giovedì 13 febbraio 2014

Teodoro Klitsche de la Grange: Nuove riflessioni sulla “legalità che uccide”.

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1. Non è stata dedicata dai media alla motivazione della sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale  che una frazione modesta dell’attenzione tributata al dispositivo. Non appare vivace neanche il dibattito tra gli “addetti ai lavori”. Ed è un peccato perché la sentenza, nelle sue esternazioni – ed implicazioni – è tra le più interessanti della Corte, la quale nell’abbondanza di pronunce su “minutaglie” normative, non ha molte occasioni di occuparsi di materia costituzionale (in senso stretto), come il sistema d’elezione del Parlamento.  Tra i diversi punti che la sentenza solleva, è il caso di affrontarne uno.

Ed è quando la Corte scrive: “E’ evidente, infine, che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte la normativa che disciplina  le elezioni per la Camere e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale  eventualmente adottata dalle Camere.

Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate,  compresi gli esiti delle elezioni svoltesi  e gli atti adottati dal Parlamento eletto. Vale appena di ricordare che il principio secondo il quale gli effetti delle sentenze di accoglimento di questa Corte, alla stregua dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, risalgono fino al momento di entrata in vigore della norma annullata, principio «che suole essere enunciato con il ricorso alla formula della c.d. “retroattività” di dette sentenze, vale però soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984).

Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti.

Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali.

Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. E’ pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare. Tanto ciò è vero che, proprio al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione a prevedere, ad esempio, a seguito delle elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti «finchè non siano riunite le nuove Camere»… ”.

Detta motivazione, nella conclusione non contestabile, rende palese il fine di salvaguardare l’esistenza dell’organo-Parlamento, e di quelli dallo stesso “dipendenti”, dagli effetti che da una sentenza sull’invalidità della composizione delle camere, potevano (logicamente) trarsi.

2. Ossia, dal principio – generalissimo – della nullità derivata, ripetuto da millenni: quod nullum est nullum producit effectum (quindi, soprattutto quello di porre in essere altri atti validi); quod non est confirmari nequit; e nel diritto vigente richiamando in tanti testi vigenti (v. tra gli altri, art. 604, IV comma c.p.p.; art. 159 c.p.c.; art. 829 c.p.c.) e in ancor più numerose pronunce giudiziarie (1).

La nullità derivata si applica – in linea generale – anche per gli atti formati da organi (o uffici) non validamente costituiti (v. Cass. pen., 26/04/1989; 1; 2; 3).

Ne consegue, a voler applicare detto principio (generalissimo) che le Camere invalidamente elette e altrettanto invalidamente composte (ma tranquillamente agenti) avrebbero dovuto essere rispedite a casa, convocando nuove elezioni.

La Corte ha cercato in tutti i modi di evitare la conseguenza (ovvia) della propria decisione ricorrendo a delle giustificazioni legali poco plausibili, e ad una (non legale) sicuramente condivisibile.

Appartiene al novero delle prime il richiamo ai “rapporti esauriti” per la compiuta chiusura del procedimento elettorale, onde sarebbero salvaguardati gli atti successivi delle camere illegalmente elette e composte. In breve: un procedimento di elezione – o nomina – illegale dell’organo concluso rende legali gli atti dello stesso, proprio perché concluso.

Tutto il contrario di quanto emerge dal diritto passato, vigente (e vivente).

È corretto, al contrario, il richiamo al “principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali.

Perché è condivisibile, cosa ne consegue e dove porta? anche considerando la dottrina costituzionale?

