vengano risolte per mezzo di un procedimento giurisdizionale, cioè sono artificiosamente trasformate in controversie giuridiche, ma al contrario: per specie particolari di vere controversie giuridiche è previsto a causa del loro carattere politico un procedimento speciale o una speciale istanza. Nell’ambito della giurisdizione civile naturalmente ciò entra poco in risalto, ma lo è invece nelle materie penali o nelle divergenze con un oggetto della controversia di diritto pubblico”, Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1985, p. 182.

(8)  Principi di politica, trad. it.a cura di U. Cerroni Roma 1970 p. 125 ss.

(9)   Op. cit. p. 130 e prosegue “Sì: i ministri saranno raramente puniti. Ma se la Costituzione è libera e se la nazione è energica, che importa la punizione di un ministro quando, colpito da un giudizio solenne, è rientrato nella classe volgare più impotente dell’ultimo cittadino dal momento che la disapprovazione lo accompagna e lo perseguita? La libertà è stata egualmente preservata dai suoi attacchi, lo spirito pubblico è stato ugualmente raggiunto da una scossa salutare che lo rianima e lo purifica” ivi p. 131.

(10) Allgemeine Staatslehre, trad. it. Milano 1949 p. 306-307.

(11) Discorsi sopra la prima deca, di Tito Livio I, 7.

(12) Carl Schmitt op. cit., p. 183 (il corsivo è nostro).
Teodoro Klitsche de la Grange

Nessun commento: