giovedì 29 maggio 2014

No, il processo, no. - Sul “grande imbroglio” per eliminare Berlusconi...

Gli ultimi mesi ci hanno portato una recrudescenza del “complottismo”, ovvero di quella ricorrente spiegazione che vede negli accadimenti storici una mente/i che li ha voluti e pianificati, ovviamente a proprio beneficio (e sfruttando la dabbenaggine dei più). In genere il complottismo, almeno nell’Italia  repubblicana era una sindrome che affliggeva (prevalentemente) la sinistra. Questa volta la destra, e il complotto è il “grande imbroglio” per eliminare Berlusconi dalla guida del Governo e poi dalla scena politica.

Le prove apportate sono diverse ma si possono, in gran parte, più che contestare, interpretare diversamente.

Ad esempio: Napolitano chiamò Monti nell’estate del 2011 per sondarlo sulla futura nomina  a premier. Ma lo fece perché aveva l’intenzione di giubilare l’avversario Berlusconi, o perché questi e il sistema politico-istituzionale non riusciva a esprimere e realizzare una politica che allontanasse o riducesse la tempesta finanziaria che s’addensava?

Nel primo caso, la direzione dell’intenzione, direbbe un gesuita del ‘600, non era corretta, nel secondo si; almeno a ritenere, come il miglior pensiero politico, che la regola-principe della politica è salus rei publicae suprema lex.

Molti dati poi rimangono oscuri e molti continuano ad esserlo, sia perché se un complotto c’è, ed è un complotto gestito per così dire, da professionisti, non si scopriranno facilmente e sollecitamente i “congiurati” (se no che professionisti sarebbero?); se il complotto non c’è, non c’è nulla da scoprire.

Proviamo invece ad enumerare gli argomenti – anche presuntivi, che suffragano o meno (l’idea – e) la possibilità di un complotto: quale ne fosse l’obiettivo, di che tipo possa essere, l’identikit dei protagonisti, e perché e come sia riuscito. Anche per orientarsi sul da fare.

Contrario all’idea del complotto è che la situazione dell’economia mondiale, e in particolare dell’Eurozona del sistema politico-istituzionale italiano, forzasse il cambio della guardia Berlusconi-Monti; che era quindi non una libera scelta, ma una necessità.

Sicuramente ciò è – in larga parte – vero.

Ma con due correzioni fondamentali: la prima, che, comunque, vi erano forze decise a mandare Berlusconi a casa; la seconda che non era necessitata la scelta del successore (e la di esso azione di governo). E più in generale che le stesse forze che hanno difeso (avallato, assecondato) quella manovra, ne sostengono i presupposti “necessitanti”. Se a facilitarlo è stata la riduzione della sovranità degli Stati, sostengono che è un bene; se un eccesso di liberismo – a livello internazionale – nessuno intende ricorrere alle soluzioni di Friederich List; ove ad essere accusata è l’architettura dell’euro (e dell’Unione europea),  nessuno freme per pronunciare la requisitoria; ove si critichi la gracilità del sistema costituzionale italiano, si risponde che la Costituzione è la “più bella del mondo” come, giustamente, un comico dixit.

In altri termini, forse i  congiurati non hanno fatto un complotto, ma essi, ed altri ne sostengono tutte – o quasi – le condizioni che l’hanno favorito, e che sarebbe ora di cambiare.

Sull’obiettivo del complotto ossia se fosse di far cadere Berlusconi, occorre distinguere. Dato che a “pagar pegno” per la crisi dell’eurozona sono stati quattro governi (quelli di Grecia, Italia, Spagna e Francia), sostenere che l’obiettivo fosse Berlusconi appare riduttivo. Invece appare più probabile che l’obiettivo della crisi fosse quello di far dei soldi, e a farne le spese sono stati quei governi o perché ritenuti meno arrendevoli (dai “complottardi”) e/o troppo arrendevoli o comunque incongrui (dai cittadini).

Quello che invece appare un connotato, particolarmente evidente per l’Italia (e la Grecia), è che mentre in Francia e Spagna la crisi si è risolta – sul piano istituzionale – con l’alternanza tra partiti politici, in Italia il cambiamento è stato extra parlamentare ed extra politico, nonché assai poco democratico. Ancora una volta l’Italia è stata trattata  come l’anello più debole della catena (perché lo è, almeno tra i grandi Stati europei, quelli che un tempo erano chiamati le potenze). E perciò quello cui possono impunemente imporsi le terapie e i medici più sgraditi ai cittadini. A provarlo è la parabola del sen. Monti: osannato  quale salvatore dell’Italia (qualche giornale si spinse a considerarlo quello dell’Europa), dopo i non entusiasmanti risultati del suo governo ha avuto un primo drastico ridimensionamento coi risultati delle politiche del 2013: all’incirca il 10% dei votanti, grosso modo pari alla somma (alle precedenti elezioni e nei sondaggi) dei partiti che avevano costituito la coalizione elettorale pro-Monti. Il “valore aggiunto” elettorale di Monti era quindi pari a un prefisso telefonico. Peraltro aveva propiziato con la sua azione di governo la straordinaria ascesa del movimento di Grillo. Il quale prendeva quasi il triplo dei volti dell’ex rettore. Con i risultati delle recenti elezioni europee il movimento di Monti si riduceva alla percentuale dello 0,7% dei suffragi, meno di 200.000 voti espressi.

Una misura che ne conferma il gradimento minimo che incontra presso il popolo italiano.

Il che per qualcuno – cioè gli sponsor -  è un pregio, ma in politica è un limite gravissimo.

Ancor più nei frangenti critici: un governo sostenuto dal consenso è in grado di prendere decisioni e di farle accettare. Il consenso si converte in forza. Ma se manca quello, viene meno anche questa. Scriveva Federico II° di Prussia  che la potenza di un Sovrano si misura dalla fedeltà del popolo, dall’efficienza degli eserciti, dalla sicurezza delle alleanze e dalla consistenza del tesoro.

Lasciamo perdere eserciti e tesoro (punto dolente); le alleanze poi non sono state granché di aiuto. Il sostegno che ci hanno dato somigliava, per certi alleati, a quello che la corda offre all’impiccato.

Rimaneva la fedeltà (il consenso) dei cittadini (minimo): da qui la debolezza di un governo il cui principale sostegno, non essendo quello popolare, dipendeva da altri, cui doveva rendere conto. I quali perciò avevano motivo di preferire un governo gracile, ad uno, se non forte, almeno più robusto.
Quanto ai protagonisti, la prima domanda che si pone è sono nazionali o stranieri? La domanda appare oziosa in un paese come l’Italia, dove il più delle volte, chi trama all’interno trova il sostegno esterno, e chi lo fa da fuori, lo consegue all’interno. Il tutto facilitato non solo da specificità nazionali, non riconducibili ad aspetti istituzionali, ma dall’assetto policratico-pluralistico del sistema costituzionale.

Quindi appare probabile che siano interni ed esterni.

Quanto agli effetti del “complotto” ne ha avuto diversi. In primo luogo è servito a trasferire ricchezza italiana (e dagli altri paesi mediterranei) a rentiers nazionali e no, sotto forma di esosi tassi d’interessi, attraverso l’aumento delle imposte, già tanto elevate. L’IMU, l’IVA e così via, sono i “tributi”, le “indennità”, le “riparazioni” che i cittadini italiani hanno pagato ai rentiers, De Benoist sostiene probabilmente con ragione che ci troviamo nella fase invernale di un ciclo di Kondratieff, quello in cui il capitale è indirizzato ad impieghi prevalentemente finanziari.

Per cui la crescita del debito (e dei debitori) è appetita quale fonte d’impieghi la cui domanda nel settore industriale si va riducendo.

In secondo luogo (e quale mezzo al fine suddetto) di togliere i governi più scomodi.

Che l’obiettivo fosse condiviso da altri che vi hanno contribuito, con effetto sinergico, non toglie che i maggiori (anche se non unici) beneficiari siano probabilmente le oligarchie finanziarie che hanno lucrato sul cambio di governo.

Ma se così stanno le cose, a che serve, come richiesto da molti, che sulla vicenda s’istruisca un processo? A poco, anzi pochissimo; con la probabilità che sia dannoso.

Vediamo perché. Posto che s’arrivasse ad accertare (tra venti anni o giù di lì) autori, modi, tempi, fini del complotto, l’effetto sarebbe pressoché nullo. Una pura testimonianza storica. Ma non è questo il solo inconveniente, né il principale.

Gli è che tutta la vicenda è politica e come tale non è, per sua natura, idonea ad essere trattata con la carta bollata. Non solo perché in politica la risposta dev’essere pronta, a volte immediata per essere efficace, ma, del pari, perché i “beni protetti” di tutta la vicenda non sono quelli “classici” del diritto penale, come (ad esempio) i diritti personali all’integrità fisica o patrimoniale, ma l’indipendenza nazionale e la sovranità politica. Cioè le condizioni elementari e fondamentali per un’esistenza politica libera. Le quali si conservano non con i giudici e i carabinieri, ma con la volontà di non cedere e la disponibilità a reagire. Scriveva Constant sui colpi di Stato (ma vale anche per questa vicenda) “Ciò di cui c’è bisogno è che le istituzioni siano congegnate in modo tale che le parti politiche siano dissuase dall’usare la forza, che non vi trovino né l’interesse né i mezzi  e che se qualche forsennato li sospinge in questa direzione, la grande maggioranza dei cittadini sia pronta a resistere con la forza all’uso della forza. E’ questo che si chiama spirito pubblico” (1).