Otto von Bismarck
3. Una delle difese più appassionate di quel principio – decisivo per la storia europea successiva (2)  - la fece Bismark in un famoso discorso alla dieta prussiana. Diceva il cancelliere che “Uno statista, assai esperto in materia di costituzione, ha detto che l’intera vita costituzionale è sempre una serie di compromessi” se il compromesso non si trova “allora s’interrompe la serie dei compromessi e al loro posto nascono i conflitti, e i conflitti, visto che la vita dello Stato non può mai arrestarsi, diventano questioni di forza; chi ha la forza nelle mani tira innanzi per suo conto, perché appunto la vita dello Stato non può mai arrestarsi neppur un istante.” E dopo aver esaminato le varie posizioni e ammesso che  nella Costituzione vi fosse una lacuna (relativa all’approvazione del bilancio dello Stato) così si esprimeva “Non terrò più a lungo dietro queste teorie: basta a me la necessità che lo Stato esiste e che nella visione più pessimista esso non può lasciar accadere quello che si verificherebbe quel giorno che le pubbliche casse fosser chiuse. La necessità sola è quella che decide; di questa necessità abbiamo tenuto conto, e voi stessi non pretendereste certo che il pagamento delle rendite fosse sospeso e che non corrispondessimo agli impiegati i lor stipendi” e conclude sul punto “ Che il presente stato delle cose sia contrario alla Costituzione lo contesto nel modo più formale adesso come prima” (3).

Ma non è men vero che quanto sostenuto da  Bismarck in tale discorso sia condiviso dalla migliore dottrina del diritto a cominciare da Santi Romano, per il quale la necessità è fonte di diritto, superiore alla legge (4); o nelle pagine di Heller (5); ed è conseguente all’affermazione di Sieyés che “la Nazione è tutto quel che può essere per il solo fatto d’esistere”, per cui finchè esiste non può essere privata dal governo costituito, e così della propria capacità d’azione ed esistenza politica, per sentenza (6).

Tuttavia, ancorché condivisibile, tale assunto della Corte non è legale: è costituzionale ma non legale.

Non è legale per i motivi esternati dalla Corte nella sentenza: urta contro quanto si può desumere dagli articoli  ivi citati della Costituzione. Non è neanche costituzionale nel senso più diffuso, della costituzione c.d. formale (cioè quello preferito dai normativisti), per la medesima ragione. Ne consegue che la Corte ha fatto uso, (punto 7.0 della motivazione della sentenza) non di quel concetto di costituzione, ma di un altro. A prescindere, per detto concetto, dall’ovvio richiamo a Schmitt (7), si può ricorrere – per chiarirlo – alla concezione di Lavagna di costituzione in senso sostanziale, sinonimo di ordinamento costituzionale (8). Precisandolo ulteriormente e sotto il profilo funzionale, la costituzione “necessaria” o “essenziale”, e la forma qui dat esse rei, quella che rende possibile l’azione e l’esistenza politica della comunità e dell’istituzione.

Per cui la parte della Costituzione che consente quelle non è “annullabile” per sentenza – o meglio la sentenza non si applica perché non si può annullare per decisione giudiziaria (anzi a ben vedere neppure giuridica) uno Stato.

Una norma (statale) vige perché è voluta e emanata da uno Stato il quale “non è un astrazione e si realizza in concreto”: senza quel realizzarsi in concreto, non c’è nessuna norma che possa “vigere” ovvero che sia (più o meno efficacemente) applicata.

La conseguenza delle affermazioni della Corte non si limitano a quanto sopra. C’è da aggiungere che non c’è scritto in alcun luogo della Costituzione formale che occorre far salvo “il principio fondamentale della continuità dello Stato”. E’ appena il caso di cennare che la Costituzione parla di principi (v. atti 1-13); ancor più i costituzionalisti (sia vetero che neo) che trovano conforto nel fatto che la scriptura della costituzione chiarisca quali sono i principi (anche se quelli scritti non esaurirebbero la  “classe-principi”); ma nessuna norma scritta, neanche estendendone il significato a dismisura, prevede il principio fatto proprio della Corte, per non applicare (o meglio applicare a metà) la propria sentenza.

Il che pone il problema se non avesse ragione De Maistre allorché scriveva che  ciò che “c’è di più essenziale, più intrinsecamente costituzionale e di veramente fondamentale non è mai scritto e neppure potrebbe esserlo senza mettere in pericolo lo Stato” (9). In effetti la pronuncia in esame conferma la giustezza  della tesi del pensatore controrivoluzionario.

