mercoledì 5 settembre 2012

Teodoro Klitsche de la Grange: Rec. a Alain de Benoist - Sull’orlo del Baratro.

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Alain de Benoist Sull’orlo del Baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro, Arianna Editrice (www.ariannaeditrice.it), Bologna 2012, pp. 182, € 9,80.

Quando si produce una crisi, il tipo di reazione più inadatta a superarla è quella di ascriverne la colpa, in blocco e “a prescindere” al “sistema” che l’ha prodotta.
Questo perché da una canto le emergenze fanno parte dell’esistenza e della storia umana; dall’altro – e di conseguenza – il problema che si pone è quello, comune a tutti i precedenti stati critici – di individuarne le cause al fine di mettere in opera i cambiamenti necessari. Il che non significa che la congiuntura negativa non è stata generata (anche) dagli squilibri del sistema; ma che è decisivo accertarne le cause per mettere in opera le terapie (i cambiamenti) opportuni.
In tal senso tale opera del pensatore transalpino è, come sempre, acuta, stimolante e anticonformista.
In primo luogo de Benoist rileva l’insufficienza di interpretare l’attuale come una delle ricorrenti congiunture del sistema capitalista. A costituirla – e ad aumentarne la pericolosità – sono tre fattori convergenti: il primo è quello (universale) della “ricorrenza” delle emergenze capitaliste; il secondo della globalizzazione; il terzo dell’ “impero” americano.
A proposito del primo l’autore afferma che occorre distinguere tra crisi cicliche, congiunturali e sistematiche, strutturali “i cicli messi in evidenza fin dal 1926 da Kondratieff hanno una durata oscillante tra i 40 e i 60 anni, che comprende due fasi.Nella fase A, ascendente, i profitti sono generati fondamentalmente dalla produzione, mentre nella fase B il capitalismo, per continuare a far aumentare i profitti, deve finanziarizzarsi. I capitali diventano sempre più titoli di speculazione sull’avvenire, perdendo la loro funzione di investimenti necessari al lavoro”. E molti economisti “pensano che oggi siamo nella fase B di un ciclo iniziato circa 35 anni fa e che la crisi finanziaria mondiale, apertasi negli Stati Uniti nell’autunno 2008, sia proprio una crisi strutturale, corrispondente ad una rottura della coerenza dinamica dell’insieme del sistema”. Alla tesi che contesta de Benoist contrappone la propria del triplice fattore “La spiegazione addotta il più delle volte per interpretare le origini della crisi attuale è l’indebitamento delle famiglie americane a causa dei  prestiti ipotecari immobiliari (i famosi subprimes). Ciò non è falso, ma si dimentica di dire perché si sono indebitate”. E la spiegazione del pensatore transalpino è che, diminuendo i profitti industriali, secondo il ciclo di Kondratieff, si è puntato su quelli finanziari, in particolare sul credito ai consumi, al fine di mantenere elevata (e crescente) la domanda. Col risultato di un indebitamento eccessivo. All’insorgenza del primo inceppamento del sistema, la macchina credito-consumo-produzione entra in crisi (sistemica).
Il che, come rileva de Benoist, significa anche il venir meno del “compromesso” fordista, per cui l’aumento dei salari determinava quello dei consumi (si traduceva cioè, indirettamente, in un incremento dei profitti per i datori di lavoro). Il capitalismo finanziarizzato  contemporaneo si sostiene sull’altra “gamba” della delocalizzazione della produzione dai paesi ad alto costo della manodopera  (Occidente e Giappone) a quelli a basso costo (India ed altri). Il tutto permette di non aumentare, anzi di diminuire le retribuzioni nel “primo mondo”. Le produzioni dei paesi emergenti sono fatte in dumping: con manodopera sottopagata, regimi fiscali estremamente tolleranti (non si dimentichi che quasi tutti i paesi ex-comunisti hanno adottato la flat-tax e comunque sistemi a bassa pressione fiscale), condizioni di produzione del tutto libere da preoccupazioni ambientali (e quindi anche per ciò più economiche).
Che fare? Il pensatore transalpino riprende le tesi di Friederich List e  ritiene che una certa dose di protezionismo potrebbe stimolare la ripresa della domanda nella zona euro. A questo si oppone però il “pensiero unico” liberista, che prende per dogmi quelle che sono soluzioni che spesso funzionano bene, ma, magari meno frequentemente, finiscono per provocare danno, e quindi occorre valutarle pragmaticamente, e non farne articoli di fede. Anche perché il primo dovere dei governi è quello di conservare l’esistenza e il benessere della comunità, e non prestar fede a dogmi e teorie, di qualsiasi provenienza e fattura.
La critica di de Benoist al capitalismo iperliberista e finanziarizzato non è – ovviamente – economicista. Anzi si rivolge in primo luogo all’antropologia ed alla visione del mondo che quello presuppone nonché alle conseguenze che implica. L’homo aeconomicus dei liberal-liberisti (e più in generale, dagli economisti, anche non liberitsti) non esiste concretamente. Vale per questo, come, anzi di più, per l’uomo dell’ideologia dei diritti umani, l’ironia di de Maistre, che nella sua vita diceva di aver conosciuto francesi, tedeschi, italiani, russi, cinesi, ma l’uomo (astratto) mai.
Una notazione del recensore: la caratteristica più “esclusiva” del capitalismo contemporaneo – e di tutto ciò che porta con se - tecnocrazia, liberalismo debole e “privatizzato”, gouvernance, globalizzazione è di non avere una dimensione (e visione) politica né di riuscire a costruire una “forma” politica, nel senso di un’organizzazione comunitaria costruita intorno ad autorità, valori e procedure di legittimazione.
Questa è la principale (ed essenziale) differenza tra il pensiero borghese statu nascenti, il (primo) “capitalismo”, che costruisce lo Stato rappresentativo basato su distinzione dei poteri e tutela dei diritti fondamentali, sulla Nazione e sui cittadini: è una forma politica coerente e soprattutto potente. In quanto tale è un pensiero costruttore e morfopoietico. Mentre il pensiero borghese (decadente) nostro contemporaneo, sotteso (e sottoposto) al potere finanziar-mediatico, non delinea una propria forma politica, non elabora idee politicamente costruttive (Nazione, Popolo, rappresentanza); non prospetta una forma di governo (oligarchia? impero? federazione? e di che?). Il suo connotato principale, è, di converso, negare la politica (e il politico) senza riuscire a dar forma qualcosa di alternativo. Anche perché la politica non ha alternative, come pensava già Aristotele (l’uomo come zoon politikon). E così è essenzialmente distruttivo. Ma poi?
Teodoro Klitsche de la Grange

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