In fondo è stato molto più saggio l’elettorato italiano che ha già dato una risposta – eloquente – a sapere e soprattutto a volerla leggere: ha mandato con un mezzo (e un procedimento) politico a casa Monti e fatto esplodere il Movimento  di Grillo: cioè usando lo strumento disponibile, diretto a manifestare la propria volontà di non subire. Sicuramente non basta: ma se così non fosse stato i “congiurati” avrebbero avuto la soddisfazione di aver rubato in casa col consenso (la dabbenaggine) del padrone: e così ricevuto l’invito a riprovarci.

Sull’inidoneità della giustizia ordinaria a trattare di materia politica c’è peraltro tutta una letteratura che va da Machiavelli fino alla dottrina dello Stato borghese di diritto.

Il segretario fiorentino scrive dell’opportunità che l’autorità (a ciò preposta) proceda quando i cittadini “peccarono … contro lo stato libero”. Solo che si tratta di cittadini e non di stranieri; e se i cittadini fossero dei “potenti” occorreva un giudizio (e giudici) speciali “”Perché lo accusare uno potente a otto giudici in una republica  non basta; bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi” (2).

A Robespierre si deve una delle più efficaci argomentazioni sulla “linea divisoria” tra giurisdizione e politica, esposta nel processo a Luigi XVI; a Benjamin Constant d’aver sottolineato l’oggetto e lo scopo primario che pertiene (al potere e) alla responsabilità politica e, quindi alla giustizia politica: che la sanzione idonea per il colpevole è d’allontanarlo dal potere più che affliggerlo con la pena (3).

Basti, tra i tanti inconvenienti che incontrerebbe un processo politico, ricordare quello di eseguire un’eventuale sentenza di colpevolezza. Se quegli altissimi funzionari europei, di cui parla Geithner, fossero la Merkel o Barroso, che si fa: si manda un maresciallo a Berlino o a Bruxelles ad arrestarli? Significherebbe coniugare la velleità delle intenzioni con la comicità dell’impotenza.

Piuttosto che un processo, inutile e inopportuno, occorre che lo spirito pubblico vigili e che sia assicurata una coerente gestione e risposta politica. Uno degli inconvenienti di voler fare processi politici è pensare che questi e relative sanzioni siano la soluzione. L’effetto catartico e fondante del “sacrificio” del potente colpevole può essere iscritto tra le “costanti” della natura umana e della sua essenza politica (á la Girard), ma a patto che il sacrificio si esegua e non che finisca in una “sacra” quanto in definitiva innocua rappresentazione, come sicuramente avverrebbe. Far credere che i custodi del diritto possano esserlo della comunità (e dell’istituzione) significa disabituare i cittadini a prendere in mano il proprio destino di comunità, cioè lo specifico compito del popolo in una democrazia. Nel qual caso sarebbe l’ennesimo tentativo di spoliticizzare il popolo: fargli credere che alla politica si è trovato il surrogato giudiziario; allo spirito pubblico il palliativo delle sentenze.

Un passo ulteriore verso l’irrealtà e l’asservimento.

NOTE

(1)    Principi di politica (a cura di S. De Luca), p. 118, Soveria Mannelli, 2007 (il corsivo è nostro).

(2) vivendo lui male, e per tale mezzo, senza far venire l’esercito spagnuolo, arebbono sfogato l’animo loro” Discorsi, I, VIII.

(3)Ricordiamo “Da tutte le disposizioni precedenti risulta che i ministri saranno spesso denunciati, accusati talvolta, raramente condannati, quasi mai puniti. Tale risultato può, a prima vista, sembrare insufficiente agli uomini i quali pensino che, per i delitti dei ministri come per quelli  degli individui, una punizione positiva e severa è pienamente giusta e assolutamente necessaria. Io non condivido però questa opinione. Mi sembra che la responsabilità debba perseguire soprattutto due scopi: quello di togliere il potere ai ministri colpevoli e quello di mantenere nella nazione, con la vigilanza dei suoi rappresentanti, con la pubblicità dei loro dibattiti e con l’esercizio della libertà di stampa nell’analisi di tutti gli atti ministeriali, lo spirito critico, un interesse abituale alla conservazione della Costituzione dello Stato, una partecipazione costante agli affari, in una parola un sentimento animato della vita politica… Sì: i ministri saranno raramente puniti. Ma se la Costituzione è libera e se la nazione è energica, che importa la punizione di un ministro quando, colpito da un giudizio solenne, è rientrato nella classe volgare più impotente dell’ultimo cittadino dal momento che la disapprovazione lo accompagna e lo perseguita? La libertà è stata egualmente preservata dai suoi attacchi, lo spirito pubblico è stato egualmente raggiunto da una scossa salutare che lo rianima e lo purifica” in Principi di politica (a cura di V. Cerroni) Roma 1970, pp. 130-131.

Teodoro Klitsche de la Grange

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