Concezione che sia prima che dopo De Maistre è stata condivisa da pensatori politici e giuristi non foss’altro perché, prima delle rivoluzioni francese e americana quasi tutte le costituzioni non erano scritte né formulate in atti appositi e organici; dopo, anche se poche, ve ne sono state (di non scritte); ma nessuno l’ha formulata con la radicalità del pensatore sabaudo (10).

Il tutto pone un altro problema: se è vero che la  Costituzione non scritta esiste e prevale – spesso – su quella non scritta – che valore può avere limitare alla costituzione formale e alle di essa norme, valori, principi il carattere costituzionale? (11)

Mortati scriveva che “la pretesa di esaurire nella Costituzione scritta l’intero sistema si è rivelata sempre più illusoria” (12). E in ciò si può sintetizzare il “nocciolo duro” di quanto espresso da tanti, che fondano la Costituzione scritta su elementi non scritti e neppure giuridici, nel senso  - tra l’altro - di fondare il diritto senza essere giuridici (e normativi) né (in larga misura) giustiziabili (Justiciables). Quel che parimenti interessa è che proprio tali elementi e presupposti non scritti sono quelli squisitamente costituzionali nel senso di co-stituire (cioè tenere insieme in modo stabile e ordinato) una comunità politica (13).

Ma proprio per questo il contributo che la Costituzione scritta può dare all’ordinamento costituzionale è secondario. Tanto per fare un esempio quasi tutte le costituzioni moderne sono frutto di una decisione deliberata, la quale presuppone l’esistenza sia della comunità politica che del potere costituente. E l’uno e l’altro non sono “modificabili” attraverso una procedura giuridica perché sono essi a costituire le condizioni minime perché una costituzione (atto del potere costituente) esista e abbia validità; con l’ulteriore conseguenza che ogni norma costituzionale e in generale la costituzione stessa debbano interpretarsi nel senso di presupporre l’esistenza della comunità politica e del potere costituente. Interpretare o applicare le norme costituzionali in senso contrario a detti presupposti costituirebbe un colpo di Stato. Che se è tale, ha bisogno del sostegno di frazioni organizzate, anche dell’opinione pubblica; se è altro, diventa inefficace, fonte solo di confusione e decomposizione.

D’altro canto l’affermazione della Corte conferma altre due circostanze presupposte. La prima l’applicazione del principio di Spinoza che ogni cosa esistente “quantum in se est, in suo esse perseverare conatur”.

Il che comporta che l’esistente prevale sul normativo; e questo vale in quanto e se non in contrasto con quello.

La costituzione è insieme l’istituzione e regolazione dei poteri di governo e la garanzia dell’esistenza politica e dell’azione della comunità (e dell’istituzione in cui è organizzata). Uno degli aspetti (e finalità) della quale è la durata (cioè – anche – la continuità), come scriveva Hauriou e come, analizzando il principio del “conatus” scriveva Spinoza.

L’altro, che il politico è decisivo rispetto al giuridico: il che non è altro che una specificazione della prevalenza dell’esistente sul normativo. Anche questa ripetuto da tanti che non è il caso d’insistervi, dati i limiti di questa nota.

Piuttosto c’è da chiedersi che ruolo nella comprensione ed elaborazione di una teoria costituzionale, abbia quanto ripetuto da cori di giuristi in questo secondo dopoguerra, cioè norme, valori, principi (questi intesi in senso normativo e non di forma politica). La risposta è ovvia e confermata, tra l’altro, da questa sentenza: contingente e secondario.

Contingente perché necessario perché una comunità esista ed esista politicamente e che vi siano organi in grado di assicurare l’esistenza e l’azione politica: che questi poi debbano fare questo o quell’altro, applicare questa regola o quel valore è contingente, purché non incide sull’esistenza ma, semmai, sul modo di questa. E così è secondario, perché non concerne l’esistenza della comunità, cioè l’essenza, cioè che “dat esse rei” ma solo l’accidentalità del tipo e modi scelti per la convivenza in comune in un dato momento storico.

NOTE

(1)  v. Cass. civ., sez. I, 28/07/2006, n. 17247; Cass. civ., sez. trib. 08/02/2006, n. 2798; C. conti, sez. I giur. centr. app., 03/09/2004, n. 303/A; C. Stato, sez. V, 17/09/1996, n. 1141; C. Stato, sez. IV, 03/07/1986, n. 458; e pluribus.

(2) Qualcuno scriverebbe purtroppo; dalla determinazione che Bismark dimostra in quel discorso derivò la riunificazione della Germania, fatto del quale – ancora recentemente – molti non risultano entusiasti, a cominciare da un politico fine come il defunto Andreotti.

(3)   V. discorso del 27-01-1863.

(4)  La necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale ed assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non habet legem». Può anche applicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso, «salus rei publicae suprema lex». Diritto costituzionale generale, Milano 1947 p. 92.

(5) Tra l’altro ricordiamo “Di fatto, l’unità statale non ci è data né come unità organica, né come unità frutto di una finzione, ma come un tipo particolare di unità di azione umana organizzata: la legge dell’organizzazione è la legge fondamentale della formazione dello Stato. La sua unità è l’unità reale di una struttura d’azione la cui esistenza viene resa possibile nella forma dell’interazione umana, tramite l’agire di specifici organi consapevolmente indirizzato alla formazione effettiva dell’unità” v. Dottrina dello Stato, Napoli 1988, p. 355.

(6) A cui corrisponde che, avendo il potere costituente l’esistenza di quelli costituiti dipende dalla volontà nazionale.

(7)   Verfassungslehre, trad it. di A. Caracciolo, Milano 1984, pp. 15 ss.

(8) Lavagna sosteneva che “del contenuto generale degli ordinamenti costituzionali, si devono distinguere parti necessarie ed eventuali. Le prime saranno rappresentate dalla materie necessariamente, ancorché implicitamente  regolare, acciocché uno Stato esista. Le seconde dalle materie che, in seno alle prime o anche al di fuori di esse, risultino volta a volta disciplinate ed assorbite nel sistema, secondo criteri materiali o formali” v. Diritto costituzionale, Milano 1957 p. 166; di seguito scrive che “Secondo una opinione assai diffusa e, possiamo dire classica, il diritto costituzionale è, dal punto di vista sostanziale, quella parte dell’ordinamento giuridico statale che riguarda l’organizzazione dei poteri sovrani; vale a dire del governo in senso lato”, op. loc. cit. (i corsivi sono nostri).

(9)    «Que ce qu’il y a de plus essentiel, de plus intrinsèquement constitutionnel et de véritablement fondamental, n’est jamais écrit, et même ne saurait l’être, sans exposer l’état» Des constitutions politiques, Paris s. d., De Maistre fa quest’affermazione nel noto contesto della « storicità » anni della  « provvidenzialità » degli ordinamenti, criticando con l’affermazione di Thomas Payne che una costituzione non esiste se non la si può mettere in tasca. E invece esiste eccome.

(10) Neppure il bolscevismo (nascente) al potere, che accusava d’ipocrisia la redazione in forma scritta delle costituzioni borghesi “Da questo punto di vista bisogna sempre distinguere in un regime borghese la Costituzione scritta dalla non scritta, cioè un «foglio di carta» col nome di Costituzione dal reale rapporto delle forze sociali d’un dato paese” così (v. P. Stutcka “La costituzione della R.S.F.S.R. in domande e risposte”, Milano 1920), è stato così consequenziale. Non foss’altro perché limitava l’ “ipocrisia” della forma scritta alle costituzioni borghesi; mentre De Maistre considerava la propria concezione valida per tutte le costituzioni.        

 (11) Questo senza voler introdurre la nota distinzione tra materia costituzionale e costituzione formale, che è un problema a latere.

 (12)  v. C. Mortati voce Costituzione in Enciclopedia del diritto, vol. XI, p. 181.

 (13) Di solito poi scrittura e “giudiziabilità” crescono se dai “piani alti” dell’ordinamento si va verso quelli “bassi”.


Teodoro Klitsche de la Grange

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